AUDIO “NEI LABIRINTI DI THOMAS BERNHARD”

(ARTICOLO PUBBLICATO SU “PAROLE IN RETE”, N. 69 MARZO 2024)

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NEI LABIRINTI DI THOMAS BERNHARD

(ARTICOLO PUBBLICATO SU “PAROLE IN RETE”, N. 69 MARZO 2024)

Grazia Valente si è inoltrata in un labirinto, uno di quelli “cattivi, non in uno di quelli che ti conducono amorevolmente verso il centro della ricerca, ma uno di quelli che ti confondono sempre più, allontanandoti schizofrenicamente dalla meta che vuoi raggiungere. È il labirinto del pensiero di Thomas Bernhard, drammaturgo, poeta e romanziere di altissimo livello, e uomo infernale. 

Valente è stata capace di uscirne viva, affrontando l’esplorazione della figura dell’uomo e dello scrittore e offrendoci così il frutto della sua rivisitazione letteraria.

Il 29 febbraio, insieme con Loris Marchetti, alla Società di Mutuo Soccorso “De Amicis” di Torino, ha colloquiato del suo libro A proposito di Thomas Bernhard, edito  dalla casa editrice torinese Achille e la Tartaruga.  Grazia Valente è autrice di poesie e di racconti, di ritratti femminili in forma di collage; è collaboratrice preziosa e costante di Parole in rete.  Sulle pagine di Parole in rete  ha dapprima pubblicato, una dopo l’altra, tutte le parti del suo saggio, offrendo ai nostri lettori la possibilità di leggere questa ultima sua opera, a partire dal febbraio 2021 (numero 32), fino a settembre 2021 (n. 39), con apporti mensili regolari, successivi uno all’altro. 

Nel suo volume,  il cui titolo completo è A proposito di Thomas B. Viaggio nel labirinto della scrittura di Thomas Bernhard rivisita i cinque libri che compongono nel loro insieme l’intera autobiografia dell’autore, per arrivare a una profonda comprensione dell’uomo e dello scrittore: entrambi entità di complicato avvicinamento. Infatti, chi abbia frequentato la lettura di Thomas Bernhard ne conosce sia le provocazioni tematiche, sia le sue anomalie umane: personaggio capace di rendersi squisitamente antipatico, scandalosamente provocatorio, in permanente stato di carezzevole quanto astuto feeling con la morte (quanti tentativi di suicidio, almeno stando alle sue narrazioni!), eppure – bisogna pur riconoscerlo – in odore di genialità. Si potrebbe dire che sia la sua vita sia le sue opere disegnino una continua ellissi, la sospensione di qualcos’altro, il rimando di qualcosa che è sotteso alla sua scrittura e a cui la sua vita e le sue opere attendono.  La nevrosi distruttiva permea senz’altro i suoi personaggi, soprattutto quelli teatrali: è probabilmente nel teatro che l’autore raggiunge la massima perfezione e anche le sue opere letterarie, in realtà, si avvalgono di un impianto strutturale narrativo proprio del teatro, più che della narrazione sotto forma di racconti o romanzi: per esempio  la figura di un narratore esplicito, presente nella sua opera narrativa, è tipica della struttura teatrale.

È certamente la scena ad esaltare la sua preferenza d’autore per il gusto di ritmi linguistici al di fuori di una normalità quotidiana, l’uso del verso, le ossessioni per le ripetizioni linguistiche, le iterazioni tipiche di certi ritmi musicali più che narrativi,  ma soprattutto la scena è la situazione narrativa più adatta per esaltare, nei personaggi e nelle situazioni, i caratteri della schizofrenia e dell’assurdo del quotidiano.

Probabilmente istrionico come i suoi personaggi dissacranti, al pari di Caribaldi, suo protagonista delle pièce teatrale  Forza dell’abitudine (di cui è impossibile dimenticare la storica messinscena del Gruppo della Rocca negli anni ’70), il quale in qualità di direttore di circo da ventidue anni prova ossessivamente il Quintetto della Trota di Schubert, solo perché un medico glielo ha prescritto come rimedio ai cali di concentrazione, anche T.B. sembra ossessivamente giocare il suo ossessivo gioco con la morte, che in realtà porterà a termine solo per decisione di quest’ultima, alla sua ora stabilita:  eppure dal suo gioco personale, oscillante fra il polo destinino e quello del libero arbitrio, e dalla sua lunga sequenza di sofferenze personali, l’autore saprà trarre frutto maturo e consapevole, distillandolo nella sua opera.

Se la narrativa e il teatro esaltano la pericolosità del limen fra vita e morte, sapienza e follia, cosmo e caos, salvezza e autodistruzione, ma in un certo senso filtrano, attraverso l’arte della scrittura, i turbamenti che essi ci provocano, l’esplorazione degli aspetti umani di Thomas Bernhard inquietano oltre misura, sottolineando un destino per alcuni versi molto difficile (la nascita illegittima, la malattia…).

Grazia Valente si è trovata ad affrontare l’impresa della rivisitazione  della sua vita materiale e psicologica, a partire dalla fase dell’infanzia dell’autore. 

Dice: «Entrare nella testa di Thomas Bernhard non è mai una passeggiata campestre, piuttosto una sequenza di scene apocalittiche che lui si compiace di raffigurare  in parossