TALVOLTA UNA MASCHERA DICE PIÙ COSE DI UN VOLTO di Letizia Gariglio

(articolo pubblicato su Parole in rete nel novembre 2020)

«Talvolta una maschera dice più cose di un volto», affermava Oscar Wilde. In questi tempi sul nostro volto applichiamo un finto volto. Lo  scopo non è evitare di essere riconosciuti, nessuno di noi (o quasi) è contento di rinunciare alla propria identità, ciascuno accetta di applicare il diaframma imposto accompagnando al gesto una dose di superstiziosa speranza, diversa per ognuno, di preservare la  salute personale; qualcuno più virtuoso si vanta di voler preservare anche la salute degli altri. Riponiamo nella attuale maschera l’aspettativa che il virus tanto temuto la veda, la riconosca, se ne allontani spaventato. Noi sappiamo in modo scientificamente provato, e dunque in modo razionale, che non può proteggerci più di quanto potrebbe fare una gratella nel ripararci dall’acqua, però una parte di noi, del tutto irrazionale, crede, o finge di credere, che davvero il camuffamento salvaguardi la nostra incolumità. Un fragile, sottile dubbio mi percorre: che anche questa maschera possieda un fondo, un residuo, un’impronta di qualche rituale magico? Forse si propone, come le maschere gorgoniche di valore apotropaico, di spaventare e allontanare le presenze umane o demoniache indesiderate. 

Certamente uno fra gli aspetti più belli della figura umana, quello del sorriso, è definitivamente penalizzato. Konrad Lorenz ci ha spiegato quanto il sorriso sia stato importante nell’evoluzione dell’umanità, con la sua funzione di ritualizzazione  dell’aggressività: si mostrano pur sempre i denti! In ogni caso, anche quando sorridiamo in modo più discreto, attraverso il sorriso comunichiamo qualcosa. E per farlo abbiamo bisogno di molti muscoli, coinvolgiamo le guance, le labbra, per confermare una condizione relazionale, per rivelare uno stato d’animo, per trasmettere ad altri il nostro compiacimento, per offrire disponibilità e cordialità, per incoraggiare, ma anche per ammettere la nostra timidezza, per suggerire un quid di ironia, per introdurre dubbio o imbarazzo. Dietro la mascherina tutto questo va perduto.

C’è un ulteriore aspetto preoccupante, legato alla respirazione, di tipo fisico e insieme spirituale. “Prendendo” aria  alimentiamo il nostro apparato respiratorio, che si connette a quello nervoso, in un tutto organico.Le pratiche yogiche della respirazione profonda hanno lo scopo di favorire una migliore ossigenazione a livello fisico, che produce energia nonché benefici effetti su sistemi diversi, compreso quello linfatico, aiutando a calmare, a eliminare stress e ansia. Chiaramente sul piano puramente fisico la mascherina procura dispnea, dal momento che la protezione si riempie in fretta e trattiene anidride carbonica. Ma ha una valenza negativa anche sul piano spirituale, di fatto bloccando un atto respiratorio pieno. In un’ottica non materialistica, infatti,  il respiro è il tramite fra il piano del corpo fisico e quello, più spirituale, dei corpi sottili. Dare valenza negativa a una corretta respirazione, di fatto impedendola, umilia profondamente la “via dell’armonia”, come ben sanno tutti coloro che attuano pratiche di meditazione con tecniche di respirazione, le quali hanno lo scopo di far assorbire prana e energia vitale: la sorgente principale di prana è l’aria.

A parte ciò dobbiamo ammettere che la “mascherina” riesce benissimo nella sua azione di dividere, distanziare, separare, disgiungere… fino al temuto risultato finale del frammentare, disunire, disgregare. Sento con raccapriccio che questa roba, di cui forse vogliamo sminuire il potere chiamandola “mascherina”, non ci fornisce, malgrado il diminutivo, una qualità ulteriore di espressione, ma ce la toglie: se non nasce come mezzo di nascondimento, certo lo diventa.

Qualcuno (pochini) avverte il pericolo della distanza, che porta inevitabilmente al distacco, alla considerazione dell’altro come soggetto sempre più indesiderabile, qualcosa da tenersi lontano da sé. Molti, sempre più egocentrici, se ne fregano di pensare alcunché e badano alla salvaguardia della propria pelle: andrebbero in giro anche con una maschera da apicultore o magari con un più efficiente modello anti-gas. Chi emana sostanze venefiche? Gli altri, naturalmente, tutti gli altri, compresi – notate la sottigliezza –  i membri della stessa famiglia. 

A parte gli esagerati, gli altri indossano la mascherina in modo negligente, tenendola appesa sul mento come una novella barbetta, spostandola un po’ su e un po’ giù tra naso e bocca. Posseggo un libro dove sono raffigurati in tempo di guerra cavalli e cani dotati di mascherina. Che ne dite? L’idea è da prendersi in considerazione? … magari per gli animali domestici.

Mentre distanziamo, tuttavia, nelle parole si insinua il contagio del “bipensiero” e in modo pandemico si fa strada nelle persone l’accettazione del nuovo significato che si dà al concetto di “distanziamento”, che  si ingigantisce di valore a mano a mano che la parola viene ripetuta, e così si distanzierà sempre di più: a scuola, sul lavoro, nella vita associativa e sportiva, nelle arti e nello spettacolo…chissà perché solo sui bus non si riuscirà a distanziare. Nel distanziamento siamo ampiamente aiutati dalle campagne mediatiche di allarmismo che danno manforte alla diffusione della paura, bloccando le spinte vitali di ciascuno: la spinta vitale vuole coraggio.

Ho letto con attenzione la “Dichiarazione di Great Barrington”, redatta il 4 ottobre 2020 da un gruppo di epidemiologi preoccupati per gli effetti che nel mondo sta producendo il diffuso distanziamento. Il gruppo di studiosi che ha firmato il documento è piuttosto preoccupato  circa gli affetti dannosi che producono i blocchi sulla salute fisica e mentale e consiglia un approccio diverso  alla pandemia di Covid, proponendo di sostituire le misure attuali che vengono prese in generale dai Governi dei diversi Stati, sostituendole da forme di “protezione focalizzata”. Sono convinti che:  “Le attuali politiche di blocco stanno producendo effetti devastanti sulla vita pubblica a breve e lungo periodo”. E ancora: “(La trascuratezza verso altre malattie) porterà negli anni a venire un aumento della mortalità. Saranno i ceti inferiori e i giovani a pagare il prezzo più alto”.  

Intanto si compie la manipolazione per mezzo delle parole: se qualcosa è utile a noi stessi, come per esempio il nuovoconcetto di “distanziamento” in grado di salvarci da rovina e morte, la parola “distanziamento” finirà con il possedere, accanto al vecchio significato di divisione anche quello nuovo di pratica salvifica, e presto noi abbandoneremo la percezione negativa che prima accompagnava la parola, per affiancarla in in primo tempo a una sensazione positiva: verrà poi un momento in cui dimenticheremo la visione vecchia e predominerà solo quella nuova

Intanto i mass-media accreditati ( i mainstream) faranno rimbalzare le parole di cui ci stiamo occupando. A ogni giro di giostra televisivo su morti e feriti (mai i sani) la manipolazione delle parole si rinvigorisce, le parole si distorcono dal loro significato originario, finiscono con il nutrirsi del significato opposto.

Se parole  come “condivisione”, “relazione”, “congiungimento” acquisiranno valore sempre più negativo, allora forse qualcuno sta facendo un lavoro accurato nel manipolare la nostra psiche.

Ma siccome nel bipensiero (su cui mi sono dilungata in un articolo precedente), possono coesistere due realtà in piena contrapposizione fra loro, ecco che possiamo gettarci sul web, dove grazie alla “neolingua” le nostre condivisionisaranno gradite, soprattutto da perfetti sconosciuti cui abbiamo tributato la nostra amicizia. E così finalmente potremo virtualmente socializzare, lasciando trionfare il nostro (vero) narcisismo.

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LA SCUOLA E LO ZEN di Letizia Gariglio

Quando ho cominciato a scrivere questo articolo sulla scuola dopo aver  dato il nome al file ho riso un sacco per il refuso: c’era scritto “La suola e lo zen”. E subito ha aleggiato su di me l’aura di Gianni Rodari: mi è piaciuto questo scherzo, che mi ha subito fatto venire in mente gli insegnamenti del grande pedagogista, oltre che grande scrittore. Mi faceva piacere inserire questa “suola” nel panorama degli errori creativi che Rodari esamina in un capitolo della sua “Grammatica della fantasia”. Raccoglierò l’invito, da allieva cresciutella, a diventare “turista della fantasia” come nel caso della sua “Lamponia”, oppure, nello specifico caso, lo considererò un invito personale a divenire ciabattina della fantasia: mi ci proverò. Che belli, i tempi in cui imparavamo da Rodari a essere insegnanti sperimentatori dell’immaginazione e nello stesso tempo dell’educazione linguistica, perché era attraverso le parole che ci avvicinavamo a quel modo di fare scuola in cui si “inventava”, si “creava”. Creavano gli insegnanti, immersi in una sorta di eccitazione post-sessantottina in cui trasferivano i propri ideali applicandoli alla scuola, creavano bambini e ragazzi, cui veniva dato uno spazio e un tempo per cogliere in profondità le risonanze delle parole.

Insieme, allievi e insegnanti “giocavano” a recepire a e a produrre quelle “onde di superficie e di profondità” in grado di innescare reazioni a catena, coinvolgendo “suoni e immagini, analogie e ricordi, significati e sogni, in un movimento che interessa l’esperienza e la memoria, la fantasia e l’inconscio …”.  Oggi, pare che l’inconscio qualcuno voglia per forza riempircelo di brutture, di paure, tenendoci in una condizione pressoché costante di allerta, con un uso continuo di parole legate alle paure e alle imposizioni: cuore e mente colme di paura non esercitano la “grammatica della fantasia”, e forse è proprio questo lo scopo che si vuole ottenere.

Rammento una storia Zen, la numero 1 fra le “101 storie Zen” pubblicate da Adelphi. Si intitola “La tazza di tè”:  guarda, come ogni storia Zen, alla natura dell’uomo, disprezzando formalismi e stereotipi che allontanano dalla ricerca del proprio “io”. La riporto:

“Nan-in, un maestro giapponese dell’era Meiji (1868-1912) ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen.

“Nan-in servì il tè. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare.

Il professore guardò traboccare il tè, poi non riuscì più a contenersi. «È ricolma. Non ce n’entra più».

«Come questa tazza», disse Nan-in  «tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza?»

Ecco, la storia rappresenta bene la situazione della nostra mente quando noi costantemente ingurgitiamo  pensieri, regole (il tè) che riempiono la nostra mente con ragionamenti di tipo chiuso, idee  già percorse da altri, predigerite e fornite a bella posta, concetti già ampiamente sperimentati e proprio per questo destinati a non produrre nulla di nuovo. Ripetere schemi precostituiti può aiutare a rendere gli allievi  liberi di promuovere nuovi punti di vista, aiuta ad affrontare un argomento o una problematica con prospettiva nuova? Li addestra alla libertà di pensiero?

La pedagogia del Novecento, animata da grandi ideali, aveva pensato di rendere il processo di insegnamento/apprendimento un processo creativo, essendosi appropriata, attraverso gli studi sulla creatività, del concetto di “pensiero divergente”, a fianco di quello logico-deduttivo. Aveva pensato di poter spingere gli allievi a pensare in modo libero, dando loro il tempo di esplorare con la mente, di elaborare operazioni inconsce, di seguire sensazioni, impressioni per giungere a un risultato. Aveva creato la condizione perché ciò avvenisse, creando ambienti didattici interattivi, sereni, il più possibile adatti alla circolazione di idee libere da pregiudizi, il meno censori possibile per sbloccare pensieri e comportamenti, per creare interesse, aprendo blocchi percettivi, emotivi e culturali.

Oggi che cosa propone la pedagogia contemporanea? Mi sembra di intravedere un gran daffare nel realizzare  chiusure (anche fisiche), impedimento del movimento, dello scambio, della collaborazione di gruppo, vedo il proponimento di regole su regole, la rinuncia (o l’imposizione a rinunciare) persino all’espressione facciale…La “nostra” scuola ha strenuamente lottato per insegnare agli allievi a prepararsi il tè con scelte di foglioline e di procedure  personali, ma pare che “questa” scuola abbia come obiettivo quello di riempire le testoline di tè già bell’e pronto.  E quando mai sentiamo parlare di didattica?

Allora, che la grammatica della fantasia ci venga in aiuto:

« C’era una volta un ciabattino alle prese con un paio di scarpe…»

Qualcuno vuole continuare con me?

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A SCUOLA. LE PAROLE PER ALIMENTARE LA PAURA di Letizia Gariglio

(articolo pubblicato nel mese di settembre sulla rivista on line Parole in rete)

Si afferma da ogni parte la necessità di muoversi (poco) e di operare “in sicurezza”. Le ragioni scientifiche  sono sotto l’occhio di tutti, insistono i nostri politici. Così, se non vediamo è perché non abbiamo guardato bene e dunque meritiamo profondi e diffusi sensi di colpa. Entriamo in un meccanismo grazie al quale il senso di colpa, come si sa, va a inficiare l’autostima, disponendoci a un migliore accoglimento dell’accettazione di regole culturali, date dall’autorità.

È per ragioni di “sicurezza” se oggi i nostri bambini di sei anni si sono affacciati a una scuola che, sommersa in una marea di regole, li coercisce e li ingabbia dentro mascherine e in spazi meticolosamente delimitati, che tassativamente li dividono fra loro, facendo in modo che le bolle personali di ciascuno non possano in alcun modo tangersi e che ognuno, soggiogato da regole impositive scrupolose quanto pedanti, sia chiuso in un metro quadrato che mai ci è apparso tanto piccolo. Mi  chiedo quanti fra gli adulti, genitori e docenti, provino qualche moto di ribellione, nel caso siano loro avanzati rimasugli di velleità pedagogiche. È evidente che oggi i principi pedagogici espressi nell’arco di tutto il Novecento sono stati dimenticati, diventando nel giro di qualche mese démodé come abiti smessi: non solo, ma paiono suscitare in alcuni un senso epidermico evidente di fastidio, al pari di malsane ubbie rivoluzionarie  Finalmente si torna alla disciplina!, dicono alcune occhiate di soddisfazione, che non è difficile cogliere in giro.

Messa da parte l’attenzione ai valori della scuola come istituzione fondamentale nella società democratica, sembrano essere rimasti in pochi quelli che nella scuola desidererebbero oggi alimentare oggi i valori di libertà, di sperimentazione, l’apprezzamento del “fare”, la ricerca di motivazioni profonde e di interessi, la socializzazione, l’antiautoritarismo, l’espressività. 

Ho nominato parole che non contano più, scomparse in un battito di ciglia con l’avanzare delle crisi sanitaria che stiamo vivendo. Parole che la politica della paura ha messo in quarantena definitiva, che temo essere senza ritorno. Trasformati i capi istituto, gli insegnanti e i genitori in psicopoliziotti di memoria orwelliana, vediamo un mondo di adulti che hanno consegnato le loro menti e la loro capacità di pensiero al potere economico e politico che ha deciso di utilizzare pienamente la crisi in proprio favore e  ha trasformato in delatori quei pochi che ancora osano avanzare qualche dubbio.  Quel che conta è far circolare anche nella scuola le parole appartenenti all’asse che serve a mettere paura: virus, pandemia, sicurezza, infettare, disinfettare, stare lontani, pericolo, contagio, rispetto delle regole, stare seduti al banco, nessun gioco di contatto, no lavoro di gruppo, ubbidire, ubbidire, non muoversi, mascherina, non muoversi, mascherina, mascherina… perché, come diceva Austin nella teoria degli atti linguistici, il linguaggio è senz’altro un modo di agire, con il linguaggio si compiono azioni e dunque si indirizzano comportamenti sia individuali sia collettivi.

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CERCASI EROE, NO PERDITEMPO di Letizia Gariglio

(articolo pubblicato nel mese di agosto sulla rivista on line Parole in rete)

Dunque, in tutta questa brutta faccenda gli unici ad avere buona ragione per stare tranquilli potrebbero essere i gestori dei Bed &Breakfast, anche se loro non lo sanno.Nella caotica e spesso tragica situazione di tante piccole imprese italiane, impegnate nel disperato tentativo di sopravvivere dopo il lock-down, alle strutture di B&B forse non capiterà di accogliere folle di turisti, e nemmeno gruppi numerosi, ma se gli andrà bene potranno ospitare masnade di studenti di tutte le età. Almeno, secondo le intenzioni dei nostri politici.

La campanella sta per suonare, il 14 settembre, perciò manca solo un mesetto prima del ritorno degli studenti nelle classi. Ok, ma quali classi?

È ormai appurato che le istituzioni scolastiche non avranno la completa disponibilità degli spazi, o almeno non di tutti gli spazi necessari per la didattica in presenza e rispondenti alla nuove necessità anti-Covid, che vedranno tutto il personale scolastico aggirarsi fra le aule con il metro in tasca. I diversi istituti metteranno in campo alcune scelte per sopravvivere , in base agli ordini e gradi di scuole, alle esigenze degli sudenti, delle famiglie, secondo le proposte dei docenti, le disponibilità reali, le offerte e le opportunità; forse in parte le lezioni continueranno a svolgersi on line con gli studenti collegati da casa. Intanto si cercano spazi alternativi e aggiuntivi alle aule scolastiche: musei, cinema, centri congressi, auditorium, hotel, appartamenti di sponsor e Bed & Breakfast. Se spazi di questo genere possano poi rispondere ai bisogni didattici… fa parte della realtà: intanto però culliamoci fra queste soluzioni “all’italiana”, così drammaticamente finte, incredibili, tutta apparenza e niente sostanza.

Intanto le aule non ci sono. Ci si aspetta dai capi di istituto chissà quali creative soluzioni. Che cosa si dovranno “inventare” e come faranno a “reinventare” i posti più strani per renderli idonei alle lezioni, tra l’altro rispettando leggi di un certo peso, come quelle che regolano i sistemi anti-incendio o anti-infortunistici. Si prospettano soluzioni “antiche”, che risalgono a tempi in cui le scuole erano appesantite da sovrappopolazione scolastica: turni fra mattino e pomeriggio. Non è improbabile una riduzione delle ore scolastiche a quaranta minuti e nemmeno un’apertura degli edifici scolastici -e delle lezioni  -anticipata e una chiusura posticipata, nel tardo pomeriggio Ma naturalmente  tutti i cambiamenti d’orario comportano altri problemi alle famiglie e ai trasporti, soprattutto per gli studenti che viaggiano.

Com’è prevedibile  per distrarre l’opinione pubblica da preoccupazioni e timori di disfacimento si lasciano agitare al vento alcuni specchietti per le allodole, lasciando brillare certe assurdità, come quella del braccialetto luminoso con il quale diviene possibile controllare il distanziamento, quando esso si riduca a meno di un metro tra uno studente e l’altro. Oppure quest’altra: un bel semaforo  si illuminerà di rosso quando il bar della scuola raggiungerà la massima capienza. Già immaginiamo i pargoli del Nido reclamare in pausa  il sacrosanto caffè. Peccato che tra una scemenza e l’altra non si senta mai, e sottolineo mai, una parola sulla didattica. Però non preoccupiamoci: andrà tutto bene! Sebbene una cattedra su due sia scoperta a settembre si ritornerà sui banchi. Già, ma quai banchi?

Per  risolvere  le montagne di problemi che attanagliano la scuola (non solo quelli organizzativi) dovrebbe giungere un eroe classico (o un bel gruppo di eroi!): no, no, non mi riferivo agli uomini politici che la scena in questi giorni ci propone. Mi riferivo proprio alla figura dell’eroe: uomo che pur avendo perduto l’aspetto e la qualità della divinità, pur essendo caduto nella condizione comune al genere umano, sia in grado di ricorrere a uno straordinario atto di coraggio, consapevole del proprio sacrificio  di sé allo scopo di proteggere il bene comune. Non mi stupirei se ancora una volta le donne e gli uomini della scuola potessero mostrare le loro caratteristiche sovrumane, ritrovando dentro di sé, grazie a un atto eroico, le risorse umane e le abilità necessarie per preservare la scuola e gli allievi, riuscendo, con atto quasi miracoloso, a risuscitare l’armonia, facendola scaturire dal guazzabuglio, dal caos, donandola a una scuola sfiduciata, depressa e in stato regressivo.

Non dimentichiamo però che non sempre l’eroe classico è vincente: nei miti che conosciamo la vittoria non è l’unico metro di valutazione dell’atto eroico e dell’eccellenza umana. L’eroe rappresentava, e rappresenta,  il simbolo del ritrovamento di una condizione morale più elevata, estrae da se stesso come da una miniera la voglia di combattere contro draghi, leoni, scorpioni, mostri che inseriscono continuamente nelle nostre esistenze paura, morte, dolore e ingiustizia.Noi sappiamo come nei mesi trascorsi la sovragestione del potere abbia fatto di tutto per indebolirci attraverso la penetrazione della  costante  paura nelle nostre vite (oserei dire: come un vaccino).

Sì, solo degli eroi potrebbero organizzare un eroico combattimento per dare senso alla scuola e alla sua esistenza. E sappiamo da tutti i miti che se l’eroe non resiste, se l’eroe muore nel combattimento con il drago, qualcosa paga con il proprio annientamento.

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RESTYLING DEL GENE O ARMI TECNOLOGICHE? di Letizia Gariglio

(articolo pubblicato nel mese di luglio sulla rivista on line “Parole in rete”)

Qualche mese fa alcuni giornali hanno dato titoli poderosamente entusiastici ad articoli che, pur riservando nel corso della stesura qualche dubbio, fondamentalmente esaltavano le scoperta dell’ingegneria genetica per rendere  sterile il genere femminile della zanzare della malaria, le “Anopheles Gambiae”, e distruggere la specie così nel giro di poche generazioni: si calcola che ciò possa avvenire nel giro di undici generazioni, tenuto conto che ci vogliono dai venti ai trenta giorni per il passaggio da uovo ad adulto, e che nella norma la generazione di femmine è assai più abbondante degli esemplari di genere maschile.Le femmine normalmente vivono da due settimane a un mese.

Il progetto di gene drive attuato sulle zanzare, sia detto per i lettori più sospettosi e per quelli più genuinamente fiduciosi, è finanziato dalla fondazione “Bill e Melinda Gates”. Potrebbe intitolarsi: “Solo maschi, prego”.

E come si fa? Si inserisce nel DNA delle zanzare un gene in grado di rendere sterili le femmine . Risultato finale: eliminazione della riproduzione delle zanzare – eliminazione del problema malaria.

Secondo il giudizio di alcuni si otterrebbe così un duplice risultato attraverso l’hakeraggio realizzato nei confronti della legge di natura. Ma… ci sono alcuni “ma”. La storia ci ha insegnato che non sempre le applicazioni della tecnologia hanno fini nobili. Non a caso L’Agenzia del Dipartimento della Difesa USA, il cui scopo istituzionale è conseguire lo sviluppo di tecnologie a fini militari, ha investito centinaia di milioni di dollari per sperimentare tecniche di manipolazione

 e estinzione genetica: non solo delle zanzare, si intende! E a quanto pare la stesa istituzione è la maggiore finanziatrice della ricerca sul gene drive.

Non è l’estinzione delle Anopheles, dunque,  a preoccupare l’opinione pubblica mondiale, ma alcuni altri aspetti. Intanto, si sa, noi umani, compresi gli scienziati,  facciamo grandi pasticci non intenzionali, inoltre ci si domanda quali conseguenze può comportare la rottura, del tutto intenzionale, dei cicli naturali. Più in generale, non sappiamo come possono comportarsi e reagire gli organismi modificati una volta liberati nell’ambiente e nell’ecosistema, e nemmeno in relazione agli umani. La modificazione ottenuta potrebbe “saltare” da una specie ad un’altra? Ci si domanda in quale misura l’alterazione dei geni (supponiamo di innocui insetti) potrebbe ottenere come risultato la presenza di vere e proprie armi, con disastrosi impatti sulla natura e sulla salute.

Oltre ai dubbi sui rischi, ancora più forti sono i dubbi che alcuni gruppi di potere vogliano esercitare la propria imperativa incidenza anche sulle forme di vita, appiattendo la biodiversità del pianeta, esercitando il proprio dominio in forma di riduzione, restringimento, guidata dall’arbitrio dell’uomo (sul quale in verità mi sento di porre molte riserve), in definitiva in contrasto con la capacità di organizzazione intelligente degli esseri viventi.

Preoccupati per la eventuale fuga da laboratori di organismi geneticamente modificati e controllati, forse in grado di innescare reazioni a catena, preoccupati per la possibilità di errori che le sperimentazioni possono aprire, con effetti genetici non desiderabili, preoccupati e dubbiosi circa i livelli tecnici, culturali, ecologici ed etici che i tecnologi possono possedere o non possedere, essendo più o meno legati a interessi personali e a quelli di gruppi di potere, molte associazioni oggi sostengono la necessità di una moratoria, vale a dire richiedono una sospensione delle sperimentazioni sul “gene drive” e contro la liberazione di organismi creati con questa tecnica.

Noi siamo allineati su queste posizioni.

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TRA VIRUS E CONIGLIETTI di Letizia Gariglio

(articolo pubblicato su “Parole in rete”nel mese giugno 2020)

Mi si stringe il cuore nel rileggere il racconto “Il coniglio velenoso”di Calvino, nel “Marcovaldo”, il cui involontario protagonista , un povero coniglietto, apparentemente inoffensivo, è in realtà malatissimo, perché vittima di spericolate sperimentazioni di laboratorio, tanto da essere divenuto “velenoso”. Coniglio in gabbia, destinato a morte certa : “era un coniglio bianco di pelo lungo e piumoso con un triangolino rosa di naso, gli occhi sbigottiti, le orecchie quai implumi sulla schiena”, estraneo al mondo della natura quasi quanto il protagonista umano, quel Marcovaldo antieroico e fallimentare che conosce solo  –  anche lui – una gabbia, quella della città. Con quel coniglio ossuto sotto l’apparenza del manto peloso Marcovaldo si identifica e offre un pezzo di carota avanzata a questa creatura così stordita che quando gli viene aperta la gabbia  se ne sta ferma, lasciandosi poi infilare, senza reazione,  all’interno del giubbotto. Nell’uomo si sommano sentimenti contrastanti: desiderio di carne arrostita e tenerezza per l’animale. Chissà quale prevarrà.

L’infelice destino del piccolo mammifero non termina qui e si snoda sui tetti, fra gli abbaini degli abitanti più poveri della città (siamo nel dopoguerra), perché la bestiola, pur essendo nata prigioniera  e quindi non possedendo grandi aneliti di libertà, non ha però alcuna intenzione , una volta liberata, di farsi riacchiappare per rientrare in una casa in fricassea. Malgrado abbia conosciuto fino ad allora solo la prigionia e il dolore, questo coniglio ha una storia, un insieme di tratti di carattere che ne fanno un personaggio, una personalità che nel racconto lascia un’impronta, un segno, un ricordo; malgrado sia stato sottoposto a continue sevizie da parte degli umani in un laboratorio non ha perduto la sua essenza: potremmo trasformarlo in un personaggio sulla scena, potremmo disegnarlo, siamo in grado di immaginarlo.

Quanta differenza con altri elementi (forse) provenuti di recente da altri laboratori scientifici: submicroscopici parassiti obbligati delle cellule, prodotti di degradazione costretti alla nemesi di agenti patogeni. Eppure, anche qui, non abbiamo rinunciato a immaginare e a raffigurare: una bella sfera apparentemente armoniosa, con protuberanze dall’aspetto spinoso. È così che si è presentato il virus sull’uscio delle nostre case, senza chiedere il permesso di entrare.

La letteratura si è provata molte volte a immaginarlo, inserendolo dentro le proprie storie. Qualche volta gli ha dato nome suggestivi, che oggi suscitano la nostra particolare preoccupazione, per l’associazione immediata che sollevano in noi, grazie ai dati della cronaca.

“Wuhan 400” si chiamava il virus mortale in un romanzo di Dean Koontz, definito cross gender dal suo stesso autore, pubblicato nell’insospettabile 1981 con il titolo “The eyes of darkness”, (il libro è edito in italiano da Fanucci editore con il titolo “Abisso”).  È la storia del rapimento di un bambino, unico sopravvissuto a un’epidemia  mortale, e della strenua ricerca della madre che non crede alla sua morte. L’aspetto che oggi lo rende interessante è il riferimento a un virus in grado di uccidere, creato in laboratorio per divenire una potente arma biologica. È “curioso”, quasi premonitore, si potrebbe dire, che il virus nel romanzo porti il nome di “Wuhan 400”, sia stato elaborato in Cina, da dove oggi (2020), nella realtà,  il virus Covid 19 si è diffuso in tutto il mondo, proprio da  Wuhan,  città nella quale esiste un laboratorio di sperimentazione chimica. Il romanzo adombra pericolose manipolazioni che “passano” fra Cina e Stati Uniti. Nella realtà odierna molti media hanno sollevato dubbi sull’eventuale volontarietà di creazione e diffusione del virus: dubbi a cui nessuno può dare risposte, né conferme né sicure esclusioni. Scriveva nel romanzo l’autore: “…Uno scienziato cinese, Li Chen, è passato dalla parte degli Stati Uniti, portando con sé un dischetto delle più importanti e pericolose nuovi armi biologiche sviluppate dalla Cina negli ultimi dieci anni. Chiamano il materiale Wuhan 400 perché è stato sviluppato nei loro laboratori RDNA al di fuori della città di Wuhan, ed è stato il quattrocentesimo ceppo virale di microrganismi artificiali creato in quel centro di ricerca”.

Che “Abisso” sia da annoverare fra i romanzi visionari capaci di virtù premonitrici e profetiche? Certamente la letteratura non è nuova in quest’arte.

In ogni caso, io continuo a preferire il coniglietto di Calvino, per cui nutro molti sentimenti di pietà e  compassione, che nessun virus riesce in me a suscitare. Da che cosa dipende questa disparità di sentimenti? mi chiedo. Certamente dall’idea che il coniglio possa pensare, comunicare e… soffrire. Al contrario, la viva avversione per il virus è legata all’idea che non so attribuirgli una personalità, né sentimenti, né emozioni. Eppure quale trattamento gli uomini hanno attribuito a quel coniglietto e a un numero imprecisato di animali sottoposti a sperimentazione scientifica? Fino a che punto è arrivato il nostro imbarbarimento? Certo, il disequilibrato rapporto fra umani e non umani  e la nostra discriminazione nei loro confronti si basa sulla disparità di forze fra uomini e animali.

Voglio essere sincera. Ammetto che non mi dispiacerebbe un dispiegamento di forze contro certi virus.

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GLI ALTRI PUZZANO SEMPRE DI PIÙ di Letizia Gariglio

(articolo pubblicato nel mese di maggio 2020 su “Parole in rete”)

Quando all’umanità fa comodo non si vergogna di impiegarli anche in guerra. Erodoto ci racconta che gli scorpioni venivano riversati sulle truppe romane dalle popolazioni mesopotamiche. Già i Sumeri impiegavano i cavalli in battaglia e verso essi i conquistadores spagnoli ebbero un grande debito. I piccioni, si sa, svolgevano la funzione successivamente assunta dalle onde radio. Gli elefanti servirono l’India fin dal IV secolo, furono i protagonisti delle guerre Puniche e Annibale grazie a loro  attraversò le Alpi e giunse in Italia. Gli Arabi preferivano i cammelli per guerreggiare. I muli, amati dai nostri Alpini,  da sempre furono abituati a trasportare merci e armi degli eserciti sui ripidi versanti delle montagne. I cani erano impiegati nella guardia degli accampamenti. Si narra che nell’ultima guerra gli scienziati nazisti volessero nuovamente allagare l’Agro Pontino, perché le zanzare fermassero gli Alleati in avanzata vero il Nord della nostra penisola. Si sa che Roosevelt stesso non fosse contrario all’idea di sganciare bombe con migliaia di pipistrelli sui cieli  giapponesi, per disturbare i voli del nemico. E questo non è che un elenco non solo incompleto, ma appena accennato degli animali adoperati a fini bellici.

Chissà se è venuto il momento, per tutti gli animali, di ribellarsi, di ripagarci della stessa moneta?

Pare che il 75% delle nuove patologie umane sia di origine zoologica. Il salto di specie può non riguardare solo gli animali selvatici, ma è accaduto più volte nel corso della storia che un animale in qualche modo più vicino all’uomo abbia fatto da anello intermedio: si è trattato di animali da allevamento come polli, conigli, o anatre. È accaduto specialmente quando gli animali da allevamento venivano trattati, diciamo così…  non troppo bene.

Noi sappiamo come gli allevamenti causino tra l’altro la resistenza agli antibiotici, dal momento che noi ne rimpinziamo gli animali che negli allevamenti “vivono”, o meglio che vi “transitano” ( sono bloccati in gabbie!) per essere cresciuti abbastanza da divenire il nostro pasto: i batteri hanno modo di acquisire la capacità di resistere ai farmaci, di mutare e di sopravvivere.  In generale, tuttavia, l’espansione in numero e in grandezza degli allevamenti intensivi degli animali è senza alcun dubbio una fra le cause principali di diffusione di malattie animali e del passaggio successivo dagli animali all’uomo, in forma epidemica o pandemica.

Lo abbiamo vissuto con l’ “aviaria”, nata nel Sud Est dell’Asia attorno al 1968 e giunta nello stesso anno negli Stati Uniti. Assomigliava molto alla Asiatica, rilevata i Cina nel 1957 e diffusasi  anch’essa gravemente in Occidente. Nell’uomo si associò alle polmoniti: Si ripresentò nel 1972 e fece un milione di morti in tutto il mondo.Dal 1996 si ripropose in tutto il mondo , nel 2000 questo virus – mutato – è stato isolato anche nei volatili domestici (polli, tacchini), nel 2003 ci furono i primi casi di trasmissione all’uomo.La peste suina prima colpì gli animali ma dal 2009 ha contagiato anche gli esseri umani, iniziando dal Messico e espandendosi poi in più di ottanta paesi.

Adesso tutta l’attenzione, in occasione del Covid 19, va ai famosi wet market, diffusissimi in Cina, dove gli animali vengono condotti vivi e ammazzati sul posto, con grandi spargimenti di sangue, forti odori di carni, creazione di una sorta di melma, che ricopre i pavimenti dei mercati, composta da liquidi, carni, frattaglie, interiora, trucidi risultati del massacro perpetrato a una serie di animali, fra cui capre galline pipistrelli maiali pangolini conigli cani volpi cammelli struzzi scimmie… e  chi più ne ha più ne metta, in una lista molto lunga (sebbene a noi appaia improbabile)  di animali che noi occidentali non consideriamo eduli: un panorama di pratiche che a noi paiono inaccettabili dal punto di vista igienico. Dal punto di vista etico, poi, tralasciamo volentieri di esprimere giudizi, tranne quando ci inalberiamo per aborrire alcune forme di crudeltà propinata a questi animali che persino noi ci ricordiamo di definire estrema. Del resto, ci dimentichiamo anche di ribellarci al modo con cui da noi, senza andare troppo lontano, trattiamo ad esempio i nostri maiali negli allevamenti. Facciamo gli scandalizzati di fronte ai cinesi, ma grazie a che cosa? Ci sentiamo forse più evoluti solo perché i nostri allevamenti si sviluppano su un piano solo invece che in grattacieli a molteplici piani, come avviene in Cina? Siamo dunque virtuosi in modo inversamente proporzionali alle altezze degli edifici? Non ci viene neppure in mente di chiederci in che cosa siamo uguali o diversi, e nemmeno quale giustizia ci sia nel nostro rapporto con la natura e con gli animali.

Semplicemente tutta la storia dell’Occidente ha seguito le stesse vie che oggi vediamo pienamente ancora attive in Oriente. Semplicemente abbiamo smesso qualche anno prima. Anzi, mi risulta, se non sbaglio, che numerosi wet market siano ancora pienamente in attività in civilissime città come quella di New York.

Rammento la descrizione di Patrick Süskind nelle prime pagine del suo romanzo “Il profumo”, ambientato a Parigi  nel 1700, dove nasce il protagonista del romanzo, partorito  sotto un banchetto di pescivendolo, fra i miasmi della calura estiva proveniente dal cimitero, e la puzza dei pesci mescolata a quella dei cadaveri umani. La povera giovane madre, pescivendola,  non fa differenza fra le interiore sanguinolente, lo sciame di mosche e le teste  di pesce tranciate con cui mescola il neonato. Scrive l’autore: «Nel diciottesimo secolo non era ancora stato posto alcun limite all’azione disgregante dei batteri, e così non vi era attività umana, sia costruttiva sia distruttiva, o manifestazione di vita in ascesa o in declino, che non fosse accompagnata dal puzzo».

Forse  la differenza fra gli uomini del diciottesimo secolo e noi, fra le cause di malattie del passato e quelle contemporanee non è ancora così segnata dalla differenza come pensiamo. 

E nemmeno i nostri comportamenti. Ma, chissà perché, pensiamo che gli altri puzzino sempre di più.CONDIVIDI

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IN VIRUS VERITAS. LE MALATTIE NELLA LETTERATURA. MA CHE COS’È LA LETTERATURA? di Letizia Gariglio

(articolo pubblicato nell’aprile del 2020 su “Parole in rete”)

Quante malattie, fisiche o morali, individuali o collettive, pandemiche o segrete: sempre, nei tempi passati, furono presentate in letteratura come strumento di punizione di un dio incollerito con un singolo uomo, con un’etnia, con una città…Il corpo malato, colpito dalla malattia, doveva corrispondere analogicamente a un’anima malata: alla malattia fisica si accompagnava una malattia morale; così si differenziava, per negatività, colui che, possedendo caratteristiche fisiche “sbagliate” non poteva che presentarne altre, altrettanto sbagliate, di deformità morale. 

Partendo dalla Bibbia per arrivare alla letteratura ottocentesca troviamo sempre la stessa concezione di malattia. Sodoma e Gomorra furono distrutte perché avevano meritato il castigo di Dio (per aver peccato contro la legge di ospitalità – o secondo altri per sodomia); nel Vecchio Testamento si apprende che Maria divenne lebbrosa a casa della collera di Dio (Numeri) perché aveva parlato contro Mosé; che Giobbe ricevette una bella ulcera maligna  dalla pianta dei piedi alla sommità del capo perché Dio voleva essere certo della sua accettazione e della sua integrità, nonostante le tentazioni di Satana. 

I Greci non indietreggiavano nel ritenere Prometeo causa del suo male (il fegato gli veniva costantemente rosicchiato da un’aquila), perché necessariamente punito del suo furto del fuoco per gli uomini; nemmeno gli Achei si stupivano nel primo capitolo dell’Iliade se il dio Apollo inviava loro la peste, tale da colpire muli, cani e uomini in egual misura, perché avevano offeso il dio Apollo rapendo Criseide figlia del sacerdote Crise.

La Natura tarda a farsi sentire come generatrice di malattie: bisogna arrivare fino a Lucrezio, che nel “De Rerum natura” tenta un avvio di interpretazione scientifica dei germi e delle malattie provocate da “semi” di cose “che danno malattie e morti”. 

Dante non ci risparmia tutto il suo ribrezzo nella descrizione, nelle Malebolge, dei falsari, dai quali si sente un puzzo temendo “uscir dalle marcite membra”, e il suo paragone va ad Egina, isola sulla quale Giunone aveva scagliata la peste, e dove “li animali, infine al piccolo vermo /  cascano tutti…”; i falsari si grattano, deturpati, come posseduti dalla scabbia, lacerando e staccando pezzo a pezzo le loro croste (cap, XXIX dell’Inferno). 

La peste torna in Boccaccio: “erte enfiate” crescevano come mele nell’ “anguinaia” o sotto le “ditella” (inguine e ascelle); lui non recalcitra nel dare un nome ai bubboni: “gavòccioli”, e si inoltra fin dal primo capitolo a descrivere il dilagare delle peste nella Firenze del 1330, segnalata da “macchie nere e livide”, sintomi definitivamente premonitori della morte che, puntualmente, avveniva dopo tre giorni Non troppo differentemente da autori precedenti Boccaccio pensa della peste che sia conseguenza di colpe umane: “la quale, per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali”. È ancora sempre una punizione di Dio, dopotutto.

Anche in Manzoni si presenta una “stortura” a provocare la peste di Milano, causata da cattivo governo, dagli errori prodotti dalle menti di chi doveva guidare la città, altrimenti incapace di dare ordine e razionalità alla vita sociale: per questo un’intera comunità era stata punita in modo eclatante.

La descrizione che ci propone Molière del suo malato immaginario è veramente disgustosa. Come dar torto a Belinda se non sopporta suo marito, perso nel conteggio di clisteri purgativi, di quelli “insinuativi”, quelli emollienti, da alternare a quelli detersivi, ai carminativi, e così via… ma qui, per fortuna, ci è consentito ridere.

Dobbiamo arrivare al Romanticismo perché si facciano strada nuovi tipi di malati: il tisico e quello affetto da malattia nervosa, entrambi i tipi spesso beatificati da morti precoci. È in questo periodo della storia della letteratura che inizia a nobilitarsi la vita di individui, che il senso comune definirebbe altrimenti come “qualunque”. Il “mal sottile” diventa affezione letteraria per eccellenza.

Ne sono affetti gli scrittori al pari dei protagonisti dei loro romanzi. Qualcuno si salva, nella realtà e nella “fiction”, come Goethe, altri illanguidiscono nelle loro febbri. 

Il male  falcia Silvia, la “tenerella” che Leopardi amava;  a lei dedicò parole dolcissime: “Tu prima che l’erbe inaridisse il verno, / da chiuso morbo combattuta e vinta, / perivi, o tenerella. E non vedevi / il fior degli anni tuoi…”

Non è che la prima di una lunga sequela di vittime, più o meno innocenti. Alla seconda categoria appartiene la signora delle camelie, protagonista dell’omonimo romanzo di Dumas.

Ma anche la protagonista di “La Traviata” di Giuseppe Maria Piave, musicata da Giuseppe Verdi, che morirà di tisi fra le braccia dell’amato.

E la pucciniana Bohème si consuma in scena, nella vicenda più nota del teatro d’opera, grazie al libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica.

Tubercolotico fu Guido Gozzano, poeta novecentesco la cui poesia è incisa dalla sofferenza e dalla  rinuncia a una vita piena, a causa della malattia: «Non amo che le rose  / che non colsi. Non amo che le cose / che potevano essere e non sono / state…”

La melancolia, malattia che gli antichi attribuivano all’eccesso di bile nera nel corpo, “madre” della depressione  resterebbe meno comprensibile se non fosse comparsa nelle opere di Keats, di Coleridge, di Baudelaire: strumento per i letterati per elevarsi al di sopra delle  normali cose del mondo, per mezzo della propria intima psicologica sofferenza. Non dimentichiamo che “spleen” significa in inglese  “bile”, organo a cui nella medicina antica era collegata la tendenza al carattere saturnino.

È solo nel Novecento che la malattia  in generale diventa un modo, riservato al singolo individuo, di compiere un percorso di autoformazione, e nello stesso tempo uno status in cui l’animo può stabilire una condizione di partenza, in qualche modo ideale, per riflettere, per affrancarsi dal contingente, liberarsi dal piano puramente materiale, e immergersi in una opportunità di pensiero più profondamente filosofico. 

Già Kafka definiva la sua malattia, la tubercolosi, come una malattia “spirituale”, sebbene  il nome vero della sua malattia non lo nomini mai; forse non vuole dare riconoscimento a quell’elemento estraneo al suo corpo, ma del resto l’estraneità è la condizione permanente di Kafka, rispetto al suo ambiente, a suo padre (come mirabilmente sappiamo dalle “Lettere” a lui inviate), alla sua città, dove lui è relegato nel ghetto di Praga: straniero dentro di sé e fuori. E non è forse una profonda malattia quella che rappresenta “Il castello”? Malattia dell’assurda impermeabile stupidità  degli apparati burocratici. Ne sappiamo qualcosa anche noi.

Ed ecco che anche nel Novecento, malgrado più moderne malattie, la peste, almeno quella letteraria, torna.

È la protagonista di Albert Camus (“La peste”), che ci offre, immaginando il dilagare del morbo in Africa , una  riflessione allegorica sul male e sulle sofferenze della seconda guerra mondiale.

Ennio Flaiano, invece, in “Tempo di uccidere”, ambientato durante la guerra di Etiopia, intreccia una storia intorno alla lebbra, con la quale il protagonista fa un incontro molto particolare, e che rappresenta per lui, nella paura del contagio, la paura di incontrare e conoscere se stesso.

Chissà da quale malattia era afflitto il povero paziente di “Totò diabolicus”, che in un canovaccio teatrale (poi divenuto sketch notissimo), interpretava la parte di un chirurgo crudelissimo, incapace, miope,  e tuttavia dotato di pericolosissimo bisturi: splendida satira sui baroni della medicina, dove solo i gatti se la godono, aspettando le frattaglie fuori dalla porta.

Quanto sia breve il passo dalla malattia alla morte ci era già stato chiarito qualche anno prima da da Tolstoi, nel lungo racconto “La morte di Ivan Ill’ic”, che dà nome anche al personaggio protagonista. Un incidente apparentemente non importante immette il protagonista in un imbuto, un buco nero, a sprofondare fino al fondo, verso cui precipita senza possibilità di ritorno in modo rapidissimo, nella totale indifferenza dei familiari, dei colleghi, degli pseudo-amici, che non provano per lui alcun sentimento. Dunque: malattia e morte come solitudine.

L’incubo della progressiva discesa verso la  morte è anche la cifra di un racconto di Dino Buzzati (“Sette piani”) in cui la discesa progressiva dal settimo fino al piano più basso predispone i malati di un sanatorio all’accettazione della loro stessa morte.

Il protagonista di “La diceria dell’untore” (1981) di Gesualdo Bufalino è una sorta di controfigura dell’autore, che racconta un’esperienza analoga a quella da lui vissuta, di una lunga degenza in sanatorio. Ne scrive l’autore in modo barocco, ricco di sostantivi , aggettivi, metafore. E c’è una ragione che lui stesso svela, perché dentro il sanatorio  «L’occupazione prima degli ospiti della Rocca è infatti parlare, divagare, raccontarsi, inventarsi…»: è la parola, solo la parola, quanto più ricercata e preziosa possibile, in ultima analisi, a salvare dal male.

Questo fa la letteratura.

A che cosa serve, dunque, la letteratura?

Se si provano le emozioni e i sentimenti senza saperli nominare, li si  subisce. Per comprendere le emozioni altrui si deve cominciare a identificare le proprie, bisogna saperle verbalizzare e saperle comunicare; però è vero anche l’esatto contrario: vale a dire che per conoscere se stessi e le proprie emozioni è necessario che siamo educati a riconoscerle negli altri.

Si può partire da sé per divenire empatici, ma ci si può educare all’empatia per arrivare a comprendere meglio le emozioni dentro di sé.

In un mondo che bada solo all’interesse economico e privilegia la conoscenza scientifica perché decisamente più utile agli interessi capitalistici, l’educazione ai sentimenti riceve lo status di cenerentola: il mondo è come quel genitore che ignora (o finge di ignorare) le emozioni dei figli.  Conduce alla alessitimìa, al “non avere parole per dire i sentimenti”.

La letteratura può aiutare il processo che vogliamo realizzare: quello di imparare a riconoscere i sentimenti per divenire  consapevoli di noi stessi, empatici e capaci di costruire legami con altre persone.

La letteratura può facilitare la connessione con il mondo interiore e con i sentimenti altrui; conoscere i sentimenti aiuta pensiero e azione.

Nel momento in cui scrivo ci troviamo in pieno Covid 19, relegati in casa: adulti e soprattutto ragazzi, che vivono la condizione al pari di una ingiusta carcerazione. 

Il mio abituale interesse per i più giovani mi spinge a cercare in Internet ciò che può venire loro in aiuto: video, documentari, file didattici. Ed è proprio così, dovendo constatare lo strapotere della presenza di argomenti scientifici, che sono costretta a domandarmi: che ne è della letteratura?

Dice Mario Vargas Llosa: “Un’umanità senza romanzi, non contaminata di letteratura, somiglierebbe molto a una comunità di balbuzienti e di afasici… Una persona che non legge, o legge poco, o legge soltanto spazzatura, può parlare molto ma dirà sempre poche cose…  non è un limite soltanto verbale; è, allo stesso tempo, un limite intellettuale e dell’orizzonte immaginativo, un’indigenza di pensieri e di conoscenze, perché le idee, i concetti, mediante i quali ci appropriamo della realtà esistente e dei segreti della nostra condizione, non esistono dissociati dalle parole attraverso cui li riconosce e li definisce la coscienza. S’impara a parlare con precisione, con profondità, con rigore e con acutezza, grazie alla buona letteratura, e soltanto grazie a questa”.

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LA PESTE DELLA DIMENTICANZA di Letizia Gariglio

La peste della dimenticanza di Letizia Gariglio

(articolo pubblicato nel mese di marzo 2020 su “Parole in rete”)

In questi giorni, in cui stiamo imparando il significato di “restare a casa”, faticando moltissimo a introiettare il senso profondo dell’espressione, pare che abbiamo più tempo per apprendere nuovi termini, soprattutto termini e espressioni mediche, definizioni di un registro linguistico che normalmente non ci appartiene. Ben disposti a capire il significato di “rapporto di Erre con zero” (R0) vale a dire il numero di persone che, in media, ogni individuo infetto di Covid 19 contagia a sua volta, affannosamente impegnati nella ricerca (che avviene rigorosamente davanti al televisore) del paziente 0 o 1, pensiamo in continuazione – ben supportai dalla disastrosa macchina dei media che dicono tutto e il contrario di tutto, alle nostre paure, passando dalla peggior forma di panico all’auto-rassicurazione, narrandoci così che, anche se siamo vecchi, (forse) cureranno anche noi, persino noi!

La memoria per fortuna fa qualche fatica a rammentare precedenti pestilenze,  almeno nella grave forma di quella attuale: alcune pestilenze hanno toccato solo marginalmente le vite nostre e dei nostri contemporanei. Ci viene in aiuto la letteratura, a partire dall’antichità, ma anche la letteratura contemporanea, che  ci ha fornito esempi notevoli: è attraverso le storie che abbiamo conosciuto vicende e significati metaforici di epidemie, pandemie e Malattie, protagoniste di romanzi. Certe Malattie, scritte con la maiuscola, sono le vere rappresentanti del male non solo fisico, e non è un caso che la catastrofe dell’infezione epidemica o pandemica venga innescata e veicolata, nell’immaginazione di ieri come in quella di oggi,  da animali immondi  e poco amati: i sudici ratti, gli striscianti serpenti, i pipistrelli dalle lunghe ali nere. Anche l’aggettivo “nero” affonda le radici nel mondo oscuro: come le vele nere, la peste nera, l’umore nero. La pestilenza è sempre nera perché è estrema, suggerisce agli uomini l’abbandono da parte di Dio, oggi come ieri, per colpa o per destino, e li rende comunque sottilmente responsabili di sé, della propria fine o della propria salvezza. Tutte le pestilenze, reali o letterarie, come la peste, il colera, la tubercolosi, il vaiolo, l”asiatica”, la Sars, suggeriscono metaforicamente, con l’inettitudine di un corpo, anche quella di un’intera società, di un modo di vivere, di essere, di scegliere e di darsi volontà-

La letteratura ci fornisce molti esempi nei quali i temi dominanti delle epidemie e dei contagi minano profondamente le strutture di una società, o ne rivelano le basilari magagne in grado di portarle allo sprofondamento.  Ma le pestilenze letterarie peggiori sono quelle che riguardano l’annichilimento della memoria e lo scempio della cultura. Occorre che citi ancora Orwell (compare spesso nei mei articoli) in cui si racconta (“1984”) che per dominare un popolo occorre nullificare la sua memoria, demolire i ricordi individuali e collettivi manomettendo i ricordi ( leggi: la Storia) fino a nullificarli: le memorie storiche devono essere reinventate e riscritte in modo che i saperi del passato siano vanificati. Penso però anche a Bradbury (“Farenheit 451”) e alla necessità di opporsi solo con la memoria personale alla distruzione fisica dei libri con il fuoco. Penso alla peste dell’insonnia che in “Cent’anni di solitudine” (di Gabriel Garcia Marquez) coglie gli abitanti di Macondo, portandoli progressivamente alla perdita della memoria; gli uomini cercano inutilmente di opporsi quando scrivono su biglietti il nome  e le istruzioni per l’uso di cose  e animali. In auto-quarantena, impossibilitati a mangiare o bere perché tutte le cose erano contaminate di insonnia, gli abitanti di Macondo scrivevano, arrivando persino a inventare il “dizionario girevole a manovella”. 

Ma non fu quello a salvarli.

Fu l’amicizia.

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LA GRANDEZZA DELL’UOMO È NEL PENSIERO, DICEVA IDA MAGLI

La grandezza dell’uomo sta nel pensiero, diceva Ida Magli di Letizia Gariglio

(articolo pubblicato nel mese di febbraio 2020 su “Parole in rete”)

La fanciulla Europa venne portata al di qua del canale del Bosforo, in Occidente, con un inganno congegnato dal sommo dio olimpico, Zeus, che sotto le sembianze di splendido toro bianco rapì la ragazza e la condusse sulle onde del mare. “Europa” (così la chiamiamo personalizzandola) ci sta ripagando con un inganno pari o più grande di quello subito dalla fanciulla?

All’avvicinarsi del compimento dell’anniversario dalla morte di Ida Magli, (scomparsa nel febbraio 2016) il senso di perdita sembra acuirsi, anziché affievolirsi, forse perché puntualmente, precisamente e drammaticamente tutte le sue previsioni, ad una ad una, si sono avverate o si stanno avverando.

In passato, negli anni ’90, mi sono spesso chiesta se la visione del futuro della maggiore antropologa (e filosofa) del nostro Paese, potesse essere ammorbidita da note di speranza, che pure ciascuno di noi tanto voleva trovare nell’immaginare il futuro. Abbiamo profondamente desiderato che lei si sbagliasse, almeno un po’: io, lo ammetto, l’ho desiderato. Volevamo, disperatamente credere che quello che lei già delineava come il Male fosse – almeno per una volta! – solo il frutto della sua immaginazione. Desideravamo essere ingenui, credere da sciocconi che la storia con sguardo benevolo, come una madre pietosa, potesse sollevare dall’annientamento finale noi, gli italiani, “popolo” cialtrone e inconsapevole, che però si è sempre sentito una super-entità culturale, soltanto grazie al proprio passato artistico e intellettuale. La Magli ci redarguiva, tentava un ultimo atto di salvataggio da noi stessi: inutilmente! Ci spiegava che un popolo in generale e ciascuno popolo dell’area territoriale europea nello specifico aveva una propria particolare identità di lingua, cultura, arte, letteratura, musica, civiltà: ce l’aveva inscritta nella propria storia, che era la base dell’identità, ma era segnata anche nella loro aspirazione a darsi un modello, una forma particolare del proprio essere “popolo”. Inorridiva, la Magli, all’idea di unificazione dell’Europa, che definiva «un’idea contraria alla ragione e alla storia». Ce l’aveva a morte con «gli adepti del nuovo dio», coloro che, pur avendo a disposizione i parametri della cultura dei popoli, avevano invece prima scelto e poi imposto, nel trattato di Maastricht, i parametri, firmati dai rappresentanti dei singoli Paesi, di “inflazione”, di “tasso d’interesse”, di “margini di fluttuazione del sistema monetario”, di “deficit annuale” e “debito pubblico”; inorridiva ma non si stupiva che l’Europa voluta dai banchieri rivelasse, anche attraverso l’uso dello sterile linguaggio, la totale indifferenza per i valori umani. 

Parlava esplicitamente di «dittatura europea» e invitava gli italiani – e l’ha fatto fino alla fine dei suoi giorni – a rizzare le antenne, a dubitare, a porre attenzione a quello che lei definiva «il peccato originale dell’Unione Europea», vale a dire la «mancanza dei popoli» nella costruzione del progetto».

Perché nessuno legge il Trattato di Maastricht?, si domandava. Forse la mancanza di «qualsiasi riflesso di umanità ha tolto a chiunque «il desiderio o la forza di leggerlo»,  e proseguiva: «Questa è stata la sua fortuna: è andato avanti senza ostacoli perché, non avendolo letto, nessuno ha avuto neanche la voglia, la competenza per contestarlo…» E ancora: «…coloro che l’avevano pensato e sottoscritto erano despoti assoluti, non avevano nessun bisogno di riferirsi agli uomini per dettare il proprio disegno e le regole per realizzarlo».

Nelle conferenze, negli interventi, nei documenti, nei libri rincarava la dose sui burocrati dell’unione europea: «(Per loro)tutto il resto non aveva senso né valore: la patria, la lingua, la musica, la poesia, la religione, le emozioni, gli affetti, tutto quello che riguarda gli uomini in quanto uomini, che dà significato e espressione al loro vivere in un determinato luogo, in un determinato gruppo, il loro contemplare un determinato paesaggio, il loro amare, soffrire, godere, creare, veniva ignorato».

Si interrogava, la Magli, sul progetto mondialista, di cui nell’unione dei popoli europei intravedeva uno step. Molti di noi hanno impiegato molto più tempo per capire, nonostante le sue parole. Però negli ultimi anni si è fatto sempre più chiara una confluenza di interessi (una specie di dottrina di base del globalismo) che continuamente spinge verso la costruzione di un “mondo globale”, del quale, del resto, esistono artefici e costruttori che pubblicamente, per mezzo di discorsi e scritti, hanno parlato dell’argomento “nuovo ordine mondiale”. Apro una parentesi per citare alcuni esempi fondamentali, per tutti coloro che amano trovare risibile l’idea di un progetto di  un Nuovo Ordine Mondiale. Così ricordiamo le parole di Henry Kissinger nel 1992: «…i diritti individuali saranno soppressi di  buon grado purché vengano garantiti ordine e pace da parte di un Ordine Mondiale». Sempre nel 1992 il “Time” pubblicava l’articolo “The birth of the Global Nation” di Strobe Talbott, amico di Clinton (suo compagno di stanza all’Università di Oxford), direttore  del “Council on Foreign Relations”, nonché membro della Trilaterale: «La nazione diventerà desueta, gli Stati riconosceranno una autorità globale… gli eventi del nostro secolo vanno necessariamente in direzione di un Ordine Mondiale». Nel 1993 Henry Kissinger tornava ad esprimersi in favore di un Nuovo Ordine Mondiale sul “Los Angeles Times”: «Quello che il Congresso dovrà ratificare non è un semplice accordo commerciale, ma l’architettura di un nuovo sistema internazionale, teso a un Nuovo Ordine Mondiale. Nello “Human Development Report” dell’ONU del 1994, sezione “Global Governance for the 21st Century, si dice: «I problemi dell’umanità non possono essere risolti da un governo nazionale, ciò di cui abbiamo bisogno è un Governo Mondiale. Esso può realizzarsi con il rafforzamento del sistema ONU». E David Rockefeller nello stesso anno dirà: «Tutto ciò di cui abbiamo bisogno  sono le crisi, la crisi per eccellenza, e le nazioni accetteranno il Nuovo Ordine Mondiale».

Noi uomini comuni, non appartenenti ad élite, nel nostro immaginario di “tacchini” un po’ instupiditi, spesso identifichiamo come artefici del Nuovo Ordine Mondiale i mostri dei colossi bancari o le piovre delle multinazionali: semplificazioni forse non del tutto corrette, eppure non troppo lontane dal vero. Nonostante qualche guizzo di pensiero originale, le nostre menti impigriscono, cullate dai ritmici tam-tam dei media che con massima abilità ci conducono verso la mancanza di autonomia di pensiero, verso quella concezione di “uguaglianza” verso la quale gli antropologi come Ida Magli si sono sempre scagliati.

La rinuncia alle nostre specificità, di individui e di cultura, comprese quelle sessuali, religiose sociali e politiche, fa parte dell’avviamento dei popoli e degli individui verso le forme di “pensiero globale”, configurato su standard e stereotipi eteroforniti, e propinati con molti raffinati sistemi di convincimento. L’obiettivo progressivo è la formazione di un “uomo nuovo”, omologato su parametri prestabiliti, ben controllati, un uomo pronto a farsi plasmare con duttilità e facilità. In un mondo con caratteri mondialisti si aborriscono sia i popoli sia i singoli individui dall’identità forte, riferibile a forme di riconoscimento nella propria storia, nella tradizione portatrice di valori, in un’etica forte e ben delineata, in grado di proiettare persone e comunità verso aspirazioni e ideali.

Così, mentre la maggior parte di noi voleva credere nel progetto di una “Europa” salvifica portatrice di benessere, pace, miglioramento, civiltà… la Magli ci avvertiva dei pericoli insiti nel voler riconoscere una identità europea al di sopra delle singole comunità nazionali , che nel corso della loro storia si erano sempre dilaniate e portavano impressa nel loro DNA la memoria storica degli odi e delle guerre. Ci spiegava che l’uguaglianza di significati e costumi annienta la specie umana e l’integrazione (ogni integrazione) avviene con l’assimilazione da parte dei più forti del gruppo culturale più debole. E per “più forti” non intendeva soltanto i grandi popoli dell’Europa settentrionale e centrale, ma anche le popolazioni islamiche.

La Magli dunque vedeva diffondersi a macchia d’olio l’idea di una Europa unificata, mentre i popoli stanziati sul territorio europeo erano totalmente dimentichi della loro storia, quasi ubriachi nel fare propria quell’idea, arrivata da chissà chi, che improvvisamente la storia non contasse più nulla, non “esistesse” più. Avvertiva la studiosa che in questo processo era riconoscibile la volontà di cancellare la storia. «Di questo possiamo essere sicuri», scriveva in “La Dittatura Europea” «esiste un centro-laboratorio dove intellettuali, storici, linguisti, psicologi lavorano a trasformare il significato della storia». E citava il “ministero della Verità” narrato da Orwell  dove vi era chi riscriveva i libri di storia, perché «chi controlla il passato controlla il futuro».

Torniamo per un momento alla visione lucidamente “profetica” di Orwell. Durante l’interrogatorio di Winston, operato da O’Brien, Grande Fratello di 1984, il prigioniero non ricorda più con precisione la configurazione di alleanze e contrasti tra le grandi tre potenze mondiali che si giocano le sorti della Terra (Eurasia, Estasia, Oceania). Chi era contro chi? Chi il nemico in guerra e chi l’alleato? Il povero Winston aveva buone ragioni per non rammentare. Qualcuno potrebbe obiettare che, per ricordare, libri, giornali e manifesti sarebbero potuti servire a risvegliare la memoria, ma nel caso del nostro distopico romanzo non è così.. Infatti il Socing (il Partito dittatoriale) aveva già provveduto a cancellare e modificare le parole scritte, a correggere la storia in conformità con le nuove esigenze del gruppo di potere al governo e nel frattempo una “nuova” verità aveva conquistato la memoria e la mente di ogni cittadino, in un perverso gioco di decostruzione e ricostruzione mnemonica. 

Questa tecnica di controllo della realtà e delle menti individuali, cui le persone sono sottoposte in Orwell, porta ad una forma estrema di ipocrisia, in grado di spaccare, di dividere in due parti la mente umana inducendola al “bispensiero” o “bipensiero”, facendo sì che l’individuo accetti contemporaneamente due realtà contrapposte. Questa è la definizione dell’autore: «capacità di accogliere simultaneamente due opinioni fra loro contrastanti, accogliendole entrambe». Ma perché ciò è necessario? Spiega Orwell: «Solo conciliando gli opposti diviene possibile conservare il potere all’infinito». 

Tornando a Ida Magli, e alle sue riflessioni sul “bipensiero”, è chiaro che lei riteneva che nel progetto di costruzione di quella che tutti iniziavano a chiamare semplicemente “Europa” si manifestasse abbondantemente  e in molte forme il “bipensiero”, ad iniziare dalla presenza di principi desunti da qualunque studio antropologico (che esaltavano le diseguaglianze) insieme a quelli di false uguaglianze propugnate dai “nuovi” pensatori. E se la prendeva con il politically correct.

Infatti se le masse sono indotte a fare propri giudizi, concetti, idee opposte a quelle che produrrebbero spontaneamente e naturalmente, nel caso fossero libere di formulare idee in libertà, si ottengono due risultati contemporaneamente. Il primo, più immediato, è appunto quello di inculcare pensieri pre-confezionati (contrari alle logiche di coloro cui vengono propinati); il secondo è quello di indurre le masse ad assumere, ad accettare prima e far proprie poi, l’a-logicità del pensiero. Siamo proprio di fronte al modus operandi che Orwell definiva “bipensiero”.

Politicamente corretto?, si domandava Ida, e affermava: «costituisce la forma più radicale del lavaggio di cervello che i governanti abbiano mai imposto ai loro sudditi». Spiegava come il meccanismo – un vero e proprio meccanismo di censura – inserisce una distorsione concettuale e praticamente si impadronisce  dello strumento naturale  di cui la mente umana è dotata per discernere le differenze, attraverso l’imposizione del conformismo linguistico che diviene ideologicamente tiranno. Per mezzo di un conformismo linguistico si veicolano modi condizionanti di percepire fatti, concetti, idee, indirizzate  da organismi di potere alla massa, che si allinea in questo modo, a forme di pensiero eterodiretto.

Spiegava la Magli che ogni  popolo, ogni cultura dovrebbe trovare nella libertà la forza di esprimersi, di irradiarsi all’esterno, con una propria forma: nel rapporto dialettico con altri modelli culturali, ogni cultura ha la capacità di percepire i pericoli e, quando necessario, ha in sé l’abilità di rigettare gli elementi estranei non compatibili con la propria cultura, in modo esattamente analogico a ciò che fa un corpo biologico, che  per mezzo del sistema immunitario rigetta elementi ammorbanti. Se noi invece obblighiamo un popolo a non esprimere, ad accettare, attraverso l’uso del linguaggio,  che elementi estranei (e inaccettabili logicamente)  si insinuino nel suo sistema culturale, ci avviamo sulla strada dell’estinzione. 

È ciò che sta accadendo all’Occidente. E non possiamo che dare ragione alle lucide previsioni di Ida, che per le sue idee rivoluzionarie ha pagato, negli ultimi anni della sua vita, l’indifferenza del mondo accademico, al quale era appartenuta, essendo stata docente di Antropologia all’Università di Roma, e che ha causato l’allontanamento di colleghi ed ex-amici, turbati dalla forza del suo pensiero fuori “allineamento”. I suoi libri più rivoluzionari furono ignorati, uccisi dal silenzio dei media (ufficiali). Non se ne stupiva. Ma non disperava.  Perché, diceva « la grandezza dell’Uomo è nel pensiero. E c’è sempre almeno un altro uomo che lo afferra e lo trasmette».

Noi desideriamo essere quell’uomo.

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INCERTO SULLA TUA APPARTENENZA SARAI PIÙ MANIPOLABILE di Letizia Gariglio

Incerto sulla tua appartenenza sarai più manipolabile di Letizia Gariglio

(articolo pubblicato su “Parole in rete” nel mese di gennaio 2020)

In alcuni articoli precedenti mi sono fermata sul concetto di gender, ho manifestato la mia preoccupazione nell’intravedere nella conduzione della teoria gender una volontà di sovragestire le scelte relative all’identità sessuale degli individui, attraverso modalità culturali condotte con precisi atteggiamenti di comunicazione, in modo da orientare (o disorientare?) gli indirizzamenti sessuali degli individui e  alcune scelte personali a tal proposito; la preoccupazione si acuisce nell’osservare sempre più frequentemente che le scelte indotte si allontanano, in modo sempre via via più incidente, da basi biologiche.

Il collegamento con i temi della tutela dell’infanzia e dell’adolescenza è evidente e si annoda al tema degli allontanamenti dalle famiglie di minori, indirizzati a case-famiglia, a comunità, o a famiglie affidatarie. Anche in Italia abbiamo visto come alla presunta inadeguatezza della famiglia si sia preferita una diversa adeguatezza, in cui l’impronta della “nuova” scelta aderente alla idee falsamente libertarie della teoria gender hanno avuto un peso facilmente individuabile da osservatori esterni.

Ho già anche espresso la mia intensa preoccupazione per certi metodi di sottrazioni di minori finalizzati, a mio parere, a una espansione progressiva di metodi di controllo sociale. Tra l’altro la preoccupazione sostanziale si lega anche a aspetti minori, ma non trascurabili, di spese sconsiderate di denaro pubblico. Rimane tuttavia l’assillante dubbio principale: esiste un mercato dei bambini, incentivato da appartenenti a caste politiche? Il dubbio è corroborato dal numero spropositato di minori (oltre 50.00) che in Italia è stato prelevato dalle famiglie e si trova inserito in situazioni alternative.

A livello internazionale ci incuriosisce (e preoccupa) molto il ruolo che ha avuto, in collegamento con il tema gender,  il centro londinese di The Tavistock Centre, dove da tempo ci si prende “cura” di bambini con problemi di identità sessuale.

Nato a Londra nel 1920 come clinica psichiatrica, vi furono studiati i reduci della prima guerra mondiale con psicosi traumatiche. In seguito dopo il 1937, il centro cominciò a occuparsi di tecniche di manipolazione degli individui; ma è nel secondo dopoguerra che si iniziò a applicare i risultati precedenti della manipolazione, ottenuta sui singoli, su scala sociale. Lo scopo era quello di vincere le resistenze psicologiche di tipo individuale, dando uniformità al corpo sociale, in modo da osservarlo e controllarlo più agevolmente in un “Nuovo Ordine Mondiale”. Negli anni ’60 poi il Centro pilotò, in collaborazione con i servizi segreti inglesi, gli effetti e la diffusione di droghe, tra cui la LSD. Oggi, nel panorama degli esperimenti di ingegneria sociale (ne ho parlato in articoli precedenti) fra gli obiettivi principali di Tavistock c’è l’indebolimento dell’individualità, la disgregazione dell’identità personale e culturale, il raggiungimento dell’uniformità, attraverso il controllo della mente del singolo e del corpo collettivo, funzionale all’indebolimento degli Stati nazionali.

Che cosa ha a che fare tutto questo con il gender?

È evidente che la disgregazione sessuale, o quanto meno il disorientamento sessuale, fa sì che sia più difficile una salda identità: non solo di genere, perché venendo a mancare una solida identificazione con il genere (maschile e femminile), avente una corrispondenza su basi biologiche, si intensificano incertezze , sentimenti di malessere e di incongruenze. Pertanto, sotto l’apparente obiettivo di curare un disturbo di genere può nascondersi quello di intensificarlo.

Dunque al Tavistock si “cura” il disturbo di genere. Fa parte del Centro il Gender Identity Development Service (GIDS), servizio nazionale inglese specializzato, dedicato ai bambini e ai giovani (e alle loro famiglie), che sperimentano difficoltà nello sviluppo dell’identità di genere. Nelle righe di presentazione del servizio si legge che «molti bambini si sentono infelici relativamente ad alcuni aspetti delle caratteristiche sessuali primarie o secondarie del loro corpo. Bambini cui è stato assegnato alla nascita il genere maschile possono non sentirsi maschi; con il passare del tempo possono sentire – e dire – di essere femmine. Al contrario alcune femmine, designate come tali alla nascita, si sentono maschi». Altri, si sostiene nello stesso documento di presentazione, possono non sentirsi né maschi né femmine. Il Centro, si afferma, si propone di aiutare questi bambini nel riconoscimento dello stato di gender verso il quale desiderano evolvere. Quello che non si dice è che nella sede del centro si è intervenuti anche su bambini di tre anni.

In ogni caso solo nell’anno 2019 più di 2.500 bambini inglesi sono stati condotti al 120 di Belzise Lane di Londra. È stato richiesto intervento e aiuto funzionale, in ultima analisi, per una scentratura di genere: parlare di assestamento mi pare davvero il contrario della verità. Molti giornali – tra cui il Times, hanno parlato del caso riguardante l’Istituto, che già da tre anni ha avviato per molti bambini e ragazzi un percorso di transizione di genere: anche  per bambini di tre anni!  Invece di lasciare tempo ai bambini di superare l’eventuale stato di confusione (ma di quale stato di confusione sessuale parliamo, a tre anni?) si preferisce intervenire pesantemente dall’esterno. In Gran Bretagna negli ultimi tre anni ben 18 medici si sono licenziati dal Centro per ragioni di “coscienza professionale”, poiché si sono trovati (almeno loro) in disaccordo con le sperimentazioni selvagge che venivano operate su minori, già in sé la parte più vulnerabile della società, e per di più spesso minori disabili, autistici, o malati mentali, o particolarmente fragili per aver subito abusi e per aver vissuto traumi familiari.

Ai più piccoli e agli adolescenti venivano somministrati farmaci e ormoni allo scopo di bloccare il naturale passaggio puberale e di avviarli a esperienze transgender.

Tornando alla nostra situazione italiana, non c’è di che stare tranquilli.  Sembra che anche da noi si voglia seguire la pista segnata inGran Bretagna. L’Aifa, vale a dire l’Agenzia del Farmaco, ha determinato il 25 febbraio 2019 che si possa intervenire farmacologicamente nella cura delle disforie sessuali, rallentando il processo della pubertà  con una molecola, la triptorelina: questa molecola è stata inserita fra i farmaci erogabili dal Servizio Sanitario Nazionale. Il medicinale dunque potrà essere somministrato agli adolescenti affetti da indecisioni e confusioni di identità sessuale, in modo da procurare un blocco temporaneo dello sviluppo puberale e, nelle intenzioni dichiarate, dar tempo di effettuare una scelta di definizione di genere. Ciò che preoccupa è però la mancanza di considerazione del ruolo che gli ormoni sessuali esercitano sullo sviluppo cerebrale e il fatto che la molecola in questione può provocare un rallentamento cognitivo. 

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I REIETTI DI ROSSELLA MONACO di Letizia Gariglio

I Reietti di Rossella Monaco di Letizia Gariglio

(articolo pubblicato su “Parole in rete” nel mese di dicembre 2019)

Reietti, volume di racconti di Rossella Monaco, edito da Harpo editore, di Roma, pubblicato nel 2019, sta avendo un bel successo alla manifestazione Più  libri più liberi,alla Nuvola di Fuksas di Roma. 

C’è una feroce visione post-umana, in questo libro, dove l’uomo ha ormai raggiunto un dislivello prometeico fra sé e  i suoi prodotti culturali, che l’hanno portato a creare, con superbia, un mondo dal quale egli stesso è già stato detronizzato e del quale è solo falsamente un (apparente) protagonista. La sua stessa superbia, infatti, ha già prodotto l’effetto di ridurlo a oggetto degli stessi scenari degenerativi che egli stesso ha immaginato e tradotto in una realtà crudelissima.

Nelle storie di Rossella Monaco alla tracotanza di chi esalta un mondo disumanizzato, di chi propone il disprezzo della morale e dell’ordine comune, opponendogli l’immoralismo attivo di una società liquida ormai completamente alla deriva, all’ignavia generalizzata, sembrano opporsi soltanto i reietti, i perdenti, i rifiuti, gli ultimi: gli unici in grado di ribaltare la realtà, o che almeno ci provano. O almeno provano a fare  di necessità virtù, sfruttando gli ultimi residui di una vita penalizzata, ritorcendo contro i loro aguzzini le logiche che hanno animato il disegno di questi ultimi per sfruttarli e ghettizzarli. Così, ad esempio, in Transformer, le impresentabili vittime dell’industria del farmaco e della somministrazione inutile e massiccia di vaccini (114 in tre mesi), ridotti a mostri, sapranno applicare le logiche del bieco profitto  e proporsi all’interesse del pubblico come fenomeni: ben pagati, naturalmente. 

Tra i mille pericoli del cosiddetto progresso, in special modo quello scientifico, si annida fra gli umani quello, transumano, della clonazione umana: del resto, la clonazione animale è ormai ampiamente sperimentata. Domande etiche, e non solo, accompagnano molte nostre paure… transumane. Sono quelle che un racconto di Rossella Monaco, Bee, prospetta, nella sua storia, e proprio con quelle modalità che più si temono nella realtà: la realizzazione di cloni al servizio di altri uomini (naturalmente ricchi) come riserve di organi.

E chi può competere in disgrazie con certi migranti, dotati di un background altamente drammatico (oltre ad un certo fascino fisico)? È così che ci si può conquistare una nuova cittadinanza, sciorinando di fronte alle telecamere ogni genere di tragedia personale  durante un reality per mare. Eppure, proprio loro rifiuteranno la seduzione del nostro mondo; preferiranno rinunciare e fuggire tuffandosi in mare e meritando così il lieto fine: soccorsi da delfini si allontaneranno sulle onde nel buio della notte.

Avete presente come funziona la legge del karma? «Patirai lo stesso numero di squartamenti subiti dagli animali sepolti nel tuo ex stomaco!» La minaccia è pronunciata ad un’anima umana sul punto di reincarnarsi: in un vitello, naturalmente! Ed ecco che la legge di causa ed effetto, secondo la quale, in parole povere, si raccoglie quanto seminato, è pronta a entrare in azione.

Lo stile dei racconti, sarcastico, dissacrante, comico-surreale, dove si mescola il più puro anelito al raggiungimento della perfezione con il bieco materialismo di un mondo spesso, grezzo, grossolano, si colora di  inaspettati colpi di scena, si avvale di rapidi ribaltamenti delle situazioni narrative, si destreggia tra performances di tipo sessuale, aneliti di libertà, raffinati progetti di vendetta in cui i personaggi si muovono, sempre ricercando, a panorami deliranti, soluzioni originali, inaspettate, talvolta assurde: mai banali.

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SOLITARI O VIZIATI? di Letizia Gariglio

Solitari o viziati? di Letizia Gariglio

(pubblicato nel mese di ottobre 2019 su “Parole in rete”

Assomiglia all’abuso tecnologico, ma non coincide: l’elemento che li rende così somiglianti è la virtualità che viene scelta in luogo del reale. Ma raramente il tempo trascorso in Rete è la causa, è piuttosto manifestazione di una scelta che il soggetto ha compiuto e compie reiteratamente di ritirarsi dalla società. Eppure i giovani, adolescenti o post-adolescenti che optano per la solitudine paradossalmente sembrano placare i loro disagi nell’interazione virtuale. Perché?

La vita reale ha contribuito a creare una storia difficile: il giovane si è sentito in qualche modo inadeguato, socialmente, fisicamente, o caratterialmente, a affrontare la guerra della vita, e dopo i primi insuccessi verificatisi per davvero, o comunque vissuti come fallimenti, anziché affrontare in modo attivo il proprio senso di sicurezza, senza negarsi alle prove e alle proprie presunti o reali perdite, preferisce rinunciare, ritirarsi dagli stimoli competitivi, negare risposte alle pressioni di famiglia, scuola, o lavoro.

Ecco dunque che alcuni ragazzi cercano rifugio nella propria casa, nella propria stanza, nel proprio spazio raccolto e protettivo al pari di un ventre materno. Da lì si permetteranno di interagire col mondo solo in modo virtuale, senza doversi impegnare necessariamente in un approccio fisico: il mondo fittizio del Web sarà per loro più attraente (e forse più poetico) del mondo reale.

In Giappone il fenomeno di questi ragazzi si è delineato prima che in altri luoghi: è nel paese del Sol Levante che si è arrivati per primi alla definizione di Hikikomori, tendenza sociale (e al contempo definizione delle persone con caratteristiche profondamente solitarie) che comporta in forme più o meno gravi il ritirarsi dal mondo.

Anche gli “anime” si sono occupati della tematica, proponendo storie di protagonisti con tutte le caratteristiche degli stessi Hikikomori. I benpensanti hanno visto nel fenomeno del mercato del fumetto giapponese una sorta di denuncia sociale del fenomeno, ma i maldicenti hanno invece temuto una perversa attenzione per la tematica allo scopo di sfruttarla a fini di mercato. Non sfugge in ogni caso che gli Hikikomori – non solo quelli giapponesi – siano appassionati di manga e di anime. Di più, va detto che oggi questo interesse per diverse forme della cultura giapponese si registra in molti ragazzi Hikikomori, indifferentemente europei o americani; inizialmente attratti da elementi della lingua e della cultura giapponese, hanno in seguito operato, nella loro vita personale, la scelta di diventare Hikikomori, quasi ad identificarsi con i personaggi  delle loro sfigatissime storie preferite, confermando così, con esperienze personali, le scelte dei loro eroi falliti, maschili e femminili.

Purtroppo questa sorta di eremitismo del terzo millennio non prevede il raggiungimento di luoghi inaccessibili, né la determinazione di scelte spirituali, non contempla pratiche di ascetismo o di mortificazione del corpo, a meno che non vogliamo considerare una forma di mortificazione la reclusione prolungata in uno spazio chiuso. Ma se l’eremitismo, o l’ascetismo, venivano praticati allo scopo (quantomeno dichiarato!) di raggiungere i più alti fini spirituali, praticando una strada quanto mai difficile, il fenomeno dello hikikomori è invece la risposta a una pulsione all’isolamento sociale, che si traduce in un rifiuto progressivo (quanto cosciente, non si sa), e si manifesta in alcune fasi che si succedono in modo peggiorativo.

Spesso i ragazzi hikikomori partono da una situazione interiore di particolare sensibilità che favorisce l’ingresso in queste forme di depressione esistenziale sempre più diffusa. Le famiglie che vivono con figli hikikomori sanno che i loro figli problematici sono tutti d’accordo su una cosa: il problema non esiste, dunque non vi è nessun bisogno di cambiare le cose, né di ricevere alcuna forma di aiuto. Anzi, ogni offerta di aiuto è vissuta come una perfida occasione di intromissione, dunque come un pericolo.

Qualcuno sostiene che è improprio o esagerato definire hikikomori questi ragazzi, introversi, tendenzialmente asociali, votati alla solitudine. Lasciamo stabilire limiti e confini a psicologi e terapeuti. Certo, agli occhi dei genitori l’impulso all’isolamento dovrebbe essere riconoscibile: eppure non è sempre così. Oggi, poi, sono insorte ulteriori aggravanti del fenomeno. Intanto si sta spostando esponenzialmente dall’adolescenza all’età adulta, e ha iniziato a coinvolgere ragazzi e ragazze sui trent’anni: talvolta non hanno saputo o potuto realizzare un loro percorso lavorativo.  Tuttavia in ogni caso, si tratti di maschi o femmine, più giovani o meno giovani, si è sempre costretti a constatare un atteggiamento di eccessiva protezione da parte della famiglia, e soprattutto una relazione eccessivamente stretta e interdipendente fra madre e figlio o figlia, che contribuisce a formare nel più giovane la scelta di non-partecipazione alla “selezione naturale” della vita. 

Oggi, fra tutte le esclusioni del political correct, nel cestino delle parole escluse c’è anche quella che un tempo si appioppava a certi figli: viziati! Perché viene  permesso a questi ragazzi di gravare con le loro scelte, oltre che sul proprio benessere, su quello  delle famiglie e della società?

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TRA ANGELI E GENDER di Letizia Gariglio

Tra angeli e gender di Letizia Gariglio

(articolo pubblicato su “Parole in rete” nel settembre 2019)

Il nome di “Angeli e demoni” è stato dato all’operazione investigativa apertasi nei confronti di un sistema affaristico, che aveva come scopo principale quello di fare soldi sulla pelle dei minori e delle loro sfortunate famiglie. Gli angeli, intesi come esseri spirituali che assistono e servono gli dei o sono al servizio dell’uomo per proteggerlo, devono aver lavorato piuttosto male in questa faccenda rispetto ai demoni, che invece si sono comportati al massimo della loro operatività.  Ma forse, semplicemente, con la parola “angeli” si è voluta sottolineare l’innocenza e la fragilità delle vittime: i bambini. 

Dunque: come fare soldi? Togliendo pretestuosamente i figli a famiglie disagiate, in difficoltà economiche. Sul web abbiamo visionato video in cui i figli venivano letteralmente strappati dalle braccia dei genitore, con l’intervento concertato di più demoni: abbiamo ascoltato le urla, introiettato la disperazione e il senso di impotenza di chi, pur non avendo commesso alcun reato nei confronti dei propri figli, se li vedeva rubare dalle braccia. Questi bambini dell’Emilia Romagna valevano una certa cifra e davano la possibilità di lucrare illecitamente sui fondi pubblici destinati alla tutela dei minori con l’affidamento illecito di incarichi di psicoterapia a privati, cosa che comportava  l’utilizzo di fondi pubblici, sebbene le Asl avrebbero potuto ricoprire gli stessi compiti. Una volta affidati a un centro “apposito”i bambini venivano poi sottoposti a ulteriori sedute di psicoterapia che ai Comuni costavano 135 euro a seduta di fondi pubblici, a fronte della media di 60-70 euro e nonostante il fatto che l’Asl potesse farsi carico gratuitamente del servizio. Il danno economico per l’Asl di Reggio Emilia, secondo le indagini, sarebbe quantificabile in duecentomila euro.

Il business dunque si fondava sull’allontanamento del minore dalle loro famiglie e sulla “gestione” medica e psicoterapica. Le virgolette ci vogliono se, come dimostrato da migliaia di ore di intercettazione di sedute psicoterapiche effettuate sui minori, queste comprendevano pratiche di maltrattamenti e di violenza, quali l’induzione per mezzo dell’uso di elettrodi di falsi ricordi di abusi sessuali perpetrati dai familiari e mai realmente avvenuti. Le indagini si concentrano ora su forme diverse di mendacità nel redigere le relazioni, di falsità di vario genere: i disegni dei bambini venivano appositamente modificati dagli operatori e artefatti in modo da comunicare l’idea di problematiche di tipo sessuale, fino alla dimostrazione, con questi mezzi, di abuso da parte della famiglia.

Ora sono molti gli indagati per falso in atto pubblico, frode processuale, abuso d’ufficio, depistaggio, peculato d’uso, maltrattamento su minori, violenza privata, lesioni personali, tentata estorsione… Sono coinvolti nell’indagine come accusati sindaci, ex-sindaci, funzionari pubblici, dirigenti, amministratori, psicologi, psicoterapeuti, assistenti sociali, medici… Quella di Bibbiano e dei Comuni della Val D’enza, in provincia di Reggio Emilia, è una storiaccia raccapricciante che ha mosso i sentimenti di molti: ribrezzo, collera, senso d’impotenza. Proprio qui?, ci si chiede, proprio nel nostro Paese, proprio in quella regione ritenuta civilissima e spesso portata a modello per il funzionamento di regole, istituzioni, sistemi? E poi si aggiunge la rabbia, per esserci “cascati”. Del resto anche quotidiani nazionali come “La Stampa” ci erano “cascati” tre anni fa, quando una giornalista del quotidiano torinese senz’altro in buona fede aveva scritto: «C’è un posto in Italia dove la lotta alla pedofilia è una priorità assoluta. E i risultati si vedono. È un fazzoletto di terra in provincia di Reggio Emilia dove gli otto comuni della Val d’Enza – 62mila abitanti, 12mila minorenni, 1900 in carico ai servizi, 31 seguiti per abusi sessuali – hanno costituito un’Unione guidata dal sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, per tutelare i minori». E Carletti, si specificava nell’articolo, era seduto di fianco al medico legale Maria Stella D’Andrea e all’assistente sociale Federica Anghinolfi, quella che oggi viene definita la “madre badessa” dell’associazione a delinquere, mentre nel video si terminava l’incontro chiedendo al governo interventi non solo teorici in favore degli affidi .

Dunque, da paladini a impaludati. E di che putrida palude si tratta! 

Disperati siamo, per il tanfo che non possiamo non sentire, e perché le più fosche previsioni che i dati della realtà attorno alla politica di educazione dei minori ci hanno indotti a fare già in precedenza paiono essere sempre più veritiere. Non di fronte a episodi temporanei ci troviamo, bensì dinnanzi a una lunga catena di soprusi, di affidi illeciti, coperti da una cortina di ferro di collusione di persone investite di ruolo professionale nel settore sociale, che operavano in modo infamante. Ma c’è di più. Nel raccapriccio non posso fare a meno di intravedere un legame molto stretto tra gli atti delinquenziali  su cui si sta indagando con la propaganda che le stesse persone oggi indagate esercitavano nei confronti della teoria gender, tema di preoccupazione nei mei articoli precedenti. È almeno molto sospetta ai miei occhi la continua presenza di alcuni fra gli accusati a manifestazioni, conferenze, convegni, corsi di educazione sessuale nelle scuole (in favore del gender), progetti scolastici, corsi formativi per promuovere la pluralità di modelli familiari e dei ruoli sessuali, in grado di veicolare e incentivare modelli identitari sessuali diversi da quelli biologici, pensati per la divulgazione del gender, per la conoscenza e la condivisione del tansgenderismo, dell’intersessualismo, del transessualismo: dove, insomma, a a cominciare dai titoli dati alle manifestazioni, era evidente la volontà di realizzare l’agenda gender.

Non voglio entrare nella bolla del pettegolezzo, sebbene qualche domanda me la rivolga su questa storiaccia di amanti lesbiche che divengono -guarda caso! – genitori affidatari, certamente ricevendo un trattamento privilegiato nella scelta di famiglie affidatarie: chiaramente l’eventuale eterosessualità dei sospetti criminali non renderebbe meno disgustoso l’abuso perpetrato ai danni dei minori (e delle loro famiglie naturali), ma non per questo si quietano i miei dubbi sul progetto ideologico che ha permesso in Emilia Romagna di sfondare con la teoria gender nelle istituzioni pubbliche come una testa d’ariete, fino alla evidente deriva ideologica: sarà in ogni caso la Magistratura ad accertare quanto dovuto.

Una cosa è certa in questa storia: la volontà di indebolire sempre più, e possibilmente eliminare, le figure dei genitori tradizionali (un padre e una madre), ed instillare nella mente e nella psiche delle vittime  (i bambini) l’idea dell’annullamento del valore del sesso biologico, in favore di una identità di genere mutevole, liquida, fluttuante, priva di regole. In poche parole temo – e lo ribadisco – che si vogliano rendere i minori facilmente addomesticabili e sessualmente colonizzabili. Magari anche per poterli “usare” meglio a fini sessuali.CONDIVIDI

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GENDER E SCUOLA di Letizia Gariglio

Gender e scuola di Letizia Gariglio, articolo tratto dal mensile on line “Parole in rete”

Le preoccupazioni che procurano la diffusione della teoria gender trovano un serio campo di applicazione nella scuola e nell’educazione. Nei due articoli precedenti mi sono soffermata sulle modalità con le quali le idee “nuove” – e in particolare nel caso la idea “nuova” della teoria gender , abbiano modo di diffondersi e raggiungere capillarmente l’opinione pubblica, in modo da incidere profondamente sui cambiamenti di mentalità del pubblico, fruitore dei mezzi di comunicazione di massa; abbiamo visto come l’uso delle parole e l’uso strumentale del linguaggio abbiamo una parte fondamentale in questo processo. Vorrei ora soffermarmi maggiormente sull’aspetto educativo e osservare come si stiano muovendo le forze che intendono plasmare e persuadere noi “tacchini”, per uniformarci su principi standard eteroforniti e propinati in forma predigerita. Il riferimento sarà diretto ai sistemi scolastici in generale ma in particolare a quello italiano: volgiamo lo sguardo all’ordinamento giuridico italiano e al sistema scolastico italiano. 

Da Pechino in poi l’obiettivo gender ha pervaso ogni  documento di carattere internazionale ed europeo. La Conferenza di Pechino (1995) ha segnato una svolta cruciale. Fu preceduto da una serie da una serie di riunioni preparatorie, in cui il nucleo originario pensante la questione gender, costituito da gruppi omosessualisti e femministi estremi, si assunse il compito di fungere da testa d’ariete, con il fine di aprire il varco alla teoria. Le riunioni cui mi riferisco avevano stilato documenti preparatori  nei quali, per la prima volta si inizio a utilizzare metodicamente e diffusamente il termine gender. I partecipanti a Pechino assunsero subito dopo come proprio il termine , ritenendolo complementare/ alternativo a quello di sesso, e molti di loro non intravidero, nell’accettare e fare propria la nuova espressione, alcune motivo di preoccupazione. Del resto quando qualcuno cominciò invece a preoccuparsi del martellamento della “nuova” espressione, la risposta (scritta) degli organizzatori evidenziò come «i ruoli degli uomini e delle donne e il loro status sono costruiti socialmente» e annotarono come “gender” fosse «un’espressione non negoziabile»: al confronto la parola “sesso” era da considerarsi «svilente».

Entriamo ora in modo più ravvicinato nella questione educativa e negli aspetti che più ci interessano, poiché, come già scritto in altro articolo precedente, personalmente intravedo, attraverso il cavallo di Troia del gender una bella finestra di Overton spalancata sulla pedofilia.

Gli organismi internazionali e le organizzazioni ad essi collegate,(ONU, OMS, UNESCO, UNICEF, Save the childrenInternational Planned Parenthood Federation che orbita nel cielo dell’ONU, grandi e piccole Ong, insieme a strutture meno conosciute, si sono adoperate strenuamente negli anni per promuovere l’agenda di genere, conducendo l’educazione al gender all’interno delle istituzioni e delle strutture scolastiche, attraverso lo strumento dell’educazione sessuale (ancora chiamata con il “vecchio” nome, ma nei cui contenuti si sono installati i principi della teoria gender). Di questa fetta dell’educazione la famiglia  sempre essere sempre più desidorosa di autoespropriarsi (o di lasciarsi espropriare), delegando a figure collaterali del mondo scolastico, dotate di una certa patina  di competenza tecnica e di pseudo-scientificità. Come in tante altre occasioni la famiglia sembra voler rinunciare, ancora una volta, ad una parte così importante dell’educazione dei propri figli e di farsi portatrice nei loro confronti di valori etici.

Io ritengo che di fatto l’attribuzione dell’educazione alla sessualità agli organismi scolastici ( e ai loro dintorni!) abbai avuto il preciso obiettivo di aprire le piste all’educazioe al gender. Infatti l’OMS, sotto egida ONU,  ha promosso, fin da 2010, gli standards per l’educazione sessuale in Europa e attraverso di essi ha fornito un modello esplicito di insegnamento sessuale da impartire ai più giovani (bambini e adulti). Vi sono delineate delle tappe per fasce di età, all’interno delle quali vengono individuati alcuni obiettivi. Porto alcuni esempi esplicativi. Si vuole che da 0 a 4 anni il bambino esplori la propria identità di genere, da 4 a 6 anni abbiano informazioni sulla possibilità di relazioni fra persone dello stesso sesso; dai 6 ai 9 anni conoscano l’idea basa dei metodi contraccettivi (!!!), dai 9 ai 12 anni si soffermino su «piacere, masturbazione, orgasmo e sulla differenza fra identità di genere e sesso biologico».

Va detto che le linee guida dell’OMS, in quanto istituzione internazionale, influenzano potentemente i governi dei singoli paesi.

In Italia un momento importante fu la firma del protocollo d’intesa fra MIUR e Ministero Lavoro e Pari Opportunità (a firma Profumo- Fornero). Nel 2013 fu fondato l’UNAR, organo dello Stato, collegato con il Governo italiano tramite il Dipartimento per le Pari Opportunità e la Presidenza del Consiglio dei Ministri: ha funzione di rimozione delle discriminazioni razziali o di origine etnica, forme di razzismo a carattere religioso o culturale. Fu costituito per decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (11/12/2013). Ora poniamo attenzione: nel documento costitutivo dell’UNAR non compare mai esplicitamente il riferimento al gender o alle discriminazioni sessuali, tuttavia all’interno dell’organismo sono rappresentati una trentina di associazioni LGBT. Lo UNAR è già stato pesantemente collegato a problematiche legate a pratiche di sesso di gruppo e di prostituzione omosessuale (anche minorile), motivi a causa delle quali si dimise il suo presidente, Francesco Spano (si parla del 2017). Il programma TV “Le iene” svelò come lo UNAR annoverasse tra le proprie file di associazioni lo ANDOSS (Associazione Nazionale contro la Discriminazione ad Orientamento Sessuale), associazione che aveva beneficiato di 55mila euro di denaro pubblico (grazie a un bando UNAR): l’associazione è stata accusata di praticare serate fisting nei suoi locali affiliati, di promuovere prostituzione omosessuale, di organizzare orge gay, di promuovere sesso stimolato da droghe (chem sex), la pratica del glory hole, cruising bar, sling room, e altre forme di sesso fra omosessuali di tipo estremo. Lo scandalo ha trascinato con sé l’evidente macroscopico dubbio che l’organismo statale di cui stiamo parlando fosse in qualche modo invischiato nello scandalo. A me interessa sottolineare come proprio l’Andoss abbia lanciato proposte di educazione sessuale e di genere nelle scuole.

In Italia altro momento importante è quello in cui Elsa Fornero, ministra del Lavoro con delega a Pari Opportunità ha varato il documento “Strategia Nazionale per la prevenzione e il contratto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere” (maggio 2013), pubblicato dall’Ufficio Nazionale Antidiscriminazione Razziale (UNAR). Nell’asse (primo asse) riguardante l’istruzione e l’educazione si auspica la diffusione della teoria gender nella scuola e l’ampliamento nella scuola della conoscenza delle tematiche LGBT. Nel documento si dichiara apertamente la necessità di avvalersi dell’esperienza delle associazioni LGBT e il «coinvolgimento degli Uffici scolastici  regionali e provinciali sul diversity management per i docenti», fino alla «predisposizione di modulistica scolastica e amministrativa al fine di «diffondere la teoria gender nella scuola». Da quel momento lo UNAR  diviene l’organismo ispiratore di ogni provvedimento nel nostro paese riguardante l’assorbimento della teoria gender da parte della scuola.

Dal 2015 la “buona scuola” di Renzi ha pienamente fatto propria le linee guida dell’OMS di cui abbiamo detto poco sopra.

Nel 2016 sono sono state stilate le considerazioni della Commissione Europea contro il Razzismo e le Intolleranze (ECRI). E guarda un po’ che risultato per l’Italia! Per una volta tanto ha avuto la sua carotina con qualche lode , sebbene un rimprovero sia andato alla scarsa efficienza che il nostro Paese ha messo nel risolvere casi di intolleranza e di odio. Ma ecco il bastone: la Commissione si rammarica (ohibò) che l’UNAR non sia investito da poteri sufficienti! Tra un rammarico e l’altro l’Italia è invitata ad attuare pienamente la strategia LGBT con una «educazione sessuale che diventi materia curriculare».

Un ulteriore legame fra UNAR e le lobby omosessualiste, che come si è capito è per noi motivo di alta preoccupazione, si manifesta palesemente in episodi di questo genere:  nel 2015 l’UNAR  chiese di accreditare, forse per rendere migliore la già “buona scuola”, il circolo di Culturale omosessuale Mario Mieli, presso il Ministero Istruzione, come “ente di formazione”.Ora la “formazione” è probabilmente quella auspicata dal fondatore dell’associazione, omosessuale e pedofilo, che già nel 1977 scriveva nel saggio “Elementi di critica omosessuale”: «Noi checche rivoluzionarie… possiamo amare i bambini. Possiamo desiderarli eroticamente rispondendo alla loro voglia di Eros, possiamo cogliere a viso e a braccia aperte la sensualità inebriante che profondono, possiamo far l’amore con loro. Per questo la pederastia è tanto duramente condannata: essa rivolge messaggi amorosi al bambino, che la società, invece, tramite la famiglia traumatizza, educata, nega».

Dunque, come è palese, è ad associazioni di questo genere che si vuole affidare l’educazione dei nostri figli: obiettivo è togliere di mezzo la famiglia per mirare ad una  “sana” sessualità.

Eppure l’ECRI, organismo dell’Europa,  invita l’Italia a realizzare pienamente l’educazione alla condizione LGBT. Tra una raccomandazione e l’altra, non dimentica di sollecitare l’Ordine Giornalisti affinché operi controlli di deontologia professionale sulla questione gender.

Per tutti la catena si fa sempre più corta.

(agosto 2019)

Pubblicato in ARTICOLI, Dis/orientamento dei giovani. Problemi educazione e scuola, Senza categoria | Commenti disabilitati su GENDER E SCUOLA di Letizia Gariglio

IMPOSSIBILI ALTRE FORME DI PENSIERO di Letizia Gariglio

Impossibili altre forme di pensiero di Letizia Gariglio, articolo tratto dal mensile on line “Parole in rete”

Dopo il precedente articolo “Persuasi ad accettare l’inaccettabile” prosegue il discorso sulle strategie che vengono utilizzate da parte dei potentati internazionali per plasmare il nostro immaginario collettivo e per sovragestirci con strumenti finemente architettati, anzi, per meglio dire, ingegneristicamente architettati.

Riprendiamo da dove abbiamo lasciato nell’articolo di giugno: la macchina da guerra è fortemente impegnata oggi nel diffondere e promulgare l’idea del gender. Che cos’è? 

Facciamo un po’ d’ordine: un tempo esistevano i sessi, che erano noiosamente due, quello maschile e quello femminile. Ma attenzione, già da un certo numero di anni si è iniziato a mormorare, e ora si vocifera a voce piena, che i generi sessuali, in fondo, dipendono dal nostro modo di considerarci: l’identità di una persona non può e non deve – si sostiene – essere ingabbiata in scelte binarie e schemi esigui così ripetitivi. Tutto sbagliato ciò che si è sempre pensato: ora l’identità sessuale di una persona può essere scelta dalla persona stessa e dalla sua percezione soggettiva. Non ti senti allineato con il sesso che (almeno apparentemente) la biologia ti ha assegnato? No problem. Varrà la tua sensazione, indipendentemente dall’età che hai, dalle tue esperienze, da valutazioni (anche cliniche) altrui, da eventuali indicazioni psicologiche… Nulla si potrà intromettere fra te e la tua scelta. Ebbene, questa scelta per così dire creativa è per l’appunto il gender

Ci soffermiamo sulla parola (noi di Parole in rete non facciamo che occuparci di parole: maniaci!): Gender dovrebbe significare semplicemente (in italiano) genere, parola dunque esplicativa del vecchio concetto di sesso, però la parola gender è stata volontariamente caricata della valenza di scelta nell’identità sessuale. Quando si nomina la parola sesso, infatti, oggi si fa riferimento al sesso biologico; ma quando si usa gender ci si immerge nell’ottica del ruolo sociale e culturale che il sesso svolge e ci si orienta alla considerazione che, accanto alle più antiche disposizioni eterosessuali e omosessuali, si affianchino alcuni orientamenti diversi, come quello bisessuale, transessuale, transgender, intersex, queer, questioning, twospirited, e così via…

Perché non si usa in italiano ( e non si induce ad usare) la parola genere?Perché  accettare il neologismo sottintende, insieme alla disponibilità alla penetrazione degli anglicismi nella nostra lingua, anche quella all’accettazione di “nuove” teorie culturali: gli artifici retorici della lingua, non dimentichiamolo, sono potenti nel creare pensiero. Infatti è attraverso le parole che vengono gestite le campagne di persuasione dei “tacchini” di cui si parlava nell’articolo precedente.

Facebook ha dato il suo contributo (in Italia dal 2014, negli Usa parecchio prima) al diffondersi dell’idea di gender. All’atto di iscrizione del nuovo utente, infatti, invece della solita tendina “a due piazze” ( Maschio o Femmina) ha introdotto la possibilità di scelta autonoma. Già nello stesso anno The Washington Post (14 febbraio 2014) aveva fornito un piccolo glossario, al quale era possibile ispirarsi per delineare una più ricca differenziazione  fra le qualità del gender. Ho così imparato che accanto all’antico androgino (in cui i generi si mescolano o si sommano anche fisiologicamente) esistono i bigender, ma anche i cisgender: i primi sono anche chiamati gender fluid, perché alternano volentieri la loro identificazione fra maschile, femminile o mista; i cisgender (non ci crederete, ma c’è posto persino per loro!) sono quelli contenti di identificarsi con il sesso che madre natura gli ha attribuito alla nascita, al contrario dei transgender, fra i quali si distinguono il transuomo e la transdonna. Nonostante mi sia applicata con diligenza faccio fatica a comprendere i quattro sottogeneri e a differenziare fra  transdonna, transuomo, transfeminine, transmasculine. Rinuncio pertanto a riferire, però sono lieta di annunciarvi che dopotutto c’è una voce che mette tutti d’accordo, perché prevede la complessità delle scelte, ed è il termine pangender, nel caso in cui il soggetto si senta ancora incerto nella propria scelta e si stia ancora ponendo delle domande (gender questioning). Ommisignùr!

Ma come si è affermata nel mondo l’ideologia gender? Le basi si ascrivono all’opera di Alfred Kinsey che negli USA fu “inventore” della Heterosexual/Homosexual Scale, dove si individuavano sette gradini di orientamento sessuale (dalla completa eterosessualità alla completa omosessualità, con molti step intermedi di diversa tonalità).

Poi  venne John Money, psichiatra della John Hopkins University, che per primo coniò l’espressione “identità di genere”, studiò le “nuove forme della sessualità”, convinto assertore che “l’identità sessuale è un prodotto della società e, pertanto, duttile e malleabile alla nascita”. Fu propugnatore di quel modo di vivere la sessualità che avrebbe dovuto rendere tutto fluido e possibile, comprese alcune forme (che molti come me ritengono improponibili), come l’erotizzazione dell’infanzia e la pedofilia. L’ideologia di Money lo indusse a pretendere di dimostrare che l’identità sessuale non era altro  che una sorta di sovrastruttura culturale. Come psichiatra lavorò con i bambini e decise di incidere profondamente sui loro corpi e le loro vite. Convinse i genitori di un bambino nato nel 1965 (all’interno di una coppia di fratellini), il quale era stato seriamente deprivato nei suoi organi genitali da un intervento di circoncisione fallimentare, che il loro disgraziato figlio (Nome: Bruce Reimer) avrebbe senza problemi potuto trasformarsi in una femmina se fosse stato allevato ed educato come tale. Così fu fatto e Bruce divenne Brenda. Non fu l’unico esperimento di quegli anni, ma fu probabilmente il più disastroso. Lo psichiatra raccolse numerosi plausi dal mondo scientifico sull’esperimento, poiché Money si autoincensava, mentre Brenda, arrivata all’adolescenza, era disperata, anzi, disperatO, perché non si riconosceva nel sesso femminile. Bruce tentò di reimpossessassi della sua vera identità maschile, cambiò il nome in David (si sentiva impotente di fronte a Golia?). E dopo molte esperienze devastanti per il corpo e la psiche, e infinite indicibili sofferenze (che tuttavia provò a dire) giunse alla scelta del suicidio come unica possibile liberazione dal suo permanente stato di dolore.

Money non solo non ammise il suo fallimento scientifico ma continuò a diffondere l’idea che l’identità sessuale non fosse che una pura convenzione sociale, frutto di anticaglie culturali. 

Brenda non divenne mai una donna, nonostante l’educazione, ma David, malgrado l’orrore di ciò che gli era stato fatto, lanciò accorati appelli affinché le sperimentazioni di Money su altri bambini cessassero. Tuttavia la figura di questa vittima fu ideologizzata e in qualche modo scelta, negli anni in cui visse, per rappresentare quel tipo di uomo “fluido”, deprivato di una identità stabile (persino quella sessuale), svincolato dal suo stesso senso di appartenenza ad entità in cui riconoscersi: siano esse la famiglia, la patria, la nazione, l’etnia, la religione… tutte forme istituzionali e/o culturali appartenenti al passato, a un modello di mondo “vecchio” e di uomo “vecchio”, cui opporre un “nuovo” modello di essere umano svuotato di valori e di riferimenti forti.

Money uscì con un libro (Sexual signatures) in cui si autoincensò  e raccontò meraviglie sulla povera creatura che era (ahimè) stato suo paziente, dichiarando che aveva vissuto un’infanzia felice da vera femmina. In un volume successivo lo psichiatra si dedicò poi allo studio (scientifico, per carità) di alcune perversioni, che però lui chiamava parafilie, come la coprofagia, la necrofilia, il piacere dello strangolamento, e altre, cui dedicò molta energia al fine di decriminalizzarle. Infine si dichiarò pubblicamente favorevole alla pedofilia, in una intervista a Time (aprile 1980) in cui “rivelò” la positività di esperienze sessuali vissute nell’infanzia con persone di famiglia,  e il loro influsso tutt’altro che negativo sul bambino. In questo modo aprì la prima finestra sulla pedofilia.

Il discorso di Money, che giudica le differenze sessuali né naturali né definitive nel tempo, furono entusiasticamente sostenute dalle femministe lesbiche. A tal proposito io vorrei scrivere semplicemente “lesbiche” perché ho sempre giudicato la sovrapposizione dei due termini non corretta e ho sempre insistito affinché le due categorie fossero tenute separate. Ma tant’è…

Intervenne Judith Butler a teorizzare la fluidità del gender e che  propiziò il controllo su famiglia, educazione, e persino conversazioni private (siamo nella “migliore” visione orwelliana).

L’ideologizzazione del gender si sommò alla lotta contro la maternità . Per Shulamith Firestone, poi, lesbica morta suicida nel 2012, il fine ultimo dell’ideologia gender era l’eliminazione dei sessi: riproduzione ottenuta artificialmente – fabbricazione uomo in provetta. La geniale donna propugnò la liberazione sessuale dei bambini e la liberalizzazione dell’incesto. 

Temo di essere stata altamente scorretta  nel definirla “donna” e sono certa che la neo-lingua gender mi saprebbe suggerire un termine migliore.

Un documento molto importante fu, a mio parere, un saggio di Marshall Kirk, neuropsichiatra, e Hunter Madsen, esperto di marketing (After the ball. How the America will conquer its fear & trated of Gays in  90’s, New York, 1989), in cui viene prospettata la “necessità” di una campagna di propaganda, architettata per trasformare la sensibilità delle masse e renderle disponibili ad accettare l’ideologia gender.

Altrettanto importante un articolo di Paul Rondeau (Selling homosexuality to America, 2002) dove l’autore illustrava i diversi passaggi che dovevano essere operati per “convertire”, cioè ribaltare, l’opinione pubblica all’ideologia gender, attraverso tre fasi. Prima si passava attraverso una prima fase di desensibilizzazione, in cui il getto continuo di info abituasse il pubblico a considerare normali i comportamenti sessuali diversi. Seguiva una fase di censura preventiva verso chi desiderasse opporsi, tacciandoli di essere discriminatori, retrò e persino un po’ fascisti (oggi andrebbe di moda la parola populisti): il tutto per bloccare il dissenso. La terza fase prevedeva il martellamento dell’immaginario del pubblico con modelli gender, attraverso tv, film, canzoni, video, clips….in tutte le fasi si va all’attacco con la neo-lingua. Non vi pare che tutto sia già stato fatto?

Oggi all’interno del Parlamento Europeo esiste la Commissione per i Diritti della Donna e l’uguaglianza di genere, all’interno della quale si interviene sulle questioni LGBTI. Che cosa significa, per chi non lo sapesse? La sigla è una sorta di termine inventato con le iniziali di “lesbiche, gay,, bisessuali, transgender, intersex”. La Commissione studia su qualunque problematica posta  da cittadini europei sopra i 15 anni, risponde a segnalazioni di discriminazione e di molestie, su problematiche di vita quotidiana e sostiene i cambiamenti di aspetto delle persone LGBTI, proteggendole e promuovendo i loro diritti (vedi documento Commissione 06/06/2019).

 Che brutta parola LGBTI! Non se ne poteva trovare una dal suono più gradevole nella nuova lingua? Scriveva Orwell in 1984: «Fine specifico della neo lingua non è solo fornire un mezzo espressivo per sostituire la vecchia visione del mondo e le vecchie abitudini mentali, ma quello di rendere impossibile ogni altra forma di pensiero».

Una manciata di giorni prima della pubblicazione di questo articolo (il 2 luglio 2019)  è stata scelta  dai Capi di Stato e dei Governi la neo Presidente della Commissione Europea, la signora Ursula Albrecht von der Leyen, ex Ministra della Difesa teutonica. È un personaggio pubblico molto vicino all’ideologia gender, molto lontana da quelle realtà cristiane che nel suo ruolo di madre di sette figli qualcuno avrebbe desiderato leggere: quelle realtà che amerebbero, nonostante le mode dei tempi imposte dall’esercizio del “pensiero unico”, una naturalità delle coppie e delle famiglie. È ben difficile che tutti costoro possano trovare in futuro un qualsivoglia sostegno da parte di questa Presidente, che eserciterà il proprio potere in nome della “Europa”. Già nel 2017 la signora aveva votato nel Bundenstag per il “matrimonio per tutti” e ha espresso la propria disapprovazione per le discriminazioni espresse nel sistema militare tedesco per le persone LGBTI. Prevediamo che in futuro continuerà a non far mancare il sostegno alla ideologia gender. Prevediamo che vecchie forme di pensiero con essa contrastanti  non troveranno tolleranza. Com’è quella frase che ormai si sente dire più volte al giorno?Ah, sì: lo vuole l’Europa. 

(luglio 2019)

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PERSUASI AD ACCETTARE L’INACCETTABILE

Persuasi ad accettare l’inaccettabile di Letizia Gariglio, tratto dal mensile on line “Parole in rete”

Nonostante alcune locuzioni esistenti nella lingua italiana che sottolineano la nostra occasionale scarsa capacità di pensare (si dice “pensare con i piedi”, per esempio), pare proprio che il nostro cervello resti il complesso organo fondamentale preposto all’attività del pensiero. Lakoff ci ha insegnato (Don’t think of an elephant, 2004) che la visione del mondo sia dipendente dalle cornici (i frame) che compongono il nostro inconscio cognitivo: strutture mentali – forti – che permeano il nostro pensiero e di cui tuttavia non siamo coscienti. Qualunque parola, anche una sola parola, è in grado di attivare nel nostro cervello un frame. Non solo, anche le negazioni di un frame attiva il frame stesso, anzi, lo rafforza. Lakoff nei suoi corsi chiedeva ai suoi allievi di “non pensare all’elefante”, per dimostrare con la pratica che tutti avevano pensato (eccome!) all’elefante.

Dunque, se i frame sono attivati attraverso le parole, per cambiare nelle persone i loro frame, bisognerà cambiare le parole. Oppure occorrerà cambiare il senso profondo che si attribuisce a determinate parole,  per riuscire ad accedere alle convinzioni inconsce presenti nelle menti , andando così a lavorare sulla mutazione del frame.

Quest’ultima opzione è quella che vede impegnati coloro che agiscono in modo manipolatorio con la lingua (per esempio i politici), che nelle loro forme di propaganda intendono incidere profondamente – e in modo manipolatorio – sull’opinione pubblica. Infatti, lo spazio della mente degli “avversari” si conquista (anche) usando il loro stesso linguaggio, ma dopo aver incisivamente variato il senso delle parole, in modo da veicolare attraverso di esse l’evoluzione delle nuove idee che si vogliono suscitare, associandole alle parole.

Se vengono nominate parole come libertà, democrazia, uguaglianza, pace, bello e buono… e così via, saremo immediatamente catapultati  dai nostri frame alla disponibilità di ascolto. Se qualcuno, tanto per fare un esempio, decide di chiamare “buona scuola” la decretazione della rovina della scuola pubblica, ci si trova di fronte ad un atto proditoriamente manipolatorio e ad un uso contraffatto della parola “buono” (non meno che se lo si attribuisse ad un potente veleno, definendolo “buono”). Tuttavia l’associare la parola “buono” a una emerita porcheria avrà come risultato che almeno qualcuno ci cascherà.

Al di là della rozzezza del tentativo di operare decostruzione e ricostruzione di frame in modo tanto elementare, dobbiamo stare bene attenti nel vegliare sulle modalità con le quali le tecniche di propaganda ci avviano verso modelli di pensiero unico.

Sarà  senza alcun dubbio un modo graduale e abbastanza lento quello che ci spingerà, senza apparente imposizione, ad accettare l’invito ad un cambiamento di pensiero, talvolta persino radicale. Potremo accettare qualunque cosa purché, come la rana di Chomsky, veniamo bolliti in modo lento, graduale e progressivo: solo così non riusciremo ad accorgerci dell’aumento della temperatura dell’acqua e, con la coscienza addormentata nel nostro calduccio, abbandoneremo ogni desiderio di rivolta, ogni predisposizione alla ribellione, e lasceremo che il nostro destino (in mano di altri) prenda tragica forma.

Del resto già dagli anni ’90 del secolo scorso Joseph Overton (classe 1960) aveva elaborato uno schema di ingegneria civile, attraverso cui far passare forme di persuasione occulta, rivelando i meccanismi per mezzo dei quali è possibile indurre l’opinione pubblica ad accettare l’inaccettabile. 

Innanzi tutto occorre scegliere la cornice – il frame, entro la quale, anzi, in nome della quale, si inizia a parlare della cosa, e la parola magica è: “progresso”. Sarà in nome del progresso che si indurrà l’opinione pubblica ad intraprendere una “nuova” strada concettuale.

Overton aveva individuato sei passaggi, sei fasi da attraversare affinché le idee passassero dall’essere inaccettabili ad essere pienamente legalizzate. Nella fase  a monte una certa cosa appare impensabile;  poi si comincia a vietarla permettendo però delle eccezioni….  Nella fase successiva, la cosa comincia a divenire e apparire sensata, razionalmente difendibile, dotata quantomeno di spiegazioni, persino condivisibile. Nella fase successiva diventerà socialmente accettabile, se ne parlerà sempre di più fino a divenire popolare, diffusa, socialmente condivisa. Infine sarà permessa e persino legalizzata, accettata a pieno titolo con tutti i crismi della legge.

Se anche i passaggi fossero lievemente diversi da quelli indicati nelle “finestre di Overton” certo è che ogni realtà può essere adulterata: persino idee contro natura, come il cannibalismo o la pedofilia possono essere dapprima “smarcate” e poi legalizzate con il sistema ingegneristico di Overton. Grazie a quest’ultimo è possibile indurre la popolazione sottoposta a pressione mediatica, finemente strutturata – in una parola  propaganda, a ricusare le proprie stesse radici culturali e a ribaltare ogni eventuale credo, sia esso di tipo religioso, morale o sessuale. Basta pensare al percorso che hanno compiuto il tabù della sodomia e della omosessualità (fino al 1990 fu considerata dall’OMS una vera e propria malattia – e in molti paesi reato) e dal cambiamento del concetto di “famiglia” (inizialmente formata solo da genitori dello stesso sesso  fino ad arrivare alla famiglia con genitori di uguale sesso).

Difficile individuare l’inizio del percorso, ma certamente, per ciò che riguarda l’omosessualità,  gli psicologi americani iniziarono nel 1973 a derubricare l’omosessualità come definizione diagnostica: l’APA, American Psychiatric Association, spinta dalla potente pressione delle lobbies di omosessuali rimosse la voce dal manuale diagnostico che elencava i disturbi psichiatrici. Lo fecero per votazione. La cosa già può apparire assurda. Intendo dire che sembra assurdo che una così importante questione scientifica venga affrontata per votazione: sarebbe un po’ come decidere per votazione se la legge di gravità conduce i gravi verso la terra o lontano dalla terra… ma così fu. Da quel momento che costituì probabilmente l’innesco della miccia, i media iniziarono a veicolare il concetto che l’omosessualità non fosse una deviazione di tipo sessuale, come la pedofilia, la zoofilia, il feticismo, il voyeurismo, il sadismo, il masochismo, la necrofilia… (l’elenco continua…), bensì una semplice variante del comportamento umano. La variante divenne in breve tempo accettata come tale: semplicemente un altro modo di vivere la sessualità; da lì iniziò l’escalation verso la più totale normalità delle coppie gay o lesbiche cui i media contriburono in ogni maniera, come del resto il libri e i film, per sferrare una guerra combattuta sul piano educativo e quello politico; poi si passò al piano legislativo, con la richiesta di accesso delle coppie di ugual sesso all’istituzione del matrimonio, alla formazione di famiglia, fino a giungere all’asserzione dell’assoluta indifferenza verso la possibilità che i figli vengano allevati ed educati da genitori eterosessuali o dello stesso sesso. Il panorama comprende il diritto di adozione da parte di genitori dello stesso sesso. In questo passaggio la parola magica  è stata: “amore” – l’amore per i figli non ha sesso.

Naturalmente ora che il processo è compiuto e il panorama di credenze è stato rivoltato, chi osa contraddire la “nuova” normalità? Chi osa ancora dire o anche semplicemente pensare che la formazione di una famiglia abbia un fondamento nell’ordine della natura? Vecchiumi, di cui ci si vergogna come di parenti vecchi e sdentati, segni imbarazzanti di una provenienza familiare e culturale indesiderati.

È importante comprendere che questi tipi di progetti mediatici sono supportati da un mastodontico quanto efficace lavoro di studio a monte e che nel movimento di variazione drastica di opinioni non vi è nulla, ma proprio nulla, di spontaneo.

L’obiettivo della tecnocrazia totalitaria e sovranazionale è quello di costruire il cosiddetto mondo nuovo, preconizzato da Aldous Huxley, in cui la società è completamente controllata mediante tanti modi diversi: Huxley indicava l’indottrinamento educativo e psicologico, il controllo delle nascite, la selezione eugenetica, e altre forme di condizionamento mentale. Con difficoltà intravedo poche differenze fra il mondo dispoticamente immaginato dallo scrittore e quello in cui viviamo: ad alcune fra le piaghe immaginate da Huxley, come la sovrappopolazione, le supremazie sovranazionali, il lavaggio del cervello tramite la propaganda e la pubblicità, molte forme di cattiva educazione e di persuasione subconscia, si aggiungono alcuni altri strumenti di esercizio di potere. 

Importantissimo è l’uso come mezzo di controllo della manipolazione dell’opinione pubblica attraverso affermazioni, suggerimenti, suggestioni (= propaganda), attuata mediante i mezzi di comunicazione, in cui si offre un quadro di interpretazione distorta di principi e di fatti, in modo da fornire tasselli, spaccati e punti di vista molto limitati, definiti e semplificati della realtà. I media non sono solo in grado di offrire una rappresentazione della realtà, ma di crearla, operando con tecniche di manipolazione del pensiero e di influenza psicologica, grazie anche al desiderio, insito nell’uomo, di conformità sociale.

Noi infatti sappiamo che è difficile pensare, e ancor più mantenere, e ancor più esprimere, un’opinione diversa da quella che ci viene ripetutamente proposta. Perciò tornando alla domanda precedente: chi osa contraddire la “nuova” normalità?

Se i media spingono l’opinione pubblica verso l’assunzione di opinioni, idee, comportamenti sociali, e ne trascurano altre, o, peggio, trascurano di riferire le idee che differiscono da quelle che essi spingono, le idee trascurate saranno percepite dal pubblico come indegne di valutazione e dunque passibili di svalutazione, tanto che le persone faranno col tempo fatica ad esprimerle, percependole come vergognose. Chi vorrebbe schierarsi con la parte delle idee svalutate finirà col tacere, pur non senza sentimento di frustrazione ed entrerà, nonostante tutto, nella spirale del silenzio, per non dover sostenere il peso di essere e sentirsi socialmente isolato.

Sappiamo che un’idea ripetuta fa aumentare l’attenzione su di sé, che permane più a lungo nella memoria di chi la riceve; la stessa idea, se è accompagnata da un messaggio conclusivo esplicito, funzionerà meglio con la massa , perché in molti fra noi domina la pigrizia mentale, sebbene alcuni – la stretta minoranza, vale a dire quelli più intelligenti -,  saranno infastiditi da eccessive ripetizioni. 

È attraverso i media che si fanno avanzare idee ritenute, fino all’altro ieri, improponibili, ma che oggi i poteri forti intendono utilizzare per indirizzare il pensiero e i comportamento di interi gruppi umani, modificando l’impronta sociale ed etica di intere generazioni, preconfezionando per loro i modelli del loro immaginario.

Grande responsabilità assumono i mezzi di comunicazione tradizionali (mainstream) all’interno dei quali operano le élite degli addetti ai lavori, e coloro cui viene affidato il ruolo di guida dell’opinione pubblica (gli opinion makers): musicisti, scienziati, artisti, personaggi di successo… felici di stare al servizio dei potenti e di svolgere il ruolo di manipolatori, nel migliore dei casi ignorano di essere a loro volta manipolati da manipolatori occulti ben più abili di loro.

Quando Aldous Huxley scriveva, già nel 1958 (Il Mondo nuovo/Ritorno al Mondo Nuovo): «Gli antichi dittatori caddero perché non sapevano dare ai loro soggetti sufficiente pane e circensi» l’autore spiegava poi che per controllare le masse si deve intervenire sulle menti, avendo contemporaneamente cura di soddisfare, come si fa con il tacchino, i bisogni primari. Noi tacchini, dunque, messi a becchettare a sufficienza, gloglottiamo sazi se non satolli, e ci apprestiamo di buon grado ad accogliere con il becchime per il corpo anche quello per lo spirito. Il servizio somministrato in modo discreto (ma mortalmente pericoloso)  è in grado di informare il pollame permeando ogni aspetto della vita collettiva e individuale.

Con il becco affondato nel mangime (nel fortunato caso dei popoli cosiddetti più sviluppati), gli occhi e gli orecchi verso i media, ecco i tacchini pronti per scuotere affermativamente la testa di fronte a discorsi che monopolizzano il loro pensiero e li conducono al livellamento ideologico, preparandoli ad identificarsi con le vite (dei modelli) che vengono loro proposte.

Ora la propaganda tocca alla teoria gender. È sotto gli occhi di tutti; ma quanti vedono? E quanti presentono la futura finestra di Overton sulla pedofilia?

(giugno 2019)

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AVARI DI MENTE di Letizia Gariglio

Avari di mente di Letizia Gariglio, tratto dal mensile “Parole in rete”

La natura ci ha dotati di sistemi che ci spingono in modo istintivo alla ricerca di azioni legate alla sopravvivenza delle specie, facendo sì che alcune aree cerebrali siano responsabili della sensazione di gratificazione, derivata da un determinato compito o azione. Un centro importante per il nostro senso di gratificazione è il nucleo accumbens, che quando è stimolato con mezzi naturali, come il cibo, o il sesso, o l’amore materno, produce benessere, piacere. Oltre agli stimoli naturali, altri stimoli possono accendere i circuiti della gratificazione: sono quelli delle dipendenze: sostanze come gli oppioidi o i cannabinoidi, l’alcool, il fumo, ma anche lo shopping, il gioco d’azzardo e… gli strumenti tecnologici.

Quando ci  abituiamo a intossicarci di tecnologia fin da giovanissimi, da bambini e da adolescenti, (periodo in cui davvero un rapporto troppo stretto con gli strumenti tecnologici può essere pericoloso, per il fatto stesso che ci si trova in una fase dello sviluppo molto delicata), l’abitudine può diventare patologica e aprire la strada verso successive sindromi comportamentali.

Innanzi tutto è evidente che il permanere a lungo sulla Rete (come la stragrande maggioranza degli adolescenti fa) va a discapito della vita sociale  e della vita reale, delle esperienze di scuola e di relazione. Il sistema inventato da Facebook o da Instagram, che prevede attraverso i like una risposta reattiva che funge da ricompensa, va per l’appunto a stimolare quell’area del cervello cui corrisponde la sensazione del piacere; ecco perché è così difficile staccarsi, anche se da semplici social, che fanno leva sul bisogno dell’essere umano di amicizie, seppure virtuali: tanti like, o commenti, o notifiche, stanno a significare altrettanti amici, in un mondo – quello virtuale -, che si può contrapporre a quello reale, pullulante di difficoltà. Aggregati in Rete, si può snobbare una realtà che può esserci nemica, dove ostilità, doveri, responsabilità ci attanagliano. Se si sta in Rete non occorre uscire per trovare amici, non occorre rendersi gradevoli, puliti, piacevoli, non occorre guardare negli occhi, rispondere a input o inviarli, parlare in modo più complicato di quello trogloditico, si può stare isolati in camera, senza essersi lavati e messi in ordine: tanto, gli amici non ci vedono e non possono apprezzare con i sensi la nostra presenza. Rischio: l’isolamento.

Ma che ne sarà delle competenze relazionali di quel tipo di ragazzo o delle sue competenze affettive, se tenderà sempre più all’introversione? Come imparerà a sperimentare e vivere le proprie emozioni, a sondarne gli effetti, su sé e altri, ad apprezzarne la profondità e la varietà? Che ne sarà dell’empatia? Il ragazzo tenderà a isolarsi e a sviluppare attenzione soprattutto per se stesso, sollecitando il proprio narcisismo, che si esprimerà nell’attesa di un like o nella produzione di selfie, senza che l’altro possa intervenire a disturbare o esigere la propria parte dell’attenzione.

Ci ripugna immergerci nei più neri spauracchi della dipendenza da Internet, ma il disturbo psicologico di non-controllo o di dis-controllo degli impulsi che arrivano dalla Rete è una possibilità più diffusa di quanto vorremmo. Osserviamo i ragazzi, e domandiamoci quante volte controllano se gli è arrivata posta. Quanto tempo passano in chat? Poniamo attenzione, soprattutto se notiamo qualche segno di malessere. O se il tempo durante il quale sono rimasti on line ci pare davvero lungo: non potremo demandare a loro stessi questa forma di controllo, perché sono destinati via via a essere sempre meno consapevoli della prepotenza del loro bisogno di Internet, e sempre meno capaci di valutare autonomamente i rischi della permanenza e dell’impossibilità di interrompere volontariamente. La dipendenza cyber-sessuale è solo un aspetto (grave) della dipendenza, come quello dai giochi in Rete (Net-gaming) che comprendono molte sfaccettature, fino  ai giochi interattivi, al gioco d’azzardo o l’uso di casino virtuali.

Molti insegnanti e pedagogisti osservano oggi nei ragazzi una diminuzione della memoria e si sospetta che l’uso di dispositivi sia in parte corresponsabile del fenomeno della smemoria . Ma a che serve  sforzarsi di ricordare quando velocemente si può fare riferimento a Internet e cercare l’info desiderata? Occorre dannarsi per essere enciclopedici quando  l’intero scibile umano è a portata di un click? Non mi devo affaticare per tenere a mente  un numero di telefono e posso liberare la mia testolina da piccole informazioni inutili … senza accorgermi di vivere ormai in un permanente stato di amnesia, dove nulla appare tanto importante da occupare stabilmente uno spazietto di mente.

Vi è un aspetto della carenza di memoria che viene definito amnesia digitale, che aggiunge motivo di preoccupazione,  e che funziona come un serpente che si morde la coda. Quando si cercano in Rete informazioni di genere vario, ci si occupa e preoccupa anche di stabilirne la reperibilità in tempi successivi, assicurandosi di potervi accedere nel futuro. Così, non si è tanto occupati, come si potrebbe immaginare, nel fare una lettura attenta di ciò che si è cercato, ponendo attenzione ai contenuti, anzi, è stato dimostrato che l’attenzione diminuisce con la consapevolezza della disponibilità di reiterare la ricerca, per ottenere l’info. 

Tutto questo ha anche un po’ a che fare con la proverbiale taccagneria cognitiva di noi umani (ce ne hanno ampiamente parlato i neuro-cognitivisti): pare che il nostro obiettivo fondamentale dopotutto sia far risparmiare fatica al nostro cervello, vale a dire risparmiarci la fatica di imparare. Pare che le leggi dell’economia valgano, ahimè, anche nell’apprendimento, spingendoci a lesinare sulla nostra partecipazione mentale  (siamo tremendamente pigri mentalmente!) e a economizzare le nostre (accidiose) risorse intellettuali.

(giugno 2019)

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ECCOTI IL CIUCCIO DIGITALE E TACI! di Letizia Gariglio

Sul seggiolone il neonato rompe, piange, fa capricci. La pappa è finalmente è pronta ma di lasciarlo schizzare minestrina da tutti i pori neanche se ne parla (la madre ha appena finito di mettere un po’ d’ordine), perciò di dare all’energumeno un cucchiaio in mano non ci pensa nemmeno.  La mamma ci ha provato qualche giorno fa, mettendogli il cucchiaio rigorosamente nella mano destra, ma lui ha fatto un macello. Perciò… apri la bocca che l’aeroplano arriva, condotto da pilota materna. Finita la pappa lui vorrebbe rotolare un po’ per terra, magari trascinandosi faticosamente su una gamba ripiegata fino a quei magici buchini da cui pende quel filo colorato, sarebbe disposto ad arrivarci gattonando alla velocità di un treno… e invece no, al quarto strillo sua madre gli ficca in mano quella scatoletta dallo schermo nero. Che cos’è ‘sta roba: ha un gusto schifoso ma alla terza leccata si accende sul fondo scuro un fuoco d’artificio di colori. Uhaau, altro che gattonare… un senso di potenza invade l’esploratore che per i prossimi anni, fino a quando non deciderà di imitare Ronaldo con il beneplacito di papà,  sarà destinato a esercitare il suo spirito atletico su un campo di 20 centimetri per quindici.

Esagerato? Mah ! 

Siamo in molti ad essere preoccupati sia della pericolosità degli strumenti tecnologici in forma di wireless, a causa delle emissioni di radiofrequenze, e ancor più perché è ormai chiaro che per l’infanzia e l’adolescenza il possibile danno è tanto più grave, poiché il formarsi del cervello e del sistema immunitario sono essi stessi in atto. 

Constatiamo ogni giorno l’aumento esponenziale di problematiche legate ai processi di apprendimento (e non solo) e riteniamo che l’eccessiva stimolazione del cervello, per mezzo dell’uso troppo precoce di mezzi tecnologici, sia una delle cause più importanti della manifestazione nell’infanzia e nell’adolescenza dei deficit di attenzione (che perdureranno poi per l’intera vita), vale a dire della capacità di mantenere l’attenzione su uno specifico compito, dato o scelto, la quale comprende la capacità di autoorganizzarsi per raggiungere un determinato obiettivo (di lavoro, di ricerca, di apprendimento). 

L’uso prolungato e precoce di mezzi tecnologici è causa dell’iperattività, che si manifesta come bisogno di muoversi in continuazione (impossibilità di rimanere fermi sulla propria postazione di lavoro, irrequietezza). È causa di impulsività, che si manifesta nell’operare in modo affrettato, senza riflessione su ciò che si sta facendo e che comprende l’incapacità di darsi motivazioni personali profonde o semplicemente slegate da tornaconti e ricompense immediate: non si riesce a dilazionare e ad attendere una gratificazione che arriverà più tardi. Spesso i bambini iperattivi-impulsivi parlano molto; se più piccoli si muovono, saltano, si arrampicano; non ascoltano, non pongono attenzione  verso chi sta rivolgendo loro la parola, interrompono chi sta parlando (anche gli adulti, non solo i coetanei). È causa di inabilità esecutive di vario genere, poiché manca attenzione sia all’insieme sia ai dettagli; forse è causa anche (insieme ad altri fattori, naturalmente), di ritardi nell’apprendimento o di disturbi specifici dell’apprendimento. Il permanere seduti con un tablet o un telefonino in mano in fasi e anni della vita che dovrebbero vedere i piccoli  in perpetuo movimento limitano lo sviluppo delle funzioni umane di movimento e di conseguenza causano un ritardo nello sviluppo dell’apparato motorio e nelle funzioni psicomotorie. Inoltre, la mancanza di movimento induce all’obesità e comporta rischi quali quelli individuati dai medici , come ad esempio il rischio di sviluppo del diabete e di precoci malattie cardiocircolatorie, o in casi più gravi, di epilessia.

L’uso degli strumenti tecnologici riduce il sonno, sia in termini quantitativi che qualitativi, cosa che facilita l’abbassamento del sistema immunitario; la mancanza di sonno influenza negativamente l’umore e, ovviamente, riduce nel suo insieme il livello di rendimento scolastico. Si collega al disturbo d’ansia, che comporta un senso di disagio, di preoccupazione costante, ma anche ai disturbi oppositori, in cui le figure di riferimento adulte vengono “negate”, rifiutate. 

Si sospetta fortemente che l’esposizione ai dispositivi tecnologici possa essere una causa determinante (forse la più importante) per alcuni problemi che si manifestano già in età infantile, come i disturbi del comportamento, che vanno dalla semplice irrequietezza al disturbo di polarità oppure, più gravemente, di autismo. In certi bambini spesso si evidenziano manifestazioni di aggressività, fino alla violenza. Al di là della violenza che per imitazione ispirano e istigano alcuni video-giochi, alcune esperienze hanno dimostrato come la semplice sottrazione di un tablet a un bambino di pochi mesi (come il nostro amichetto sul seggiolone), cui era stato precedentemente permesso di giocarci, provochi dapprima capricci, ma poi – se la sottrazione dello strumento si ripete, scateni vere e proprie crisi psicotiche. Ciò ci collega allo spauracchio, del tutto fondato, della dipendenza provocata dagli strumenti tecnologici.

Va considerato il fattore, piuttosto importante, dell’indifferenza di molti genitori e famiglie verso la reale necessità di essere «presenti» per i figli, cosa che comporta la voglia di interagire con loro, il desiderio di «mettersi in ascolto», pronti ad accogliere i loro input e a scambiare sentimenti ed emozioni, aver disponibilità a parlare con i figli (esseri senzienti e pensanti), a comunicare con loro fisicamente e verbalmente. È scoraggiante constatare come il numero dei volonterosi disposti a svolgere il duro lavoro degli educatori diminuisca via via. Certo, educare è estenuante: chiedetelo a chi, come gli insegnanti, ne ha fatto il lavoro di una vita. 

In una relazione di cattiva qualità con i genitori i bambini sono ben contenti di trovare negli strumenti tecnologici il sostituto del genitore: lo strumento almeno c’è, non disconferma le loro aspettative negando la propria presenza; così il bambino a poco a poco da questo simulacro di genitore crea dipendenza.

Guardiamoci attorno, in pizzeria come in una sala d’attesa, su un treno come nello studio del medico: genitori chini sui loro telefonini che rifilano telefonini a figli piccolissimi purché li lascino in pace! Beccati ‘sto ciuccio digitale! E soprattutto non rompere!  È questo l’inizio del tramonto dell’umanità?

(maggio 2019)

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«PRONTO? VOGLIO PARLARTI DEL TELEFONINO» di Letizia Gariglio

«Pronto? Voglio parlarti del telefonino…» di Letizia Gariglio, articolo tratto dal mensile on line “Parole in rete”«

A Ivrea nel 2017 (sentenza del 30 marzo del Tribunale di Ivrea) è stata riconosciuta una relazione fra l’uso del cellulare e l’insorgenza di un tumore. Un uomo, afflitto da tumore, si era rivolto al Tribunale perché sentenziasse sul neurinoma, tumore che gli aveva tolto l’udito, dopo aver lavorato con il cellulare per tre ore al giorno nel corso di quindici anni: gli è stata riconosciuta la malattia professionale e l’Inail insieme alla Telecom sono stati condannati ad un risarcimento tramite vitalizio.

La sentenza è degna della nostra attenzione perché spesso ancora oggi la comunità scientifica stenta  a riconoscere la connessione fra tumore e uso del cellulare, e si nota una diffusa volontà di classificare la dannosità delle radiazioni emesse da cellulare al pari della dannosità, in termini di cancerogenità,  di quelle di una tazzina di caffè o di una sigaretta.

Tuttavia l’Ordine Mondiale della Sanità ha incluso l’inquinamento elettromagnetico fra le quattro emergenze più importanti del pianeta: ciò significa che la preoccupazione per l’insorgenza di malattie degenerative, come i tumori, dovuti anche ad esposizione a campi elettromagnetici, è ben accesa. Negli ultimi anni l’incremento di impianti, antenne, WiFi, in abitazioni e uffici, grazie ad un esponenziale avanzamento di tecnologie sempre più potenti e sofisticate, ha alzato, con l’aumento dell’esposizione ai campi elettromagnetici, anche il livello di preoccupazione delle persone e degli enti sensibili al problema.

Finché l’attenzione delle singole persone è esercitabile (verso l’utilizzo appropriato di un forno a microonde, per esempio), va tutto bene, ma quando l’utilizzo e la presenza stessa di impianti non è dipendente da scelte individuali, ma coinvolge gruppi e realtà collettive, tutto si complica.  Spesso, infatti, non è competenza di singoli cittadini decidere la collocazione su un territorio di antenne, la disposizione di cavi, la scelta del tipo di alimentazione, nemmeno la presenza eventuale di stazioni radio. 

A tal proposito sono stati condotti studi fra l’esposizione residenziale e le radiofrequenze (American Journal of Epidiemology) che hanno dimostrato rischio di leucemia, cancro del cervello e cancro infantile, dimostrando che vi è  un’associazione importante fra esposizione residenziale all’emittenza e aumento dei casi di leucemia.

Siamo in grado di scegliere se tenere la radiosveglia sul comodino,  il cellulare sotto il cuscino, se lasciare le nostre apparecchiature elettriche in standby, dare in mano ai nostri figli piccoli il cellulare o il tablet per tenerli buoni in modo efficace, intrattenendoli facilmente. Possiamo decidere se vogliamo usare il cellulare con le cuffiette oppure no, e anche se ci piace usare il WiFi sulla nostra auto in corsa. Ma la situazione è ben più complessa.

Anche l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, in una propria Risoluzione, è intervenuta  nel prendere in esame gli effetti sulla salute delle campi elettromagnetici emessi dagli apparati di telefonia mobile e di altri sistemi WiFi a banda larga. Nella stessa Risoluzione si sollecitano gli stati membri ad un maggiore impegno per una regolamentazione attenta sull’uso degli apparecchi che emettono tali onde; nel documento si dice: «…la certezza scientifica sugli effetti dei campi elettromagnetici sulla salute delle persone non si potrà avere che fra diversi anni…». Anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha evidenziato la necessità di fare prevenzione, limitando l’influenza negativa sulla salute. 

In Italia urgerebbe qualche riflessione in più, se consideriamo che, dopo Usa e Giappone, siamo il Paese con maggiore diffusione di telefonini e l’utenza di telefonia mobile per abitante è pari al 160%.

Nel mondo degli educatori l’incompletezza di prove scientifiche non basta a calmare le preoccupazioni, né a sollevare gli addetti ai lavori dalla intima convinzione che vi sia una relazione stretta fra atteggiamenti comportamentali, difficoltà generazionali nella presenza di disturbi specifici di apprendimento, diffusione di autismo e onde elettromagnetiche.

Del resto esistono studi analitici sulla cognitività che analizzano i nessi fra onde elettromagnetiche, personalità e comportamento; gli educatori spesso osservano condizioni fisiche nei bambini e negli adolescenti, come cefalea, irritabilità, stato di eccitabilità; si conoscono interferenza ammesse dalle ricerche scientifiche con la frequenza cardiaca, con il riposo notturno, l’alterazione della quantità e qualità del sonno, mancanza di attenzione nelle attività di apprendimento.

È plausibile che fra bambini e ragazzi, come fra gli adulti, vi sia una diversità nella tolleranza all’esposizione ai campi magnetici. Però sempre più frequentemente i bambini e i ragazzi sono in grado di manifestare a parole il proprio disagio,  accompagnato qualche volta da un lieve senso di nausea, che loro provano a contatto prolungato di tablet e telefonini. Si tratta della percezione di sensazioni, che l’individuo stesso sente di provare: non sanno bene definire che cosa provano, ma sono in grado di manifestare la sensazione.

Anche la sensibilizzazione degli adulti si fa più acuta nei confronti dei minori. Se in passato qualche errore è stato commesso con leggerezza  (pensiamo, per esempio, all’accudimento a distanza con interfoni (i baby-phone) i genitori oggi sono diventati più accorti. O almeno, lo speriamo. Lo vogliamo sperare.

Studi su effetti epigenetici hanno dimostrato che le radiazioni veicolate da telefonini cellulari conducono a comportamenti e ad alterazioni neurofisiologiche persistenti. Alcuni studi  condotti intra utero hanno dimostrato nel feto iperattività, ansietà crescente e si è arrivati finalmente a comprendere che l’esposizione a radiofrequenze in utero è potenziale causa di disordini comportamentali nel nascituro; non solo, si è compreso che le alterazioni neurofisiologiche persistono dalla fase neonatale all’età adulta.

(aprile 2019)

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UN FILO D’ERBA CI SALVERÀ

UN FILO D’ERBA CI SALVERÀ di Letizia Gariglio, TRATTO DAL MENSILE ON LINE “PAROLE IN RETE”

Forse la speranza di salvezza sta in un filo d’erba. Forse…

Come nelle peggiori distopie orwelliane, anche nel racconto di Wanda Scuderi, che in questo numero pubblichiamo, il mondo non ha più passato. Se il passato nell’immaginazione dell’autore inglese doveva essere controllato per poter controllare il presente e il futuro (“Chi controlla il passato, controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato”, scriveva Orwell), nella narrazione di Scuderi il passato è già stato eliminato dalla memoria delle persone (quasi tutte le persone).

Se in Orwell il partito dominante aggiorna costantemente le informazioni riguardanti il passato,  compiendo un’attenta opera di ristrutturazione della realtà del passato, in funzione dei propri interessi politici, nel racconto Forse la cancellazione delle tracce del passato è ancora più drastica, giustificata, sostenuta e messa in atto, com’è, dall’oggettiva cancellazione di ogni traccia appartenente a qualsivoglia elemento naturale.

Qui il passato è innominabile e impensabile, condannato a una damnatio memoriae.E se la cancellazione del nome era per gli antichi il massimo sfregio per la persona che subiva la condanna, comportando la dimenticanza del suo passaggio sulla terra, per Gero e Velja, i più giovani protagonisti della nostra storia di oggi, la condanna della perdita di memoria è legiferata  e supportata con regolamenti speciali e sanzioni: leggi speciali concorrono a eliminare  la presenza, dalla mente delle persone, del Klime-Out, l’avvenuto cataclisma che ha definitivamente estirpato ogni traccia di presenza della Natura sul pianeta. Nel mondo di Forse, tuttavia, il governo dominante commette un importante errore, a vantaggio dei dominati, lasciando libero di esistere il mondo degli affetti familiari. In quel piccolo spazio della realtà domestica, per quanto deturpato da artifici tecnologici sostitutivi dei dati naturali, il potere dominante dimentica di intervenire per distruggere l’individuo, tralascia l’opera di sopraffazione di quel piccolo territorio, e lì, solo lì, rinuncia a insidiare le persone proponendo loro un continuo assorbimento di eventi collettivi (che Orwell invece giudicava indispensabile per l’annichilimento della libertà umana). Così viene conservato un piccolo spazio per lo scambio di alcune emozioni e sentimenti fondamentali per il nutrimento dell’umanità, come quelli che ancora agiscono fra genitori e figli. In quello spazio potrà insinuarsi  la ribellione dell’immaginazione, e, attraverso di essa, si realizzerà l’impossibile.

A differenza del mondo di 1984 in Forse non convivono in famiglia giovani pericolosi delatori, e i piccoli, ancora liberi nel gioco dell’inventare, combinando fra loro elementi e materiali inerti, arriveranno a scoprire una nuova alchimia e con un nuovo ma antico  spirito di sperimentazione, che si rivelerà originale e vitale, realizzeranno la trasmutazione in oro della materia inerte, reinventando la Vita.

Splendida occasione per noi di speranza, verde come un filo d’erba, malgrado tanta amarezza. Siamo convinti infatti che per costruire una società globalizzata piegata  alla volontà di chi conduce il potere, con forme plutocratiche, oligarchiche e quanto più possibile tecnocratizzate, occorra la globalizzazione delle coscienze. Percepiamo con chiarezza la volontà diffusa di dissolvere le identità e le specificità culturali, religiose e politiche, annacquando le nostre forme di identità più forti. Certamente la famiglia rappresenta un cardine dell’identità della persona: è in famiglia che si trasmettono valori morali; se l’autorità genitoriale è forte si costruisce nei figli un’identità altrettanto forte. Constatiamo la volontà di distruzione della famiglia tradizionale, dal momento che è nella famiglia che l’individuo si riconosce e conosce regole, misura, ordine. Ci preoccupa la distruzione dell’identità di maschile e femminile, la sostituzione dei due sessi con individui unisessuali, anonimi; la teoria gender nega una specifica natura maschile e femminile e vuole farci digerire, con tempi che si fanno sempre più precipitosi, l’idea che il sesso, in una famiglia tradizionale, sia frutto di arbitrarietà culturale, di pure convenzioni sociali, insomma di stereotipi sessuali.

Però Gero e Velja, nonostante tutto maschio e femmina – e sarà la femmina a ricreare la vita-, forse ci porgeranno un filo d’erba.

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L’ARTE E LA SCIENZA SONO LIBERE? di Letizia Gariglio

L’arte e la scienza sono libere? di Letizia Gariglio

Da chi è stato attribuito l’ampolloso nome di “Patto trasversale per la scienza”?

Il nome ci preavvisa: si vuole assegnare al documento, o almeno si vorrebbe, il compito  di definire ciò che scienza è o non è: arbitrio piuttosto pericoloso dal momento che il cosiddetto “patto” è una cosa, ma dietro questa cosa ci stanno degli uomini: si vorrebbero dunque costoro arrogare  il diritto di stabilire le definizioni e i confini della “scienza”? 

Gli uomini che hanno proposto l’enfatico “patto” sono due immunologi: Guido Silvestri e Roberto Burioni, due “scienziati”, dunque, che appartengono entrambi a un settore molto limitato e specialistico della scienza. Mi avrebbe suggerito una miglior garanzia la presenza nel gruppo proponente, che so, di un fisico, un matematico, un ingegnere, magari uno zoologo, un astronomo: insomma una piccola rappresentanza di qualche varietà della conoscenza scientifica.

Nel richiedere la sottoscrizione al  documento da loro stilato a personaggi politici di varia appartenenza i  due immunologi, ergendosi a rappresentanti di tutti gli scienziati, propongono un documento in cinque punti, il primo dei quali afferma  che: «Tutte le forze politiche italiane si impegnano a sostenere la Scienza come valore universale di progresso dell’umanità, che non ha alcun colore politico, e che ha lo scopo di aumentare la conoscenza umana e migliorare la qualità di vita dei nostri simili».

Fino a qui le parole mi respingono appena un po’, se non per la loro impressionante banalità, e perché avrei preferito un congiuntivo esortativo, invece di un presente, perché in fondo di una richiesta si tratta, non della constatazione di una realtà di fatto; inoltre nutro qualche dubbio che davvero la scienza non abbia alcun colore politico… ma insomma, non sottilizziamo.

Così proseguo. E leggo: «Nessuna forza politica italiana si presta a sostenere o tollerare in alcun modo forme di pseudoscienza e/o di pseudomedicina che mettono a repentaglio la salute pubblica come il negazionismo dell’AIDS, l’anti-vaccinismo, le terapie non basate sulle prove scientifiche, ecc…» E qui i dubbi si fanno più consistenti: come facciamo a decidere se si tratta di scienza o di pseudoscienza? Chi lo stabilisce? Chi è arbitro di una simile valutazione? 

Piuttosto dubbiosa proseguo nella lettura. E  vedo: «Tutte le forze politiche italiane s’impegnano a governare e legiferare in modo tale da fermare l’operato di quegli pseudoscienziati, che, con affermazioni non-dimostrate e allarmiste, creano paure ingiustificate tra la popolazione nei confronti di presidi terapeutici validati dall’evidenza scientifica e medica». Ahi ahi, la mia povera testolina va in confusione. Infatti io credevo che il luogo dove le forze politiche avessero il compito di legiferare fosse il Parlamento, non l’ambito di un patto firmato da singoli cittadini. Devo preoccuparmi? Per mettere a tacere una vocina interiore che urla dentro di me paventando minacce di incostituzionalità (noi vecchiette vediamo fantasmi dappertutto!) vado a rileggermi il mio vecchio fascicolo consunto del testo della Costituzione, trovo l’articolo che cerco e tiro un sospiro di sollievo, perché l’articolo è ancora lì, è sempre lo stesso. Dice l’articolo 21. «Tutti hanno diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto, e ogni altro mezzo di diffusione».Ma allora, tutti sono liberi di fare ricerca!

Mi tranquillizzo (ma forse faccio male) perché penso che non potrà essere un qualunque patto a negare il valore delle leggi costituzionali.

Ma non ce faccio più ad affrontare tutte queste emozioni, e.ormai il mio animo è in subbuglio, chiudo gli occhi e incubosamente sono attanagliata da fantasie di feroci discussioni fra “scienziati”: decido io qual è la l’effettiva valenza scientifica… chi deve essere bocciato…no, decido io…dammi il patto che firmo prima io…vuoi rubarmi la scena, no, a me le telecamere, firmo prima io…. Cosa credi, io sono pagato meglio di te…quanto vale questa “ricerca”? 

Quanto vale uno scienziato?

Basta, basta…. Mi rifugio nell’illusione: «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento».

(febbraio 2019)


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LE FANDONIE OGGI. FAKE NEWS E CAVALLI DI TROIA (FANDONIE)

Le fandonie, oggi. Fake news e cavalli di Troia  di Letizia Gariglio. Articolo tratto dal mensile on line “Parole in rete”

Vi sono alcune operazioni mediatiche che possiedono caratteristiche di vera impudenza, altre vengono condotte in modo più elegante e raffinato; lo schema proposto, tuttavia, rimane sempre lo stesso: occorre creare un problema per creare una reazione negli utenti dell’informazione. 

La reazione, sempre basata sull’emozione della paura, suscitata dal finto problema creato e comunicato attraverso i mezzi di comunicazione e di informazione, produrrà sempre come risultato una richiesta, nel pubblico, di protezione, di sicurezza, susciterà domanda di emanazione di regole, proposte e realizzazioni  di più severe norme di controllo, leggi, provvedimenti speciali, decreti: insomma, darà come risultato la disponibilità a misure di chiusura, di limitazione di libertà di comportamento e di scelte, che troveranno, quasi immediatamente dopo, effetti di realizzazione.

Il problema, infatti, vuole soluzioni, le soluzioni vogliono disciplina e, quando necessario, coercizione. Così, disciplina e coercizione verranno percepiti e vissuti come benedetti.

Una tecnica prediletta da chi ha necessità di creare un problema è quella di amplificare con toni accesi, con plurime info ravvicinate, trasmesse dai media, di fake-news, di fandonie organizzate per manipolare l’attenzione e l’opinione pubblica, al fine di suscitare la reazione voluta.

In base alle reazioni emotive, alla forte impressione da una parte provata, e dall’altra indotta, in base allo shock e alla paura, da una parte vissuti e dall’altra suscitati ad arte, sarà prodotta nelle persone una volontà di ammorbidimento dei confini della sfera personale, la disponibilità psicologica e fattuale a lasciar entrare altri nella gestione del pacchetto dei nostri diritti, sentendo molti di noi il desiderio che qualcuno, altro da noi e al di sopra di noi, gestisca per noi la protezione dal male.

Malgrado l’abilità nel condurre l’operazione di comunicazione è difficile ottenere  una reazione univoca; vi sarà sempre chi la penserà, attorno al problema suscitato, in modo del tutto contrario a quello verso cui il sistema vorrebbe pilotare il giudizio del pubblico.

Che cosa occorre dunque fare per indebolire, isolare e infine annientare la resistenza (quantomeno di opinione) di coloro che la pensano in modo contrario a quello che si vuole indicare come unica via possibile?

Si crea una divisione netta fra gli utenti dell’informazione. Si fronteggeranno i bianchi e i neri, il sud e il nord, la squadra a righe e quella a pallini, con tutte le loro tifoserie al seguito.«Divide et impera», insegnava l’antica Roma con il suo motto: per dominare agevolmente occorre porre discordia all’interno dei popoli soggetti; per controllare un popolo bisogna provocare disaccordi e litigi, bisogna che non vi sia unità di sentimenti e intenti.

Nella nostra epoca di informazione sovrabbondante, sia quella di tipo ufficiale sia di tipo alternativo, è bene sfruttare entrambe le piste, per creare parti l’un contro l’altra armate, per fomentare la discordia. Anche là dove molti non vorrebbero diventare partigiani dell’una o dell’altra parte, non sarà concessa la libertà di sentirsi e comportarsi come uomini liberi, perché d’ufficio saranno catalogati come appartenenti alla categoria non allineata con i dettami del sistema governativo.

Vogliamo fare un esempio? 

Nell’anno trascorso  e in quello precedente il dibattito suscitato ad arte con i media ha sollevato un gran polverone attorno al tema dei “vaccini”.

Nella fase immediatamente precedente si era provveduto a creare il problema con una congrua burrasca mediatica. Infatti era stato confezionato uno spauracchio: il morbillo, aveva dichiarato la rappresentante del Governo, la ministra Lorenzin, incombeva sulla sicurezza di tutte le nostre vite. Naturalmente per prime venivano le vite dei poveri indifesi (i bambini), poi anche quelle degli adulti, alcuni dei quali, vivi e vegeti, sembravano  nel frattempo aver dimenticato di essersi “normalmente”ammalati da bambini di morbillo e di esserne, per così dire, “normalmente” guariti, come era accaduto a buona parte della popolazione occidentale fino a poco tempo prima; solo qualche raro nonno rifiutava di stupefarsi di fronte al televisore e continuava ad opporre un pericolosissimo atteggiamento di calmo buon senso nell’ascolto delle nuove terrificanti notizie. Lo spaventapasseri della ministra era stato gettato in campo e stava facendo validamente il suo lavoro, impedendo a qualsivoglia uccello di becchettare in libertà. Noi merli, tutti  a nutrirci di false notizie! Del resto, come non accogliere di buon grado l’informazione trasmessaci dalla rappresentante di governo? Se la ministra dichiarava uno stato di emergenza, che motivo avevamo per considerarlo falso a priori? La signora parlò di «crescita semi-epidemica del morbillo»; molti media rimpallarono la notizia togliendo il “semi”; la signora fece riferimenti precisi: in Gran Bretagna quasi duecento morti per morbillo: si accertò poi che non erano mai esistiti. Aggiunse altri dati completamente falsi: un ragazzo malato di leucemia, strappato da morte certa per la sua malattia, era deceduto invece per morbillo. Falso anche questo: come la famiglia del povero ragazzo e la struttura ospedaliera che si era occupata di lui si affrettarono a smentire.

Ma insomma, con le fake news erano entrato nelle nostre case questo efficacissimo cavallo di Troia. La popolazione , dopo l’ondata di paura che l’aveva percorsa, era pronta per accogliere misure d’emergenza. Così fu nel giro di poche ore confezionato un decreto che impose 12 vaccini alla popolazione infantile (poi ridotti a 10). Il cavallo di Troia era servito nel creare una grossa paura, tale da giustificare un decreto-legge (ennesima ferita nella vita costituzionale della nostra nazione): un bel colpo per un Paese che impiega anni per approvare definitivamente una legge.

Buona parte dell’opinione pubblica si schierò con la parte Sì-Vax; anzi, alcuni, presi dal panico nel loro ruolo di genitori, arrivarono a protestare perché le strutture pubbliche erano impreparate ad accogliere l’ondata di richieste e ritardavano le somministrazioni; minacce e intimidazioni furono rivolti a operatori del settore sanitario e  già si profilavano forme di ghettizzazione per alunni a scuola non vaccinati. Alcuni cittadini , pochissimi, si schierarono con il partito No-vax, suscitando reazioni manzoniane: dagli all’untore! Alcuni cittadini avrebbero voluto poter discutere, confrontarsi, essere meglio informati, magari anche essere tranquillizzati. Ma non poterono difendere la loro posizione che sostanzialmente esigeva libertà di riflettere, discutere, scegliere. Furono immediatamente inseriti, insieme ai No-vax nel gruppo degli untori: gente pericolosa che con i loro tentennamenti o, peggio, con le loro scelte libertarie, volevano mettere in pericolo la vita altrui. 

Il vaccino, come in precedenza la libertà di scelte oncologiche non univoche, è stato occasione di atteggiamento costrittivo e, in questo caso, di un decreto nel quale mi permetto di vedere una bella dose di coercizione.

Pochi giorni prima di Natale 2018 (23 dicembre) un coraggioso articolo di Franco Bechis uscito sul quotidiano Il Tempo ha avuto il coraggio di elencare tutto ciò che nei vaccini era presente, e non avrebbe dovuto esserci. Dopo mesi di controlli e di analisi di laboratorio sui vaccini abbiamo avuto risultati inattesi (e clamorosamente preoccupanti). Il vaccino della rosolia, ad esempio, mancava proprio dell’antigene della rosolia; nel vaccino multivalente contro difterite, pertosse, tetano, epatite B c’era di tutto, persino DNA umano, ma erano presenti anche altre numerosissime impurità (non in un solo lotto, in lotti diversi), come una serie di inquinanti, anticrittogamici, diserbanti, glisofato, antibiotici, antimalarici, alluminio, antiparassitari, formaldeide, varie altre tossine chimiche.

Ma naturalmente i difensori del salutismo coatto si sono precipitati a dare spiegazioni.

Noi, che desideriamo sapere e vorremmo sapere di più, siamo stati come sempre tacciati di ignoranza: loro (gli pseudoscienziati asserviti alla causa delle case farmaceutiche), com’è ovvio, per ogni preoccupantissimo particolare si sono precipitati a fornire fornire “valide” spiegazioni. E con quale velocità le hanno confezionate!

(gennaio 2019)

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PROIBITO PROIBIRE (LE PAROLE DEL ’68) di Letizia Gariglio

Proibito proibire di Letizia Gariglio, articolo tratto dal mensile on line “Parole in rete”

Proibito proibire, anzi: «il est interdite d’interdire» è un aforisma lanciato da Jean Yanne sulle onde radio di RTL: divenne uno slogan del ’68.

Era il 1968 quando Caetano Veloso si trovava a Parigi, lesse sui muri della città: interdit d’interdire. 

Erano parole ribelli, che esprimevano un sentimento che il musicista riconosceva come proprio, parole che avrebbe voluto urlare all’odioso regime cui il suo paese era sottoposto. 

Il 1° di aprile del ’64 i Brasiliani si erano beccati un pesce dai denti di caimano, nella notte: il golpe. Il Presidente Goulart non ebbe alcuna reazione, fu deposto e fuggì in Uruguay. Così ebbe inizio il regime di Castelo Branco che divenne Presidente della nuova dittatura militare. Nel 1968 le proteste del movimento studentesco brasiliano contro il regime dittatoriale si intensificarono. Anche i musicisti Gilberto Gil e Caetano Veloso furono arrestati, a causa della loro collocazione politica, e poi vennero rilasciati in cambio di un esilio volontario. Dovettero attendere ventun anni che la dittatura finisse. Insieme a Gil e a Chico Buarque, Veloso incise a Londra numerosi dischi che esprimevano la sua grande nostalgia nei confronti del suo Paese e nello stesso tempo la disapprovazione per la dittatura. 

Proibido proibir è il titolo della canzone che Veloso portò provocatoriamente al Festival Internazionale da Canção nel 1968, altrettanto provocatoriamente si presentò sul palco vestito  di plastica fosforescente; il testo della sua canzone  era un eccentrico manifesto contro i totalitarismi, ma la musica era quanto di più provocatorio e sperimentale si potesse udire in quel tempo e in quel luogo: pazzesche chitarre elettriche distorte, cacofonie, rumori mescolati ai suoni sconcertarono la giuria e ancor più il pubblico. Insomma, quando Caetano Veloso si ripresentò sul palco per la seconda selezione lui e gli altri musicisti furono sovrastati da fischi, insulti… e lanci di oggetti imprecisati. Caetano smise di cantare e pronunciò un discorso rimasto nella storia della musica  ma anche della cultura brasiliana. Si rivolse ai giovani e li strapazzò per bene. Poi riprese a cantare stonando volutamente. Uscì di scena. Pochi giorni dopo fu pubblicato il singolo di Proibido proibir. Non divenne mai un grande successo. Ancora oggi la canzone non fa parte di nessun album. Tuttavia contribuì validamente ad alimentare il “tropicalismo”: quel movimento culturale e musicale che in Brasile, attorno al ’68, si opponeva apertamente alla dittatura militare. Qual era la novità fondamentale del tropicalismo? A mio parere fu la caratterizzazione di collettivismo che il gruppo di artisti che lo alimentava riuscì a prendere. Musicisti, attori, poeti, cantautori, artisti che vi facevano parte  non agivano e non creavano singolarmente, ma formarono un collettivo di scambio creativo che espresse con forza una spinta libertaria, riuscendo a dare un’impronta di reale cambiamento e rinnovamento nella scelta dei canoni artistici, poetici, musicali. 

(dicembre 2018)

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LE IMPRESSIONANTI FALSITÀ DELL’INFORMAZIONE (FANDONIE) di Letizia Gariglio


Le impressionanti falsità dell’informazione: Timisoara
 di Letizia Gariglio, articolo tratto dal mensile in rete “Parole in rete”

Un cittadino cecoslovacco (Cechia e Slovacchia erano ancora unite) nel dicembre 1989 riferì all’Agenzia di Stampa ungherese MTI che colpi di arma da fuoco erano stato sparati a Timisoara. Chi ha l’età potrà ricordare la notizia, perché essa si trasformò in breve tempo in una bufala di ordine planetario.  Fu ripresa nella stessa serata dalla TV di stato ungherese, che non citò la fonte, ma aggiunse che lo scopo della sparatoria  era stato quello di impedire la deportazione di un pastore protestante. In effetti si era svolta a Timisoara una manifestazione in favore di un pastore protestante minacciato dalla Polizia di Ceausescu; ed erano veri anche gli spari sentiti, però, il 15 dicembre (due giorni prima). Nella serata del 17 la radio di Vienna riferì anch’essa di incidenti avvenuti nella cittadina della Romania (veri anch’essi). Il giorno seguente la notizia rimbalzò fra le pagine di Le Monde del Corriere della Sera: riferirono di arresti e cariche della polizia.

Il martedì 19/12 tutti gli organi di informazione si scatenarono. Washington Post annunciava sangue a Timisoara. Ma l’Unità fu anche più incalzante: si paventavano da 300 a 400 morti. La Radio Ungherese parlò di cittadini assassinati e di cadaveri all’ospedale. Tutto il mondo si agitò alla notizia che la cittadina romena, dove Ceauscescu esercitava ancora il suo potere di ferro, fosse il cento di scontri davvero importanti. Le rotative di tutto il mondo impazzirono: Timisoara era completamente distrutta; i giornali e i loro giornalisti si lanciarono uno sull’altro, uno contro l’altro, uno più dell’altro. Iniziarono a fornire particolari dapprima inquietanti, poi violenti, infine raccapriccianti: bambini schiacciati dai tank, donne incinte trafitte da baionette, mitragliate a raffica sulla folla… uno sterminio.

Il 21 il dittatore del Paese si dava alla fuga, perché, dicevano i giornali, erano restati sul terreno 4660 morti, 1860 feriti… per non parlare del numero di arresti.

Sugli schermi TV arrivarono le immagini, con la notizia che fossero state scavate fosse comuni, dove i cadaveri erano stati frettolosamente accatastati. Immagini di corpi mutilati, fatti a pezzi, corpi disseppelliti e ripresi con le torce nel buio della notte: scene da tregenda. La difficoltà di comunicazione con i Paesi della ex Jugoslavia rendeva ancora più drammatiche le immagini e le notizie, cui si aggiungeva il vuoto di una distanza artificiale.

Alla fine comunque i giornalisti di tutto il mondo giunsero a Timisoara. E tutti confermarono. Confermarono la veridicità di morti e feriti, la drammaticità dei toni e la descrizione della scene: si trattava senza alcun dubbio di una strage, esaltata dalle parolone dei titoli e degli articoli. Qualcuno arrivò ad affermare di aver personalmente assistito alla “battaglia di Timisoara”. 

La macchina televisiva funzionava al meglio e gli avvenimenti erano sotto gli occhi di tutti: corpi nudi legati con filo di ferro,  cadaveri sventrati, donne mutilate, feti trucidati e abbandonati avevano reso Timisoara l’Inferno romeno. 

Collaboravano per Avvenimenti due giornalisti, Michele Gambino e Sergio Stingo, al loro giornale venne in mente di mandarli sul luogo per raccogliere notizie dirette. Appena arrivati a Timisoara corsero per vedere i cadaveri. Li videro: erano pochissimi, erano in avanzato stato di decomposizione (chiaramente deceduti da alcune settimane; la madre sventrata aveva oltre 60 anni (troppi per essere madre) e il feto appoggiato sulla sua pancia era un bimbo bello e fatto (nemmeno un neonato). Qualcosa non tornava; tutto era molto strano. 

Fu il custode del cimitero a svelare l’arcano. Affermò di aver invano spiegato a tutti i giornalisti che quei corpi erano stati sottoposti all’autopsia, ero appartenuti a barboni, a derelitti, perché quello, si affannava il becchino, era il cimitero dei poveri: non erano stati torturati, assicurava, e poi erano stati disseppelliti “dopo”, ed erano stati contesi da tutti quei giornalisti e tutti quei fotografi! E ancora si disperava, il pover’uomo, di non essere stato creduto.

Quando tornarono in patria il giornale dei due cronisti stentò a credere a una simile enormità: come contrastare tutti i giornali del pianeta?

Intanto la dittatura romena era caduta, non esisteva più, e il massacro di Timisoarafaceva già parte della storia: non era più un argomento di attualità.

Nel 1990 una rete televisiva tedesca ammise che foto e riprese di Timisoara erano state falsificate, scattate con messinscene; in seguito anche le autorità romene ricostruirono i dati anagrafici dei corpi macchinosamente usati: chi era morto di alcolismo, chi di freddo, chi di congestione…

L’inganno, probabilmente ordito per destabilizzare definitivamente la dittatura, era avvenuto consapevolmente, almeno da parte di alcuni (aveva però storicizzato una realtà inesistente): altri, nel mondo dell’informazione, avevano semplicemente seguito la corrente.

Alcuni giornali fecero un po’ di autocritica.

Ma per che cosa si ricorda oggi Timisoara? Si ricorda per il massacro, perché «il passato è quanto viene ricordato… dalla memoria dei singoli individui», diceva Orwell. E la correzione di un’informazione falsificata, in parte o del tutto, conta molto poco: la falsa informazione, se fa leva sugli istinti e sulle emozioni (parla alla pancia, qualcuno dice), soprattutto se fornita in modo impressionante, resta nella memoria degli individui come la verità degna di essere memorizzata.

(dicembre 2018)

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UNA MONETA TRASFORMERà UN RANOCCHIO IN PRINCIPE?di Letizia Gariglio

Una moneta trasformerà il ranocchio in principe? di Letizia Gariglio, tratto dal mensile on line “Parole in rete”

Difficilmente sopporto l’aggressività dei dibattiti televisivi, dove l’umanità esprime al meglio pretese di prevaricazione, con annientamenti laser-oculari, ferite squarciate da parole laceranti, sprizzi di odio sudato sotto i riflettori; mal sopporto anche il ricercato quanto finto aplomb  anglosassone degli uomini della finanza e dei teorici dell’economia, la cui principale preoccupazione è nascondere sotto parole di falsa oggettività e patina di scientificità il sottile piacere di rovinare la gente, sommersa di difficoltà nello sbarcare il lunario e nel destreggiarsi fra i debiti. Però il convegno dal titolo «Società, economia e moneta positiva» che si è tenuto a Roma nell’Aula dei Deputati venerdì 23 novembre, e trasmesso poi in Internet da Byoblu,  l’ho seguito volentieri, quasi senza accorgermi di proseguire nell’ascolto. Che cosa di di diverso lo informava?

Forse l’atteggiamento positivo dei relatori, tanto sincero da rendere gli interventi gradevoli e comprensibili. Possibile che si parlasse davvero di denaro? Si sono avvicendati negli interventi Fabio Conditi, Antonino Galloni, Antonio Maria Rinaldi, Giovanni Zibordi, Marco Cattaneo e Orango Riso.

L’associazione Moneta positiva, promotrice dell’iniziativa, parte dall’analisi dei Trattati Europei e del funzionamento del sistema monetario in vigore per elaborare delle proposte concretamente attuabili, tenendo conto del sistema monetario vigente, ma anche della nostra Costituzione: è una proposta squisitamente italiana, che incentiva, nel rispetto di quanto già stabilito da accordi precedenti, un sostanziale miglioramento delle cose, creando con l’immaginazione soluzioni possibili.

All’inizio del convegno ascolto una affermazione che lì per lì ha dello strabiliante: siamo ancora sovrani della nostra moneta. Ad una simile affermazione c’è di che sobbalzare.

Siamo ancora sovrani della nostra moneta? Ma come? Non l’ha da tempo l’Italia definitivamente perduta, la sua sovranità monetaria?Un po’ per volta l’abbiamo perduta, alla maniera della rana bollita, con una metodologia che bene ci ha spiegato Noam Chomsky: la rana, cioè noi, come in tante altre occasioni, non si è accorta che qualcuno la stava bollendo, fino a quando la temperatura dell’acqua, alzatasi poco a poco, è diventata troppo elevata perché avessimo ormai la forza di balzare fuori della pentola.

Nel pentolone eravamo stati educatamente e silenziosamente messi fin dal 1981, quando nel luglio (la rana era già proiettata sulla prossima vacanza nello stagno!) il signor Andreatta, allora Ministro del Tesoro, decise che la Banca Centrale non avesse più l’obbligo di acquistare le obbligazioni che lo stato non riusciva a piazzare e lo comunicò a Carlo Azeglio Ciampi, Governatore di Bankitalia; in realtà la nostra Banca d’Italia in questo modo era stata dispensata dall’obbligo di sostenere la spesa pubblica nazionale. Da lì inizia il declino dell’Italia.

La temperatura si elevò gradatamente, restando tiepiduccia, fino al 1992, quando il Ministro del Tesoro dell’epoca, Guido Carli (che in precedenza era stato Governatore di Bankitalia), stabilisce che spetta solo al Governatore decidere sul tasso di sconto: non occorre che si concordi con il Ministro del Tesoro. Al governo c’è Andreotti, Presidente è Cossiga, Governatore della Banca d’Italia, il già noto Ciampi.

Mentre la ranocchia italiana saltava qua e là, sguazzando nel tepore della sua brodaglia – e intanto il calorino la tranquillizzava, si arriva al 1998, quando la gestione della Banca d’Italia viene sottratta al Governo Italiano con un decreto legislativo, e viene affidata al sistemo europeo delle banche centrali. Al Governo c’è Prodi, Il Presidente della Repubblica è Scalfaro, il Governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio. Questo è certamente il momento più grave, tuttavia la rana, pur avvertendo uno strano pizzicorino, non ci fa caso, perché è abituata a non farsi domande più grosse di lei, e un po’ anche perché è abituata a fidarsi della Banca d’Italia che, per quanto nata come società per azioni di diritto privato, dal dopoguerra ha sempre funzionato da super-banca, da banca delle banche, avendo l’obiettivo di sostenere la stabilità dei prezzi. Ma da quel punto il potere di creare valuta passa in mano alla BCE. 

Sebbene qualcuno ancora pensi che la BCE  sia in qualche modo controllata dall’Europa, è una banca privata: né è organo esecutivo della Unione Europea e nemmeno dipende da essa.

Dopo l’entrata in vigore dell’euro la BCE si è avvalsa del proprio potere di emettere il denaro,   prestandolo ad un certo interesse alle banche che vengono definite come specialiste in titoli di stato,  le quali prestano a loro volta all’Italia il denaro, sempre ad un certo interesse. I profitti della BCE vengono suddivisi con quote diverse tra le varie Banche Centrali, compresa Banca d’Italia, la quale però non è più la Banca del Governo Italiano e quindi ripartisce i suoi utili tra i suoi partecipanti… Insomma, noi cittadini non siamo proprietari del denaro che adoperiamo, ma ne usufruiamo: esso ci è concesso in prestito. Lo stato esige da noi un contributo via via maggiore per pagare gli interessi alle banche: così noi ci impoveriamo sempre più. Dopo il «Trattato di Maastricht»,1993,  infatti la Banca Centrale Europea stampa a costo zero gli euro e li presta agli Stati, compreso il nostro, in cambio di titoli del Tesoro, addebitando agli Stati non già il semplice costo della stampa, ma il valore nominale della banconota (10 euro, 20, 50, ecc.), gravandole per di più con gli interessi.

Non possedendo la propria sovranità monetaria l’Italia non può più creare il denaro, disporne secondo le necessità. Insomma un gruppo di banchieri gestisce ormai la rana. Essa, trasformata in eterna debitrice è oramai impossibilitata a fare quel famoso salto fuori dalla pentola che potrebbe salvarle la vita.

Ogni tanto, però, la rana, per quanto resa stupefatta dalla bollitura, si ricorda di aver avuto una Costituzione, che stabilisce (o stabiliva?) che «la Sovranità appartiene al popolo».

Anche Moneta Positiva, che partecipa al movimento per la riforma monetaria, ce lo ricorda. Così Fabio Conditi ci frusta (positivamente) con l’affermazione: la sovranità monetaria è ancora dello Stato Italiano. E d’un solo botto la rana si dà  una svegliata.

In buona sostanza si tratta di quanto segue. Purtroppo le cose stanno davvero come scritte sopra: i Trattati Europei hanno trasferito alla BCE l’emissione delle banconote.  E hanno anche affidato’ alla BCE il controllo sul quantitativo di monete metalliche che hanno validità in Europa, tuttavia hanno stabilito quanto segue: gli Stati membri dell’UE possono coniare monete metalliche in euro con l’approvazione della Banca Centrale Europea per quanto riguarda il volume del conio. Nei Trattati dunque è riservata al singolo Stato la possibilità di coniare monete; inoltre nulla è mai detto di eventuali monete coniate aventi valore nei singoli Stati, sui singoli territori nazionali. Infatti la Germania e la Finlandia hanno già coniato monete metalliche da 5 euro valide solo sul proprio territorio. Oltre a ciò, secondo gli esperti convenuti il 23 novembre, potrebbero anche essere emessi biglietti di Stato, poiché alla BCE è assegnata l’esclusiva delle banconote aventi corso legale nell’Unione (non si parla dei territori dei singoli stati). Un’ulteriore possibilità potrebbe essere la creazione di denaro elettronico da parte dello Stato.

L’idea è semplice, tanto semplice da apparire fin da subito oltremodo pericolosa: basta demolire l’idea che sia buono, giusto e necessario che il sistema bancario crei denaro attraverso prestiti, mentre non sia altrettanto buono e giusto che lo Stato crei  soldi per i cittadini. Moneta Positiva propone: proviamo a recuperare l’idea che, nonostante sia stato affidato a banche private il compito di immettere denaro nell’economia, grazie al fatto che, malgrado ciò, lo Stato sia ancora (in parte) sovrano della propria moneta, è possibile per lo Stato creare denaro da immettere sul mercato.  

Purtroppo le banche private, cui abbiamo delegato il potere di creare il denaro, non sono supervisionate da nessuno e gestiscono questo immenso potere avendo come unico obiettivo il proprio tornaconto: è esclusa qualunque forma di interesse per il bene della società e della collettività. Al contrario, la moneta che lo Stato, attraverso proprie banche pubbliche, potrebbe creare nel pubblico interesse, in quantitativo stabilito, non sarebbe una moneta già gravata da debito  all’origine, verrebbe immessa in modo diretto sul mercato, andrebbe a sostenere spesa pubblica e riduzione delle tasse.

E se provassimo a immaginare il lieto fine, con il ranocchio che finalmente si libera dall’incantesimo e ridiventa (quasi) principe?

(dicembre 2018)

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BUFALE E BISONTI SULLA LUNA (FANDONIE) di Letizia Gariglio

Bufale e bisonti sulla Luna  di Letizia Gariglio, articolo tratto dal mensile in rete “Parole in rete”

La mandrie di possenti bisonti selvaggi, che noi abbiamo conosciuto grazie a molti film western, sono comparse sulle pellicole in epoca successiva. Così le grandi foreste nordamericane di abeti secolari, così i grandi fiumi dalle acque gelide e turbolente, dalla forza ora distruttiva ora dolcemente scorrevole in pianura; così le grandi montagne dalle rocce tanto irte da sembrare impossibili: paesaggi veramente lunari. Le abbiamo conosciute nel cinema, per mezzo dei film e dei documentari, nel Novecento.

Eppure qualcuno le aveva letterariamente immaginate e descritte molto prima.

Per la verità al quadro descrittivo era stata aggiunta anche la compagnia di unicorni azzurri, di uccelli dalle proprietà acquatiche, di piramidi di quarzo color violetto, insieme anche a umani bipedi, dotati di alcune caratteristiche dei castori, di uomini pipistrello… e così via. 

Tutti questi avvistamenti non erano avvenuti sulla Terra, bensì sulla Luna. E non con i potenti telescopi odierni, ma con telescopi un po’ più modesti, nel 1835, in un giorno d’estate, il 25 agosto, in pieno  periodo di calura estiva e per molti cittadini newyorkesi di vacanze, che hanno in comune in tutto l’Occidente la proprietà di far diminuire i numeri di lettori e, ahimè, le vendite dei giornali.

Ecco perché qualcuno aveva pensato di inventarsi una deliziosa bufala!

A dare la notizia di queste scoperte meravigliose e sconcertanti fu il New York Sun con il primo di una serie di sei articoli firmati dall’assistente dell’illustre astronomo John Herschel, il Dott. Andrew Grant. Si apprese così che il conosciuto e qualificato astronomo aveva montato al Capo di Buona Speranza un telescopio così potente da permettere di osservare alcune scene di vita sulla Luna, fino all’evidenziazione di gustosissimi dettagli.

John Herschel esisteva davvero, ed era per davvero un astronomo inglese famoso (7 marzo 1792 – 11 maggio 1871), tra l’altro era a sua volta figlio di un altro grande astronomo di origine tedesca, lo scopritore William Herschel (15 novembre 1738 – 25 agosto 1822), che per primo aveva avvistato e scoperto Urano Però il pover’uomo non solo non aveva mai dato simili notizie ad alcun rappresentante della stampa, ma da quel momento si trovò nella posizione di doversi difendere da accuse, minacce, insulti, dimostrazioni di disprezzo, e quant’altro. Da quella data memorabile passò il resto della vita a cercare di discolparsi e di chiarire l’equivoco, negando la paternità della falsa informazione. Intanto, però, la fandonia aveva fatto il giro del mondo. La flora e la fauna lunari avevano fatto innamorare i lettori, i quali continuavano a richiedere notizie ed aggiornamenti. Andrew Grant, tuttavia, aveva scarse opportunità per accontentare i lettori e anche per continuare la propria carriera giornalistica, semplicemente perché non esisteva 

Così «The Great Moon Hoax», la «Grande Bufala della Luna» si dovette accontentare della risonanza che aveva creato attorno a se stessa; il più soddisfatto fu il proprietario (Frank Munsey) del New York Sun, edito da Benjamin Day, che aveva esponenzialmente aumentato il numero di copie vendute.  

Il quotidiano newyorkese era nato nel 1833 e fu il primo giornale a essere venduto a un penny: primo esempio di penny press; continuò a essere pubblicato fino al 1950.

Per sintetizzare lo spirito del giornale, riportiamo una massima, attribuita a John Borgart, un suo capo redattore, che dice: «Quando un cane morde un uomo non fa notizia; ma quando un uomo morde un cane, quella è una notizia!

(novembre 2018)

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SACRO TEPPISMO DEI FIGLI DI PAPÀ (LE PAROLE DEL ’68) di Letizia Gariglio

Sacro teppismo dei figli di papà di Letizia Gariglio, articolo su “Le parole del ’68” tratto dal mensile on line “Parole in rete”

Anche fra poeti, scrittori, drammaturghi italiani vi fu chi si espresse in toni molto negativi nei confronti degli studenti e del movimento del ’68. Famoso l’intervento di Pier Paolo Pasolini che scrisse ponendosi in forte contrasto contro l’occupazione della Facoltà di Architettura a Roma, in una lunga poesia in forma prosastica.

La battaglia di Valle Giulia rimase il nome con cui si ricorda il grave scontro fra gli studenti e la polizia, avvenuto il 1 marzo del ’68. Quando quattromila studenti, partiti da Piazza di Spagna, si diressero verso la città universitaria per manifestare, non sospettavano che avrebbero dovuto fronteggiare un imponente presidio di poliziotti. La manifestazione degenerò e gli studenti sostennero l’urto delle cariche della polizia. Vi furono più di mille feriti.

La poesia di Pasolini colse l’aspetto particolare del contrasto politico, in cui gli appartenenti a classi privilegiate, vale a dire gli studenti, si trovavano a vivere il ruolo di «rivoluzionari» di estrema sinistra. Diceva il poema, scritto subito dopo gli avvenimenti di Valle Giulia, poi pubblicato su L’Espresso il 16 giugno del ‘68 e successivamente nel volume Empirismo Eretico (nel 1972) da Garzanti:

«I ragazzi poliziotti / che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione /risorgimentale) 

di figli di papà, avete bastonato,/ appartengono all’altra classe sociale. /A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento /di lotta di classe: e voi, cari (benché dalla parte /della ragione) eravate i ricchi, /mentre i poliziotti (che erano dalla parte /del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque, /la vostra! »

Pasolini definì poi i propri versi «brutti versi» e spiegò successivamente che vi era compresa ironia e autoironia. «Il pezzo sui poliziotti», disse, «è un pezzo di ars retorica, che un notaio bolognese impazzito potrebbe definire, nella fattispecie, una captatio malevolentiae. Dunque, una provocazione! E aggiungeva: «Non posso fare come tanti miei colleghi, che fingono di confondere le due cose (o le confondono veramente!)»,-  le due cose a cui si riferisce sono la guerra civile e la rivoluzione –  «e presi dalla psicosi si son buttati a corpo morto dalla parte degli studenti (adulandoli, e ricavandone disprezzo); non posso nemmeno affermare che ogni possibilità rivoluzionaria sia esausta, e che quindi bisogna optare (come in un diverso destino storico accade in America o nella Germania di Bonn) per la «guerra civile»: infatti la guerra civile la borghesia la combatte contro se stessa, come ho più volte ripetuto. Né, infine, sono così cinico (come i francesi) da pensare che si potrebbe fare la rivoluzione «approfittando» della guerra civile scatenata dagli studenti – per poi metterli da parte, o magari farli fuori».

Nel tempo i brutti versi di Pasolini rimasero a molti piuttosto oscuri, furono oggetto di misunderstanding e di interpretazioni di comodo, da una parte e dall’altra delle barricate politiche; crearono problemi all’autore all’interno del suo stesso partito; come tutte le cose di troppo difficile comprensione, in cui piani di lettura si sovrappongono ad altri, rimasero parole ostiche. 

Ma furono mai facili le parole di Pasolini?

(novembre 2018)

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SULLE TRACCE DELLA DEA. QUANDO LA FEMMINILITÀ ESPRIMEVA IL MASSIMO GRADO DELLA SACRALITÀ

PUBBLICATO DA NUOVA IPSA EDITORE, PALERMO, OTTOBRE 2018

SULLE TRACCE DELLA DEA: in sintesi

SULLE TRACCE DELLA DEA: in sintesi

Il primo capitolo, “La Dea primeva” immette nell’argomento: vi fu un tempo, precedente l’era del Neolitico,  in cui si rendeva culto a una Dea. La religiosità era d’impronta femminile e la donna possedeva, sia nella gestione della sacralità come nella società, un ruolo di grande importanza. Il testo percorre la ricerca dell’esistenza di una divinità femminile primeva, antecedente le forme di divinità maschili, riconoscendone le tracce attraverso i racconti del mito, per mezzo dei reperti archeologici e avvalendosi degli studi svolti attorno ai connotati archetipici del Femminile; motiva la perdita progressiva del potere femminile religioso e la degradazione del genere femminile nelle successive società patriarcali.

Nel secondo capitolo si fa riferimento al concetto di ‘Antica Europa’, storicamente delineato da Marija Gimbutas, in senso geografico e temporale e allo sviluppo di una antica religione fondata sulla concezione ciclica dell’esistenza, riferita a una Dea generatrice della vita, rispecchiante una società matrilineare. Il ritrovamento di migliaia di reperti raffiguranti la dea e le sue caratteristiche spirituali supportano la ricerca  e permettono di decifrare il significato di molti segni. Si ipotizza l’esistenza di una vera e propria “scrittura della Dea”.

Nel terzo capitolo si affrontano i motivi della disgregazione di questo stato di cose operata dai nuovi popoli che avanzarono verso occidente  e della conseguente svolta androcratica della civiltà. I primi documenti storici chiariscono la volontà di repressione del mondo femminile e nuovi miti si sostituiscono  a quelli precedenti, proponendo una visione del mondo androcratica,

Nel quarto capitolo si disegnano i  caratteri dell’antica Dea e le relazioni che l’antica Dea, in grado di dare la vita, la morte e la rigenerazione, ebbe con gli elementi. Si indagano alcuni significati archetipici legati agli elementi e alla triplicità delle funzioni della Dea. Ci si sofferma sui rapporti con l’acqua e l’aria.

Nel quinto capitolo è la dea della terra a essere indagata e si esaminano i rapporti fra terra e femminile, fra terra e cielo e le caratteristiche “oscure” della Dea,  delle figure mitologiche  e delle successive dee “terribili”.

Nel sesto capitolo si osserva il rapporto fra la Dea antica e gli animali, proponendo i significati archetipici e riferendo i segni presenti sui ritrovamenti.

Nel settimo capitolo si analizzano le divinità femminili delle civiltà ormai divenute storiche, a partire dalla dea sumera Inanna, tramandateci dalle diverse mitologie, passando attraverso quelle egizie e le diverse mitologie elleniche, omeriche e olimpiche.

Nell’ottavo capitolo l’attenzione è rivolta alle divinità greche, da una parte eredi di alcune caratteristiche della più antica divinità, dall’altra piegate alle esigenze organizzative e gerarchiche di un pantheon pienamente maschile. 

Nel nono capitolo si guarda agli “eroi” nemici della Dea.

Nel decimo capitolo si analizzano le facce della Dea nel Cristianesimo e nelle eredità pagane delle Donne Nere.

Nell’undicesimo capitolo si ricercano le tracce dell’antica divinità nelle pietre megalitiche e nella terra. Molta considerazione va ai siti archeologici della Sardegna, considerati i più importanti del nostro paese per ritrovare i passi della presenza della Dea.

Il dodicesimo capitolo è dedicato alle conclusioni.

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MEGLIO PETTINARSI ALLO STESSO MODO di Letizia Gariglio (LE PAROLE DEL ’68)

Meglio pettinarsi allo stesso modo (LE PAROLE DEL ’68) DI Letizia Gariglio, articolo tratto dal mensile on line “Parole in rete”

Quando attorno al ’50 andarono in scena le prime rappresentazioni di La cantatrice calva gli spettatori parigini furono stupefatti – e qualcuno profondamente infastidito –  dall’uso sperimentale della lingua che Ionesco aveva adoperato nel testo. Vi si manipolavano le parole in modo del tutto irriverente, con mescolamento di giochi di suoni e significati, rime, effetti sonori. Il risultato era caustico e velenoso; si mostrava lo spaccato di una società che vi era dipinta vana, colma com’era di personaggi vacui, meschini, ipocriti, piegati a recitare una vita di stereotipi e luoghi comuni. Se a Ionesco andò il compito di segnare una svolta decisiva nel panorama internazionale della storia del teatro – e questo ruolo gli fu riconosciuto da pubblico e critici, l’autore non ebbe lo stesso tipo di accettazione attribuita alla sua opera nei confronti dei ragazzi del ’68 e della svolta che essi cercavano di imprimere alla società.

Mentre il mondo amante del teatro aveva visto nell’autore franco-rumeno una rara e raffinata capacità di manipolare il linguaggio per mettere in discussione una certa società, egli non seppe intravedere, a meno di venti anni dalle prime rappresentazioni della sua opera, la capacità di sperimentare dei ragazzi del ’68. Il drammaturgo non credette alla loro voglia di cercare il senso profondo della vita, di porsi le proprie domande generazionali e di tentare delle risposte. Così, egli scriveva dalle colonne della Gazette de Lausanne (18 maggio ’68): «Io sono del tutto contrario alla rivoluzione del maggio in Francia. …Ciò che  in questo momento in Francia viene chiamata rivoluzione, in realtà, come ovunque altrove, viene fatta dai figli delle famiglie che abitano i quartieri chic di Parigi». E aggiungeva le beffarde parole: «Bisogna capire questi poveri ragazzi: gli manca una guerra».

Ahi, ahi, quanto suona fesso questo giudizio che nega agli altri il desiderio di cambiamento. Forse l’autore, sotto sotto, aveva già espresso una sua personale voglia di non-cambiare, quando aveva imbeccato così i suoi personaggi: «A proposito, e la cantatrice calva?», «Si pettina sempre allo stesso modo!»

(ottobre 2018)

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IL CRANIO TE LO AGGIUSTO IO di Letizia Gariglio

IL CRANIO TE LO AGGIUSTO IO(FANDONIE) di Letizia Gariglio, articolo tratto dal mensile on line”Parole in rete”

La storia e la letteratura sono pieni di falsi gioielli  (false collane di regina!), false pietre, falsi ori, ma quale motivo ci può essere per creare un falso fossile? Eppure anche questo è già stato inventato dall’uomo: l’uomo di Pitdown, forgiato da mani così esperte da trarre in inganno i più raffinati esperti (a meno che le mani degli esperti analisti coincidessero con quelle dei creatori!). Ed infatti ad un certo punto qualcuno iniziò a dubitare che il creatore dovesse per forza nascondersi fra le stanze del museo dove il fossile in questione era ospitato, fino a diventare certi di una beffa. A quel punto la domanda divenne: alla beffa  aveva lavorato un solo uomo o avevano contribuito più mani? Ancora non si sa. 

Cominciamo dal principio. Un centinaio di anni fa (1912) al Natural History Museum di Londra fu annunciata una incredibile scoperta di un commerciante d’arte e appassionato paleontologo, Charles Dawson, il quale  era entrato in possesso di un antichissimo cranio quasi completo. La scoperta era importantissima perché il reperto costituiva la prova di quell’anello, fino a quel momento mancante,  del percorso evolutivo dal primate all’uomo, che gli scienziati supponevano esistere, ma di cui fino ad allora non si era potuto avere dimostrazione. Il reperto in questione, a forma di cranio, fu battezzato  da Arthur Smith Woodward, curatore della sezione di geologia del museo, Eoanthropus dawsoni. 

Naturalmente alcuni scienziati erano dissenzienti, ma il caso volle che fossero trovati numerosi  altri reperti tratti dalle cave di pietra non lontano dalla cittadina di Pitdown, nell’Essex. è vero che fu Dowson stesso a trovarli, con altri paleontologi, ma insomma… il dubbio non serpeggiò a sufficienza! Tuttavia nel corso dei decenni successivi in nessuna parte del mondo vennero trovati reperti simili a quelli della zona di Pitdown e dunque  dubbi maggiormente consistenti iniziarono a serpeggiare.

Si dovette tuttavia arrivare all’introduzione della prova con la tecnica del radiocarbonio per accertare in modo definitivo, nel 1950, che il cranio in questione non poteva avere  più di 50mila anni, mentre Dowson e Woodward l’avevano datato a centomila anni fa.. Tre anni dopo fu decretato definitivamente che si era trattato di una grande truffa, una sorta di assemblaggio di pezzi ossei tratti da orango e innestati su un cranio di uomo moderno.

Sull’autore o gli autori della beffa restano molti dubbi anche se comprensibilmente l’attenzione cade sui due studiosi (Dowson e Woodward) che dalla scoperta avevano comprensibilmente tratto grande notorietà 

Peccato! Il cranio di Pitdown era proprio perfetto!

(ottobre 2018)

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DISLESSIA FRA RELAZIONI FAMIGLIARI E ABILITÀ DELL’APPRENDIMENTO di Letizia Gariglio, articolo tratto dal mensile “Parole in rete”

Dislessia fra relazioni famigliari e abilità dell’apprendimento (Educazione e formazione) di Letizia Gariglio, articolo tratto dal mensile di cultura “Parole in rete”

Difficoltà a percepire suoni, riconoscere e scrivere segni (compresa l’abilità motoria della scrittura): ecco i sintomi riconosciuti nella dislessia, ritenuto da molti come un disturbo biologico con base genetica, o, più ampiamente, come un disturbo con cause sia biologiche sia cognitive tuttora non del tutto sviscerate.

È un disturbo stabile, non momentaneo, e si può esprimere come disgrafia (si scrive male), come disortografia (si scrive con numerosi errori), discalculia (si hanno difficoltà a scrivere e operare con i numeri). Viene ritenuto probabile che i bambini i quali manifestano nell’infanzia disturbi della parola (storpiano le parole, anche quelle che non costituiscono difficoltà per i compagni) potranno peggiorare nel corso degli studi: si è di fronte ad indizi che lasciano sospettare un’evoluzione non positiva, un peggioramento della situazione nel tempo, nella successiva fase di apprendimento della lettura e della scrittura. Se nel tempo l’acquisizione degli automatismi della lettura e della scrittura costituiranno un problema, si scateneranno a partire di lì una serie di problematiche connesse: sarà più difficile comprendere i testi letti, sarà più lenta e difficoltosa la memorizzazione dei dati (di definizioni, o di termini che servono ad esprimere adeguatamente i concetti, per esempio), oppure la manipolazione dei numeri e delle operazioni aritmetiche.

Se si tiene conto che con il procedere del percorso scolastico aumentano le complessità, si intuisce come le difficoltà dei “dislessici” possano aumentare nel tempo.

Per i “dislessici” la parola non è lo strumento più idoneo e più naturale per veicolare i contenuti da apprendere: ascoltare, leggere, scambiare informazioni attraverso la parola, esprimere, comunicare sono aspetti di  una capacità, quella linguistica, che deve essere supportata e aiutata. Se pensiamo che il linguaggio è alla base della trasmissione di conoscenze e delle attività didattiche si capisce quali problemi possano essere connessi.

Spesso al fenomeno della dislessia si associano altri problemi, che riguardano il sistema individuale di organizzazione dello spazio e del tempo, l’orientamento di sé e di altro nello spazio, l’utilizzazione corretta del concetto di destra e sinistra, scarsità del senso ritmico, che comprende anche l’abilità di ripetere schemi ritmici. Si relaziona con la dislessia una lateralizzazione della persona un po’ imperfetta (o piuttosto imperfetta), non ben definita, variamente combinata nella prevalenza di lateralità fra occhio, orecchio, gamba, piede, ecc., ma che si compie sostanzialmente in modo non armonico.

Alcune disabilità grafiche si manifestano con la confusione di lettere simili ma invertite nello spazio (la “b” e la “d”, per esempio, oppure la “s” e la “z”), dove l’organizzazione dello spazio della grafia prevede una certa abilità di orientarsi bene fra direzione verso sinistra e direzione verso destra. 

All’allievo “dislessico” viene spesso suggerito l’uso, a scuola e a casa, di un software compensativo, a partire dalla fascia dei più piccoli, vengono consigliati spesso strumenti per lo studio (ad esempio finalizzati alla creazione di mappe) o per la scrittura matematica  e software generici di supporto per il potenziamento della lettura e della scrittura.

Sono attivi gruppi associativi, talvolta si realizzano campus estivi per bambini e ragazzi con il problema dislessia. Esiste anche un Premio Letterario (“Una città che scrive”) che riserva una sezione speciale dedicata al tema “Dislessia e dintorni”. L’Università di Ca’ Foscari ha proposto per l’estate 2018 una sessione estiva del Masterclass Deal, corso di alta formazione per aiutare negli studi  gli studenti  con disturbi di linguaggio, nello studio delle lingue, siano esse lingue materne, classiche o straniere.

In Italia la legge 170/2010 determina e sancisce il riconoscimento dei DSA, vale a dire dei disturbi specifici di apprendimento (così viene definita la dislessia): la legge tutela gli studenti di ogni età che abbiano questo problema. Occorre che il loro disturbo sia riconosciuto e diagnosticato da un team di esperti (neuropsichiatra infantile, psicologo, logopedista). Di solito la diagnosi non viene  pronunciata prima della fine della seconda classe della scuola primaria, perché prima dell’età corrispondente non avrebbe senso applicare test.

Nella scuola italiana le diagnosi dei casi di dislessia sono sempre più frequenti e, sebbene il Ministero Superiore della Sanità attesti una presenza di dislessici al 3,5% fra l’intera popolazione scolastica, all’interno della scuola serpeggia la sensazione che le problematiche riguardanti la dislessia siano sempre più numerose. Molti insegnanti, molti pedagogisti si domandano: perché? Perché sempre più bambini e ragazzi sembrano essere affetti (del tutto o almeno in parte) dai quei sintomi che abbiamo descritto poco sopra? Ci si domanda: tutti questi studenti in difficoltà con l’abilità del linguaggio sono davvero dislessici? Perché un tempo non si percepivano tutti questi problemi?

Inoltre: i casi di dislessia riconosciuti sono tutti davvero tali? Può esservi sovradimensionamento del problema? E la domanda è spesso accompagnata dal dubbio che il mondo scolastico sia eccessivamente medicalizzato. 

Occorre domandarsi se la dislessia sia dunque una malattia. Appare sicuramente come un disturbo, ma non può essere definita una patologia, perché non è rilevabile con esami di ordine chimico o fisico o per mezzo di strumenti di analisi di tipo neuro-radiologico, che possano rivelare in modo scientifico delle anomalie.

Se noi consideriamo la “normalità” dell’apprendimento della lettura e della scrittura come la più frequente condizione di coloro che leggono o scrivono, siamo indotti a considerare la dislessia come un allontanamento da questo indice di normalità: ciò è ovvio. Però: è giusto considerarlo un disturbo?

Non sarebbe più corretto considerare la dislessia semplicemente come una caratteristica personale? Esistono persone che hanno il senso del ritmo, altri ne sono privi; ci sono gli “stonati” e quelli che cantano benissimo; c’è chi ha vivo senso dell’orientamento e chi si perderebbe in un bicchier d’acqua; chi disegna benissimo e altri che non riescono a delineare nemmeno la casa col tetto; così vi è chi è portato a leggere e scrivere in modo fluente e chi fatica a riconoscere e a collegare il suono di lettere, sillabe, parole. Non andrebbe dunque catalogata la dislessia come semplice caratteristica individuale?

Perché nella nostra scuola e nella nostra società viene considerata come disturbo? Se anche vogliamo chiamarlo così, personalmente ritengo che i disturbi non siano mai indipendenti dal momento storico e dalla società in cui si presentano: non trascendono luogo, tempo, circostanze.

La nostra è una società che basa la propria comunicazione principalmente sulla forma scritta; la trasmissione culturale avviene nella forma privilegiata della parola pubblicata (i libri). Ma immaginiamo un’ipotesi diversa, immaginiamo di muoverci in un mondo in cui fosse esclusa la trasmissione in forma scritta, allora potremmo supporre quanto segue: la dislessia non esisterebbe in una siffatta società. Ma non è così. 

Si afferma che i casi di dislessia siano abnormemente aumentati negli ultimi cinquant’anni, ma è vero anche che nel corso degli stessi anni si sono consolidate le abitudini di frequentazione della scuola dell’obbligo: in Italia l’introduzione della Scuola Media Unica risale al 1962; prima di quel momento esisteva un rigido sistema scolastico selettivo, eredità della Riforma Gentile. L’ingresso alla (vecchia) Scuola Media era oltremodo selettivo; in parole povere: alla scuola media neanche ci arrivavano i dislessici, non ci arrivavano in ogni caso quelli che potevano presentare il benché minimo problema di apprendimento. La divaricazione avveniva alla fine del corso elementare.

La riforma della scuola media fu senz’altro una conquista storica in termini di raggiungimento di un’opportunità di uguaglianza per la popolazione studentesca; l’eliminazione di principi meritocratici per l’ingresso alla scuola media ebbe il risultato di potenziare una più ampia espansione dell’istruzione di base, integrò le disabilità, ma l’immissione di tutti gli studenti in un tipo unico di scuola dell’obbligo abbassò drasticamente la qualità dei contenuti dell’istruzione. Tuttavia non eliminò la specificità della predominanza del canale verbale nell’istruzione.

Ora, noi sappiamo benissimo che la trasmissione della capacità linguistica dipende in gran parte dall’ambiente in cui l’individuo si forma: un ambiente, per motivi diversi, depauperato, porta ad un uso depauperato della lingua.

Torniamo al concetto di “normalità”: esiste un livello “normale” dell’uso della lingua? E che cosa può significare l’aumento dei casi di dislessia: forse un vissuto di disagio psicologico, può essere il segno di rapporti problematici in seno alla famiglia di origine?L’esplosione delle diagnosi (e delle certificazioni dei disturbi specifici di apprendimento) in Italia non va di pari passo con quelle di altri paesi. La certificazione tende senz’altro a sollevare in parte gli insegnanti dalla responsabilità di aiutare l’alunno a compiere con successo il proprio percorso scolastico, ma aiuta soprattutto i genitori, sottraendo una parte della loro piena responsabilità educativa; solleva infine l’allievo stesso dalla responsabilità di rendere attive le proprie potenzialità, creando un atteggiamento  psicologico di ripiegamento su se stesso, lo abitua pericolosamente a pensare che “altri”, un aiuto esterno, possa intervenire in sua vece: oggi la facilitazione avviene qui… domani, chissà… qualcuno arriverà…e ciò contribuisce diseducativamente a creare la psicologia dell’assistito.

I problemi emergono con forza nella scuola perché la scuola è un concentrato di persone, un crocevia di situazioni, ma il problema si è generato a monte, in famiglia, dove padre e madre hanno abdicato al loro ruolo genitoriale, contenitivo, educativo. Quanti genitori alla deriva si incontrano nella scuola! È una realtà difficile da immaginare per chi non abbia svolto il ruolo dell’insegnante e dell’educatore e si sia trovato a contatto con realtà estremamente complesse. Eppure i genitori sono sempre meno coscienti del proprio ruolo educativo; nella scuola i problemi esplodono e, di fronte a difficoltà che sembrano insormontabili, si preferisce affidare la risoluzione dei problemi ai medici, agli psicologi, ai logopedisti, ai neuropsichiatri, vale a dire a tutti coloro che, pur essendo esterni alla reale quotidiana vita scolastica, ma essendo investiti dalla pellicola della “scientificità”, vengono autorizzati a svolgere un compito apparentemente “oggettivo”.

La preoccupazione di molti pedagogisti e degli insegnanti che si impegnano nel loro ruolo con costanza è, al contrario, quella della eccessiva medicalizzazione del problema. Già in altri paesi si sono realizzate condizioni di cura che gli insegnanti italiani temono oltremodo: i disturbi di apprendimento, accompagnati da disturbi dell’attenzione, vengono pesantemente trattati altrove con psicofarmaci.

Forse il modo migliore per aiutare i ragazzi con problemi di apprendimento potrebbe essere quello di aiutare i genitori a svolgere il loro ruolo, in una società che li allontana sempre di più dalla voglia di impegno e sacrificio per i figli.

Bisogna riflettere fra educatori, genitori, insegnanti, psicologi ed altri esperti del settore sul fatto che la dislessia, al pari di altre manifestazioni della personalità, che in ambito scolastico si manifestano più o meno visibilmente, possa essere correlata alle dinamiche parentali all’interno delle relazioni famigliari.

(ottobre 2018)

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ETERNA SÍ MA DI CARTONE


Eterna sì ma di cartone di Letizia Gariglio,
articolo tratto dal mensile on line “Parole in rete”

Non tutte le bufale storiche di nutrono di parole, ci furono anche quelle, per così dire, scenografiche. Però le parole ce le mise Trilussa. Qualcuno le ricorda? «Povera Roma mia de travertino!/ rifatta tutta de cartone / aspetta l’Imbianchino  suo prossimo padrone ». 

L’Imbianchino era proprio Hitler, che visitò Roma nel 1938. Doveva essere accolto con clamori di folla, in un ambiente degno di ricevere il capo di stato alleato. Ma Roma non possedeva una stazione decente, e lungo la linea ferroviaria, al margine della città, si allungavano le squallide bidonville, fatte di lamiere e stracci, dove si accalcavano i poveracci. Che fare? L’idea geniale fu costruire una finta stazione, degna della Capitale.  

Alla metà degli Anni Trenta in aperta campagna esisteva una fermata tecnica per i treni, nient’altro. Lì si decise che sarebbe sceso il capo della Germania. In pochissimo tempo fu allestita una grandiosa scenografia con un portico d’onore lungo centodieci metri e profondo quattordici metri; si presentava inoltre un passaggio coperto per carrozze e automobili. Mentre il treno arrivava, e trecento locomotive suonavano la sirena contemporaneamente, il dittatore tedesco poté ammirare meravigliose facciate di palazzi (dietro le quali, ben occultate si nascondevano le baraccopoli); infine il treno giunse a Roma Ostiense: stazione inesistente fino a pochi giorni prima, anzi, come nelle migliori tradizioni del teatro, fino a poche ore prima. 

Come era potuto accadere quel miracolo? Grazie ad una struttura complessa di tubi Innocenti, che portava la scenografia ideata da Narducci, realizzata in legno e cartone. Hitler giunse  alla stazione Ostiense che era sera e, forse grazie anche al favore del buio, rimase impressionato da tutto quel marmo, così ben disegnato e dipinto, da dare l’illusione di essere reale. 

Per confermare quel successo in seguito la stazione fu costruita esattamente su quel modello.

(settembre 2018)

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SE TI DONO LA CITTÀ ETERNA di Letizia Gariglio

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Se ti dono la città eterna  di Letizia Gariglio, articolo tratto dal mensile in rete “Parole in rete”

Un falso storico che ha divertito molte generazioni di studenti fu quella riguardante la donazione di Costantino: documento contraffatto e lungamente ritenuto vero. Siccome il diavolo fa le pentole ma dimentica i coperchi qualcosa nel documento, che affermava l’avvenuta donazione, finì nel tempo con il rivelare la sua stessa falsità. Furono le parole stesse a parlare: rivelavano chiaramente che esse era state pensate e redatte in una forma di latino barbarico, vale a dire decisamente posteriore a quello dell’epoca in cui il documento  si sarebbe dovuto esprimere. Tra l’altro nella “Donazione” si fa riferimento alla città di Costantinopoli proprio con questo nome, ma Costantinopoli non era ancora stata fondata. La contraffazione fu rivelata nel XVI secolo da Lorenzo Valla, che negò l’autenticità  della cosiddetta donazione nel documento “La falsa Donazione di Costantino” (De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio). 

La refutazione avvenne sotto forma di lettera, provocatoriamente indirizzata al Papa Leone X e venne pubblicata dall’editore umanista Ulrich von Hutten. Oltre alla precisa critica di ordine linguistico Valla  ebbe l’audacia di rivelare quanto fosse incredibile l’affermazione contenuta nella Donazione. Infatti, quali ragioni avrebbero avuto Costantino per donare Roma e l’intero Occidente al Papa? In modo altrettanto adamantino rifiutò la possibilità che la donazione potesse essere avvenuta per motivi di riconoscenza, perché il Papa aveva guarito Costantino dalla lebbra. Questa, affermò, non era che una favola, ispirata da una storia della Bibbia, relativa a Naaman, guarito da Eliseo.

(settembre 2018)

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SULLA CITTÀ DI MÖRFELDEN-WALLDORF SEDE DI “IMPRONTE DI ARTISTE”

Qualche nota sulla città di Mörfelden-Walldorf sede di Impronte di artiste, di Letizia Gariglio, articolo tratto dal mensile on line “Parole in rete”

Mörfelden-Walldorf  è una città dell’Assia, di circa trentamila abitanti, posta molto vicino a  Francoforte (10 chilometri), che ha davvero alcune cose in comune con Torre Pellice, situata in Piemonte, con cui è gemellata. Infatti fu fondata il 10 luglio 1699, da Valdesi in fuga dalle Valli Valdesi, dopo la revoca dell’Editto di Nantes del 1685. L’editto aveva riconosciuto per alcuni anni la libertà di coscienza, vale a dire la libertà di avere e mantenere convinzioni interiori (religiose) e di comportarsi di conseguenza, in tutto il territorio francese; comportava la libertà di culto  nei territori dove i protestanti si erano già installati prima del 1597.

La revoca dell’Editto scatenò un’ondata di persecuzioni nei confronti dei Valdesi. Un gruppo di famiglie in fuga si trovò a girovagare per sfuggire alle persecuzioni cui erano sottoposte nelle Valli; si fermarono in Assia e riuscirono a firmare un accordo  con il langravio d’Assia Darmstadt.  Questi promise una forma di riconoscimento nei confronti dei Valdesi provenienti dalla Val Pellice, assicurando loro la libertà, i Valdesi presentarono un progetto di costruzione urbana , composto da una serie di fattorie che sarebbero sorte lungo l’asse principale della località. In cambio avrebbero ricevuto esenzione dal servizio di leva e dal pagamento di imposte. L’accordò funzionò.

Oggi il 10 luglio è ancora considerata la data di compleanno di Mörfelden-Walldorf.

(settembre 2018)

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LA COLONIZZAZIONE INTERIORE (LE PAROLE DEL ’68) di Letizia Gariglio

La colonizzazione interiore di Letizia Gariglio (articolo tratto dal mensile on line “Parole in rete” (settembre 2018)

«Quando un gruppo ne domina un altro, il rapporto fra i due è politico»: queste sono le parole che avremmo voluto leggere nel 1968. Non fu possibile. Ma erano state scritte.

Le aveva scritte Kate Millet, attivista femminista e scrittrice, che aveva iniziato proprio così l’apertura del manifesto del nuovo femminismo, redatto per l’assemblea del primo gruppo di liberazione delle donne, riunitosi alla Columbia University di New York. Il documento, inviato al giornale Columbia Spectator, fu rifiutato. Così non fu possibile leggerlo.

Fu respinto anche dalla Columbia Radio Station dell’Università, che non lo mandò in onda. Così non fu possibile nemmeno ascoltarlo. 

Ne venimmo a conoscenza successivamente, dopo che la macchina tritasassi del mondo patriarcale aveva finalmente preso avvio. Siccome «tutte le civiltà storiche  sono patriarcali: la loro ideologia è la supremazia maschile» era necessario lottare contro il predominio maschile a partire dalle istituzioni, secondo ciò che il Manifesto stesso recitava: le pratiche patriarcali consistevano nella «imposizione del dominio maschile attraverso le istituzioni: la religione patriarcale, la famiglia proprietaria, il matrimonio, il “focolare”». Più di una generazione di donne, quando infine poterono leggere gli scritti di Kate Millet, iniziarono a  dare coscienza ai loro pensieri, che tardavano a prendere forma, perché la cultura patriarcale era dura non solo da assalire, ma persino da comprendere: utilizzava da millenni strumenti di persuasione che raramente avevano consentito al genere femminile di esprimere in modo teoricamente organizzato il senso di disagio, di sofferenza e di sfruttamento che provava. Fin oltre gli anni ’50 del secolo scorso nella società occidentale, compresi gli Stati Uniti in cui la nostra autrice scriveva, si esercitava una dominanza maschile che non si esprimeva soltanto nelle possibilità di istruzione e di realizzazione professionale, ma più sottilmente in ogni anfratto della vita di ogni donna, cui il dominio maschile si imponeva innanzi tutto all’interno della famiglia, con assegnazione di ruoli inferiori, cosiddetti femminili, fatti di doveri domestici, di accudimento di figli, di “casalinghitudine” spesso non desiderati, per non parlare della negazione di importanti diritti umani, come ad esempio il diritto di voto (che come ben ricordiamo nella civilissima Italia avemmo solo nel ’46).

Parte della lotta per la liberazione del sesso femminile doveva passare attraverso la rivoluzione sessuale, atta a garantire la fine della repressione sessuale, attraverso la quale per millenni si era esercitato il dominio maschile, in forme spesso brutali, di violenza e sfruttamento. E nel ’68 con la liberazione sessuale si avviò la possibilità, per il genere femminile, di accedere a una condizione di scelta sessuale di cui la donna era rimasta priva per millenni, coincidenti con il dominio delle grandi religioni monoteiste.

Le donne che ebbero modo di entrare in contatto con il manifesto della Millet e poi con il suo studio (“Sexual Politics”, 1970) fecero proprio il concetto di colonizzazione interiore di cui per prima aveva parlato. Già, perché lo stato di subordinazione delle donne si fondava (e ancora oggi in parte si fonda) su quel sentimento di subordinazione che le viene assegnato già in famiglia, con l’attribuzione di un un ruolo e di uno status inferiore a quelli maschili. Infatti, se un qualunque sistema di caste per esprimersi ha bisogno di una società, il sistema che relega la donna in subordine si realizza a monte, all’interno della famiglia, nel primo nucleo vitale di protezione e di affetti in cui lei cresce, ed è perciò tanto più profondo, insidioso e persuasivo per lei stessa. La donna cresce avendo interiorizzato, compreso e accettato la propria inferiorità nel mondo, avendola succhiata con il primo nutrimento: la forma più subdola e più efficace di potere che il patriarcato potesse immaginare.

A distanza di cinquant’anni dal manifesto della Columbia University i mezzi di informazione ci inondano quotidianamente di racconti di stupri, omicidi, femminicidi, abusi di ragazze che hanno luogo in  ambienti domestici. La casa della famiglia di origine costituisce il miglior teatro di abusi e violenze sessuali a danno delle donne. Eppure le parole che hanno accompagnato le donne nella loro lotta attorno al ’68 sembrano essere passate di moda, la coscienza femminile del resistente dominio maschile e patriarcale sembra essere passata di moda, talvolta si percepisce da parte di alcune donne persino un senso di fastidio attorno alle parole come “emancipazione femminile”, o “emancipazione di genere” o “femminismo”, il fastidio che si prova nei confronti delle cose vecchie, inutili, stantie. Un numero sempre più esiguo di donne sembra rendersi conto che quando un gruppo ne domina un altro, il rapporto fra i due è politico. Tanto, anche per la politica si percepisce un certo fastidio…

(settembre 2018)

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FANDONIE di Letizia Gariglio

Fandonie di Letizia Gariglio, articolo tratto dal mensile in rete “Parole in rete”

Sebbene si tratti di frottole, talvolta dalle dimensioni colossali di vere e proprie panzane, non gli riserveremo la pedissequa attenzione veicolata dal globish, pseudo lingua franca che si configura come pessimo inglese. O dobbiamo per forza parlare di fake-news? Comunque sempre si tratta di racconti incredibili che poi vengono creduti benissimo, di voci infondate (o malamente fondate), frottole congegnate per ingannare. Non sempre di fanfaluche si tratta, leggere come bolle di sapone, ma talvolta di sassi appositamente lanciati per ferire e danneggiare. Nel migliore dei casi sono espedienti per salvare la pelle, o almeno la faccia. Ci sono fandonie recenti, quelle storiche, alcune divenute famose, altre rimaste depositate nella zone ombrosa delle piccole bugie. Oggi viene esercitata una vera e propria disinformazione, congegnata ad hoc, che si rafforza e si potenzia esponenzialmente attraverso la rete: la questione è spinosa perché sempre più difficilmente controllabile. Non occorre urlare al complottismo se si afferma che le informazioni false sono pensate, impacchettate, promosse per arrecare danno ad altri o profitto a sé. Qui ci divertiremo con qualche bufala  di tipo storico, rimasta nella memoria, e magari prossima alla dimenticanza.

(settembre 2018)

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SIATE REALISTICI, CHIEDETE L’IMPOSSIBILE (LE PAROLE DEL ’68)

Siate realistici, chiedete l’impossibile  (LE PAROLE DEL ’68) di Letizia Gariglio, da “Parole in rete” mensile on line

Cinquant’anni distava il ’68 dalla fine della prima guerra mondiale. Cinquant’anni dista il tempo odierno dal ’68 e se non fosse per la nostalgia di alcuni che ricordano quel periodo per esperienza diretta forse sembrerebbe un evento anche più lontano. Ma c’è una differenza: il ’68 pur essendo vissuto dai giovani d’oggi come cosa dell’altro secolo, dunque lontanissima, quasi antica, è percepito come una sorte di anno di fondazione. Di che cosa? Di tutto ciò che è venuto dopo, che si è posto al di là della linea tracciata del ’68 stesso, di tutto ciò che è cambiato dopo nel costume, nei fermenti sociali, nel lievito culturale, nel modo di pensare, agire, vestirsi, pettinarsi, nei comportamenti relazionali, nella gestione dell’amore e del sesso, nella condizione della vita individuale. “Dopo” il nostro paese uscì con una gran voglia di modernità, guardando al progresso nelle conquiste della collettività, della società e della vita civile.

I protagonisti del ’68 sono, ieri come oggi, molto celebrativi. Formavano, allora, una sorta di tribù, uniti dalla gioventù e da  una frenetica frequenza ormonale: erano una marea di giovani.  A distanza di ventitré anni dalla fine della seconda guerra mondiale,  che i loro genitori avevano vissuto, i baby boomers si sentivano un corpo solo e, fra i rimasti, oggi, a cinquant’anni di distanza, in un certo senso ancora aleggia fra loro quella ferma seppur difficilmente spiegabile sensazione di  formare tuttora una tribù, di cui sentono il privilegio dell’appartenenza.  Inesistenti i pentiti. Oggi, per i sessantottini, il ’68 è ancora motivo di fierezza esistenziale.

Ieri l’autocelebrazione si fondava sulla fortissima sensazione che qualcosa di fondamentale stesse accadendo, in grado di determinare una svolta nel mondo; oggi si fonda sull’autoconsapevolezza di aver fatto parte di una magia irripetibile. Certo: la magia di essere giovani insieme, innanzi tutto, ma anche quella di essersi trovati su una sorta di limen, su una soglia al di qua della quale il mondo si fondava su vetuste autorità, al di là si sarebbe fondato sul potere della collettività, delle assemblee, della partecipazione.

Non c’era Internet, niente telefonini, nemmeno uno straccio di fax, televisione gerontofila, eppure il movimento esplose in tutta Europa, in America Latina e negli USA, dando forma a una intera generazione. Ma come facevano le idee e le parole a trasmettersi da un posto all’altro quasi contemporaneamente? Sugli striscioni cambiava la lingua ma gli slogan, che avevano attraversato mari e oceani, erano gli stessi. Tutta la richiesta culturale veniva dai giovani: la musica, l’abbigliamento, la liberazione del sesso, la rivendicazione del genere femminile, il desiderio di uguaglianza, di democrazia, di libertà…

Nel tempo molte fermentazioni si sono perdute, gli entusiasmi ribollenti si sono calmati, la furiosa voglia di portare a galla quanto di politico ci fosse in vite individuali si è sedata, trasformandosi nel peggiore dei casi in voglia di antipolitica, di anti-istituzionalismo, anti-socialità. Però in mezzo c’è stata la rivoluzione sessuale, i sostanziali cambiamenti dell’immaginario collettivo; c’è stata la fiducia che istituzioni arcaiche, macchinose e immobiliste, potessero mutare sotto la tumultuosa spinta di trasformazione della società.

A partire dagli anni ’80 la spinta di  fiducia in sé e nella realtà («siate realistici: chiedete l’impossibile», recitava uno slogan del ’68 ) si trasformò e la stagione dell’ottimismo conflisse con ondate di pensiero neoliberiste e con l’involuzione del progressismo politico. Non fu più l’immaginazione ad essere al potere. Ancora una volta fu solo il denaro.

(agosto 2018)

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Amor, cha nullo amato amor perdona. Dialogo impossibile

Lettura interpretativa registrata dal vivo: voci di Roberto Gho e dell’autrice, Letizia Gariglio. Racconto tratto da “La felicità è momentaneamente occupata”.

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Racconto Ai-Ibur-Shapu

Roberto Gho e Letizia Gariglio leggono il racconto, registrazione  dal vivo.

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Islas Encantadas

Islas Encantadas: ultima preghiera di un condannato a morte. Roberto Gho interpreta con la sua splendida voce il racconto di Letizia Gariglio inserito nella raccolta La felicità è momentaneamente occupata.

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L’amore, ah l’amore

L’amore, ah l’amore è il titolo di un racconto compreso in La felicità è momentaneamente occupata: due personaggi prendono la parola uno dopo l’altro, rivelando via via il sentimento che provano l’uno per l’altro. Tuttavia, si scopre presto che non di un uomo e una donna si tratta… Continua a leggere

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Splendido pubblico a Binaria

La felicità è momentaneamente occupata venerdì 23 marzo a Binaria Continua a leggere

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Impronte di artiste

Impronte di artiste oggi  24 marzo a Torre Pellice in una mostra curata da Paola Malato E che artiste!

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La felicità è momentaneamente occupata a Binaria

In lettura a Binaria Book – via Sestriere 34 Torino;

venerdì 23 marzo h. 20,30

La felicità è momentaneamente occupata di Letizia Gariglio

letture interpretative di Roberto Gho e dell’autrice

serata con i musicisti del duo Le stanze

organizzazione dell’Associazione GRECAM, via della Rocca 25, TO

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Oggi “Letteratura e poesia dell’Antico Egitto”

Letture di Domenico Diaferia,  Roberto Gho  e Letizia Gariglio oggi mercoledì 4 ottobre alla Biblioteca “Geisser” a Torino (corso Casale 5), ore 17,30 Continua a leggere

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Ma che letture d’Egitto!

Ma che letture d’Egitto!Nonostante il titolo irriguardoso che abbiamo dato, le letture di testi dell’Antico Egitto che Domenico Diaferia, Roberto Gho ed io proporremo mercoledì 4 ottobre alla Biblioteca Geisser sono serissime, Continua a leggere

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Colloquio/Intervista fra Elsa Graffi e Letizia Gariglio

Fessure è il titolo della prima raccolta di racconti contenuti nel tuo libro La felicità è momentaneamente occupata. Sono spiragli, colpi d’occhio nella vita di una donna. È così?

Sì, sono squarci improvvisi, feritoie da cui si possono cogliere istanti, episodi, momenti, accadimenti, sentimenti nella vita di una donna. Continua a leggere

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Pura Natura

L’artista olandese di land art Carla Cremers

Musa Paradisiaca, opera di Tegi Canfari

Può esserci titolo migliore di Pura Natura per un simposio di land art?

Vita in natura per i quindici artisti partecipanti, creazione in natura di opere elaborate a partire da materiali naturali.

Ma allora: qual è lo scopo di una creazione artistica se alla natura si tributa il senso della compiutezza e della perfetta realizzazione? Non è certo quello dell’artificio tecnico, che della natura si serve per proprio scopi, la maggior parte delle volte con nobilissimi intendimenti ma disastrosi risultati finali. Piuttosto è quello di adottare, per l’espressione umana attraverso la produzione artistica, il rispetto di quelle leggi che in natura sottendono il processo di generazione, trasformazione, distruzione e rinnovamento.

L’artista di land art forse non è così lontano dai principi aristotelici che pensano la natura non come una realtà a sé stante, ma piuttosto come un mezzo di comunicazione fra il mondo degli uomini e quello degli dei, fra il piano materiale e il pieno spirituale. L’artista di land art, infatti, alla natura interconnesso, si pone più come un mediatore, evidenziando possibili percezioni e modi di fruizione.

Quindici artisti europei soggiorneranno a San Giacomo d’Entracque, Cuneo (Italia), al Campeggio Sotto il Faggio, dall’ 1 all’ 8 luglio; rifletteranno, lavoreranno, costruiranno, condotti dalle suggestioni provenienti dall’ambiente, dai boschi di faggi, dai tronchi degli alberi, dai sassi dei torrenti, dall’acqua, dai legni e dal fogliame marcescenti sul terreno, dai profumi dell’aria, dalle marmotte e dagli altri animali del bosco; poi alla natura della Val Gesso affideranno la loro produzione artistica affinché la natura stessa continui l’opera, consumandola, trasformandola e infine riportandola, attraverso la sua distruzione, a nuova materia.

Hanno dato l’adesione a Pura Natura artisti di nazionalità diverse: Carla Cremers, Tegi Canfari, Hetty De Boer-Blonk, Emmy Chau, Sjoerd Swibettus, Polly Gregoor, Roosje Chini, Paola Malato, Clemens Maassen|, Rudi Punzo, Micaela Tornaghi, Claudia Borgna, Gilda Brosio, Marcella Tisi. Jeroen Gosse è fotografo ufficiale.

Il simposio è organizzato da Tegi Canfari e Carla Cremers.

Carla Cremers è un’artista olandese. Dice di se stessa: «La natura è la fonte della mia ispirazione e mi trasmette l’energia che utilizzo per dare vita ai mei lavori. Il vento, l’acqua, la luce lo spazio e il tempo giocano nelle mie opere un ruolo cruciale». È stata organizzatrice della manifestazione artistica di land art in Maastrict International Land-Art Maastricht negli anni 2013 and 2014.

Tegi Canfari, artista italiana, da anni partecipa a simposi di land art in Europa, creando opere d’arte con i materiali dei luoghi in cui hanno luogo le manifestazioni artistiche. Riconosce nella land art numerosi motivazioni per il proprio lavoro, non ultimo quello educativo: «Educare al rispetto e all’amore per l’ambiente» è uno dei suoi principali intenti. Dice di sé: «Il punto di partenza della mia ricerca è l’amore per la natura, come Grande Madre, madre generatrice di vita e di energia. Sono semi, frutti, foglie, fiori, radici: si ingigantiscono appropriandosi dello spazio circostante affinchè tutti noi possiamo prendere coscienza della sua esistenza e dell’essenza. Le mie sculture vogliono vivere in spazi aperti e naturali». Sue opere figurano presso la Fondazione Peano di Cuneo, Parco Sculture di Miramaurizio (Imperia), Museo Brizzi di Albissola Marina (Savona), Parco Arte e Vita in Potsdam (Berlino), Bugac Puszta, Kecskemèt ( Budapest), Museum der Stadt Barth (Mar Baltico), Centro Arte Lupier Gardone V:T:(Brescia), Villa Biener Cipressa (Imperia), Isola di S.Pietro (Cagliari). Parco sculture Centro Europeo d’Art Fantastique a Eben-Emael – Liegi, Belgio, Collezione Opere Fiber Art – Biblioteca Civica di Chieri, Biblioteca Civica di Moncalieri.È stata ideatrice e curatrice di Arte Aperta isola di san Pietro – Carloforte – Sardegna dal 2004 al 2010.

 

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Perché la prosopopea. In risposta a un lettore

 

Buon giorno. Innanzi tutto la ringrazio. Sono felice di aver almeno accontentato un lettore.
Non mi riconosco nella definizione di “surreale”, almeno non in senso storico-letterario. Se intendiamo per surreale un’espressione che si ricolleghi direttamente con il mondo dell’inconscio e dei suoi stati (di sogno e similari, anche indotti in maniera artificiale); se intendiamo riferirci a tecniche, messe in atto dalla letteratura surrealista, spesso basate su causalità, coltivate per attivare l’inconscio, allora siamo lontanissimi dal modo con cui questi racconti sono stati scritti e dalle loro intenzioni.
Non avevo alcun interesse, mentre scrivevo, nei confronti del raggiungimento di uno stato conoscitivo onirico. E’ vero che i racconti attribuiscono, attraverso la personificazione, una vita animata ad animali e a oggetti, o a fenomeni, ma in un modo completamente diverso. In realtà quei racconti sono divertimenti che confermano una predisposizione, oserei dire “congenita” dell’uomo, di intravedere, scovare entità animate nel mondo attorno a lui: le scienze cognitive studiano questa inclinazione umana a riconoscere nel mondo che ci circonda una realtà animata, umanizzata, sembra che la nostra mente sia disposta in modo naturale alla personificazione. Noi trasformiamo la realtà circostante umanizzandola: la nostra mente opera costanti metamorfosi umanizzanti. La cultura, la letteratura e l’arte, d’altra parte, hanno ampiamente confermato questa nostra tendenza ad esprimerci personificando, sia attraverso le parole, sia attraverso l’immagine. Ho voluto riprendere questa tecnica classica, letteraria e iconografica, che la retorica antica conosceva molto bene – non a caso i racconti in cui gioco con la personificazione fanno parte di una raccolta che s’intitola “Prosopopee” (che significa appunto “personificazioni”, aggiungendo ad esse la facoltà della parola).
Ho consapevolmente utilizzato la tecnica, avendo l’occasione di depurarla da seconde finalità. Mi spiego meglio. Nelle forme di comunicazione contemporanea la personificazione e la prosopopea sono al servizio di finalità commerciali. La pubblicità sa bene come sfruttare al meglio l’efficacia della personificazione: la usa per creare un impatto emotivo, per sollecitare nel modo più diretto un processo di immedesimazione fra persone (potenziali compratori) e oggetti di cui si deve indurre il desiderio. Spesso lo fa per mezzo di fumetto e animazione. Il mio scopo narrativo è invece quello di sollecitare la sensibilità del lettore ad un gioco vecchissimo, anzi antico, giocato senza secondi fini, per il puro gusto del divertimento letterario, naturalmente con un registro linguistico lontano da quello del mondo pubblicitario. Quanti di noi hanno pensato che il mal di schiena che li attanagliava fosse così ossessivo e crudele da sembrare avere una vita propria? Questo è ciò che ho provato a fare: dare vita animata alle cose.

 

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Carlo il tarlo e la legge dell’ottava. (In risposta al commento d’una lettrice)

Sono ben lieta di soddisfare il tuo interesse per il racconto. Come tu hai osservato c’è un riferimento nel racconto Viaggio di un tarlo in un’ottava alla legge dell’ottava espressa da Gurdjeff. Ma non solo.
Quando da ragazzina andavo a scuola ero rimasta molto incuriosita nello scoprire che nel mondo della chimica regnava, per così dire, la legge dell’ottava. Infatti il chimico russo Dimitrij Ivanovic Mendeleev, che non era solo un chimico ma un appassionato di musica, sulla base dell’intuizione di uno studioso che l’aveva preceduto, John Newlands, aveva pensato che anche nel mondo degli elementi chimici dovessero valere principi di ordine e armonia simili a quelli della musica.

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Conoscete le poesie di Grazia Valente?

Grazia Valente

Conoscete le poesie di Grazia Valente? Sono molto belle. Avrete modo di ascoltarne alcune prossimamente, sabato 6 maggio, alle ore 17,45 nella Sala Adele Piatino di via Botticelli 26 a Torino. Continua a leggere

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LETTURA RACCONTI

Venerdì 24 marzo lettura di Roberto Gho e Letizia Gariglio da La felicità è momentaneamente occupata di Letizia Gariglio (Nuova Ipsa Editore), attorno alle ore 21, presso Libreria La Bussola, via Po, 9 (TO). Si partecipa alla Maratona di Letture.

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PRESENTAZIONE “LA FELICITA’ E’ MOMENTANEAMENTE OCCUPATA”

LA FELICITA’ E’ MOMENTANEAMENTE OCCUPATA

lettura interpretativa

dell’autrice, Patrizia Aramu e Roberto Gho

dal volume di racconti omonimo di Letizia Gariglio

Piola Libreria di Catia, via Bibiana 31 To

Sabato 11 marzo, ore 20.30

 

 

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FOTO PRESENTAZIONE CHIERI

Gli attori Patrizia Aramu e Roberto Gho con Letizia Gariglio Continua a leggere

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PRESENTAZIONE LIBRO LETIZIA GARIGLIO CHIERI

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La felicità è momentaneamente occupata di Letizia Gariglio

Il volume di racconti di Letizia Gariglio, dopo la presentazione di  Torino avventuta in dicembre, viene presentato giovedì 2 febbraio alle ore  18 alla Mondadori Bookstore di CHIERI, in via Vittorio Emanuele 42/b.

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LA FELICITÀ È MOMENTANEAMENTE OCCUPATA

RACCONTI PUBBLICATI DA NUOVA IPSA EDITORE, PALERMO, 2016

Amor, cha nullo amato amor perdona. Dialogo impossibile

Lettura interpretativa registrata dal vivo: voci di Roberto Gho e dell’autrice, Letizia Gariglio. Racconto tratto da “La felicità è momentaneamente occupata”.

AUDIO “AMOR CH’A NULLO AMATO AMOR PERDONA”, LETTURA DI ROBERTO GHO E DELL’AUTRICE


AI-IBUR-SHAPU

LETTURA INTERPRETATIVA DEL RACCONTO AI-IBUR- SHAPU, DI ROBERTO GHO e dell’autricrtratto dal volume “La felicità è momentaneamente occupata”

ISLAS ENCANTADAS

LETTURA INTERPRETATIVA DI ROBERTO GHO E DELL’AUTRICE

L’AMORE, AH ‘AMORE

LETTURA INTERPRETATIVA DI ROBERTO GHO E DELL’AUTRICE

Carlo il tarlo e la legge dell’ottava. (In risposta al commento d’una lettrice)

Pubblicato il 16 Giugno 2017 da Letizia_Gariglio

Sono ben lieta di soddisfare il tuo interesse per il racconto. Come tu hai osservato c’è un riferimento nel racconto Viaggio di un tarlo in un’ottava alla legge dell’ottava espressa da Gurdjeff. Ma non solo.
Quando da ragazzina andavo a scuola ero rimasta molto incuriosita nello scoprire che nel mondo della chimica regnava, per così dire, la legge dell’ottava. Infatti il chimico russo Dimitrij Ivanovic Mendeleev, che non era solo un chimico ma un appassionato di musica, sulla base dell’intuizione di uno studioso che l’aveva preceduto, John Newlands, aveva pensato che anche nel mondo degli elementi chimici dovessero valere principi di ordine e armonia simili a quelli della musica.

Mendeleev in buona sostanza assunse l’idea precedentemente espressa da Newlands che prima di lui aveva proposto una metologia per classificare gli elementi: essa aveva preso il nome di Legge delle Ottave. Che diceva questa legge? Affermava che quando gli elementi vengono posti secondo massa atomica crescente, ogni gruppo di sette elementi presenta analogia di proprietà chimiche e fisiche: inoltre l’ottavo elemento ad una attenta osservazione si propone come una specie di ripetizione del primo, analogamente a quanto si verifica per l’ottava nota della scala musicale.

In seguito alle intuizioni di Newlands Mendeleev decise di disporre gli elementi in funzione del loro peso atomico crescente, e prese a raggrupparli, ad intervalli fissi e ricorrenti, su basi dell’ottava, avendo l’ottavo elemento rispetto al primo proprietà chimiche e fisiche comuni. Nell’organizzare il suo Sistema Periodico, egli procedette con un metodo empirico basato sulla ricerca delle consonanze

Fu spinto da valori che riteneva fossero presenti in ogni aspetto della vita e dell’universo e così organizzò su base settenaria la classificazione degli elementi. In questo modo constatò la veridicità dell’intuizione, perché incolonnando i valori degli elementi chimici secondo i loro pesi atomici, gli elementi che iniziavano un gruppo di sette, ossia quelli rappresentati dai numeri d’ordine 1, 8, 15, 22 eccetera, presentavano proprietà simili tra loro. 

La legge del sette, o dell’ottava, valevole in campo musicale, passò in tal modo al campo della chimica. Non a caso era un’idea musicale: Mendeleev (e tutto l’ambiente chimico russo) aveva una profonda connessione con l’ambiente musicale. Borodin era un chimico organico. A casa di Mendeleev era solito riunirsi il cosiddetto gruppo dei cinque: cinque musicisti che divennnero grandi compositori, Borodin, Rimsky-Korsakov, Mussorgski, Balakirev, Cui, gli stessi compositori che stavano dando vita ad una tradizione musicale russa moderna indipendente dalla tradizione occidentale classica. 

Gurdjeff ha rinnovato la legge dell’ottava, sotto profilo spirituale. Secondo Gurdjieff (e molti fisici moderni) tutto l’universo è costituito da vibrazioni: luce, materia, calore, suoni, non sono altro che diverse forme di vibrazione. Le vibrazioni pervadono tutto l’universo e si propagano in tutte le forme, da quella più pesante, più rozza a quelle più sottili; esse variano la loro condizione di stato, poiché seguono fasi di crescita e decrescita.

L’ottava è l’intervallo di otto note consecutive. In due punti dell’ottava l’energia che si propaga diminuisce di intensità, vale a dire che vi è un indebolimento dell’energia. Accade fra Mi e FA, poi nuovamente fra SI e DO: fra queste note infatti non vi sono semitoni. Quei due punti sono punti di crisi. Si presentano sempre in un processo di trasformazione o creazione o di attività umana. Troviamo questo fenomeno nell’osservazione della luce, del colore, e anche nella vibrazione della tavola periodica degli elementi.

La legge dell’ottava spiega perché in natura nulla proceda in linea retta. Nel punto di crisi l’onda rallenta la sua frequenza, e lì si ha una deviazione dalla direzione originaria.

Sommandosi le deviazioni si ha un ripiegamento della linea di sviluppo, tanto che essa può arrivare a invertire il senso di propagazione e chiudersi ripiegandosi in cerchio: per questo in natura tutto è ciclico.

Questa legge cosmica condiziona le nostre azioni e ci procura alcune crisi, creandoci difficoltà e talvolta rendendoci inefficienti o incapaci di fare ciò che ci eravamo proposti di fare. Solo con grandi sforzi passiamo da MI e FA e da SI a DO.

Anche le età dell’uomo e il suo cammino sulla terra sembrano essere scanditi attraverso una serie di note, personali e collettive. Con la nascita inizia l’infanzia, cui segue la fanciullezza, ma è l’adolescenza il punto di crisi (e chi non l’ha vissuta scagli la prima pietra), e se la vita scorre con relativa tranquiliità attraverso la giovinezza l’età adulta la maturità, la crisi più forte subentra per tutti nella fase della vecchiaia, che ci prepara al salto verso nuova ottava.

La mia personale curiosità per la legge dell’ottava mi ha portata a scrivere il racconto.

Il Viaggio di un tarlo in un’ottava è un divertissment allegorico, è una favola. Come avviene sempre nelle favole il protagonista è un animale: un tarlo, la cui sete di conoscenza rappresenta quella di ciascuno di noi, ciascun uomo. Dante scriveva: “fatti non foste per viver come bruti, ma per seguire virtude e conoscenza”; nell’epigrafe che precede il racconto ho giocato a parafrasare le parole di Dante nell’espressione “fatti non foste per viver come bruchi ma per seguire virtude e conoscenza”. 

Il racconto è la storia di un tarlo: il tarlo siamo noi. Come noi il tarlo è obnubilato dal proprio egocentrismo, che gli fa credere di essere il centro dell’universo. Dovrà nel corso della sua esistenza comprendere che non è proprio così, e dovrà imparare a compiere molti passi per realizzare un percorso che abbia, rispetto al suo punto di partenza, un valore evolutivo.

Così Carlo il tarlo dovrà prima incrementare enormemente i suoi sforzi per superare le negatività che lo attraggono verso il baratro (che si profila a monte della sua regione), e poi per sfuggire in ogni modo alle forze contrastanti dei suoi oppositori. Nel suo caso sarà l’amore quella forza aggiuntiva speciale che lo metterà in condizioni di superare il ripiegamento delle sue forze vitali. 

Nel migliore dei casi accade anche a noi umani.


Colloquio/Intervista fra Elsa Graffi e Letizia Gariglio

Fessure è il titolo della prima raccolta di racconti contenuti nel tuo libro La felicità è momentaneamente occupata. Sono spiragli, colpi d’occhio nella vita di una donna. È così?

Sì, sono squarci improvvisi, feritoie da cui si possono cogliere istanti, episodi, momenti, accadimenti, sentimenti nella vita di una donna. La donna dei racconti in Fessure porta sempre lo stesso nome, a suggerire che potrebbe trattarsi dello stesso personaggio. Forse la storia narra la vita di una sola donna. Ma forse non è così. Non si sa, tuttavia il succedersi degli eventi, dal primo incontro all’ultimo, è disposto in una direzione che possiede un senso cronologico, secondo un prima e un dopo. Età, tappe di vita si susseguono, dalla pre-adolescenza ad una vecchiaia inoltrata, quando anche la mente non regge più il confronto con la complessità della vita. In ogni caso in ogni racconto vi è una presenza femminile, una sensibilità che accomuna le donne.

In Attesa, la prima storia, la protagonista è nella fase della pre-adolescenza, assapora la libertà che solo una nonna può dare. Persino le vacanze da una nonna lontana sono più esotiche, quando aspetti lui: il primo lui, il primo amore. E nell’attesa della vacanza a venire anche le stagioni sembrano susseguirsi in un lampo e attaccarsi l’una all’altra, indelebilmente, come se il resto del tempo non esistesse più. Però nel tuo racconto il primo amore saprà elegantemente e inesorabilmente sparire come una particella del tempo esistenziale, piccola cicatrice di un’adolescenza.

Che sia una prerogativa maschile, il distacco, che si ripropone a ogni Lisa, a ogni donna? Tu dici piccola cicatrice, e qui non concordo. La protagonista della storia vive il distacco come un abbandono. Peggio, come una promessa di tutti gli abbandoni a venire. Così l’abbandono si presenta anche nella storia Sentirsi speciali, quando la donna sembrerebbe nel pieno della sua giovinezza e la felicità quasi a portata di mano. E infatti il distacco, l’abbandono lasciano una ferita così profonda da uccidere, o almeno da uccidere una parte dell’anima, che come un vecchio involucro, un vestito dismesso, rimarrà a terra.

Prima però la protagonista, in Essere ninfea ha l’occasione di vivere pienamente il tempo dell’amore, la piena consapevolezza del significato dell’appartenenza al genere femminile.

È così. Vive pienamente l’aspetto femminile dell’accoglienza, che è a mio parere la quintessenza del modo di amare femminile, in cui prevale il desiderio di ricevere, ma in questo modo il femminile soddisfa il desiderio di colui il quale vuole donare: nel ricevere femminile sta il dono al maschile. La donna desiderata è il desiderio, e il desiderio vuole ricevere per poter donare.

Il tempo del reciproco scambio ha fine e Sentirsi speciali è un inganno, un velo bucherellato che nasconde la verità-sogno. E se la felicità può rappresentarsi in una relazione vissuta nel tempo caldo della materia fisica, quando poi il freddo di una realtà indesiderata arriva, allora o si accetta la condizione o si entra in un altro gioco, che fa muovere ancora.
C’è un grande senso di solitudine nei racconti di Fessure, è vero?

La solitudine è prepotente, aumenta con l’accumularsi delle esperienze della protagonista. Così la piena maturità vede Lisa dibattersi, rifiutare il silenzio, segno del vuoto impresso dalla solitudine: lei cerca di riempire il vuoto con suoni fittizi. Per lei è una specie di incidente imbattersi sullo schermo televisivo (in Matrimonio) con immagini che dapprima sembrano innocue, in quanto estranee alla sua realtà personale. Non si aspetta che l’uomo sullo schermo, che pare dapprima una specie di troglodita, possa assumere le vesti di un uomo ideale, perfettamente aderente alle esigenze della sua donna, in cui Lisa non può fare a meno di identificarsi. E allora si scatena l’inferno.

Già, in Matrimonio entrano in gioco di prepotenza immagini di tutto ciò che poteva essere e non è stato, perché si è distrutto, e solo le altre sono amatissime e fortunatissime, perché c’è solo il bello della donna amata come femmina primordiale. E quando il tempo avrà sedato il dolore, ci saranno tuttavia guizzi di rimpianti. In Effetti epagomeni il pane di Natale, ultimo fagotto caldo che la donna metaforicamente non riesce più a trascinare con sé, cade nella spazzatura: ennesimo sogno che si frantuma. Lì le altre donne, il mondo delle mogli, delle madri e delle nonne di ideali famiglie, si ergono come un coro greco. Lisa fa un ultimo tentativo per ammansirlo, rassicurarlo, prima di precipitare in una condizione di vergogna inespressa.
La più ironica delle storie di Fessure è Palpiti d’amore di tamalou. Lì l’età di Lisa e delle amiche ha voltato oltre la metà. Che accade?

Beh, le ragazze cercano innanzi tutto di resistere al tempo. Non ricorrono ad artifici per modificare la forma, l’attenzione non è rivolta al corpo: niente botulini, per intenderci. Però cercano di tenersi attive, e lo sono: con la mente e, perché no, con i sentimenti e le emozioni amorose. Usano il più grande antidoto contro lo spegnimento delle energie: l’amore. Fatto sta che la protagonista viene coinvolta in un appuntamento che potrebbe sfociare in un interesse quasi amoroso…

È osservata con attenzione dalle amiche. Che prevengono, sostengono, accompagnano… ma come andrà a finire?

Ah, l’incontro si trasformerà in un duetto in cui lui e lei, ormai piuttosto anzianotti e malfermi, per quanto ancora indomiti, scopriranno la gioia della condivisione delle loro affinità elettive: le malattie, che tormentano entrambi, oppure l’uno e l’altro; così l’incontro si trasformerà in una competizione basata sulle infermità dei due tamalou.

Poi, quando inizia l’ultimo racconto, Il sole piega a occidente, ci si trova in una condizione di distensione, in una natura senza tempo, pronta ad accogliere.

Anche la protagonista sembra essere senza tempo, in un tempo indefinito, un tempo privo di memoria. Anzi, tutto il racconto è fondato sul tema della memoria e su un equivoco che riguarda i due personaggi, le età, i loro reciproci ruoli.

Il sole piega inesorabilmente a occidente…

Sì, occorre accettare. Ciò che conta è che la protagonista abbia passato il testimone.

FOTO PRESENTAZIONE CHIERI

Pubblicato il 8 Febbraio 2017 da Letizia_Gariglio

Gli attori Patrizia Aramu e Roberto Gho con Letizia Gariglio, autrice di La felicità è momentaneamente occupata durante  la presentazione che ha avuto luogo a Chieri, alla Libreria Mondadori.

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Nuovi racconti di Domenico Diaferia

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Mercoledì 16 Marzo ore 17.30
presso la Biblioteca Civica Alberto Geisser, Corso Casale, 5
Presentazione del nuovo libro di Domenico Diaferia
“I racconti del Controscoglio
Letture dell’autore, di Letizia Gariglio e di Roberto Gho

 

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8 marzo con Grazia Valente

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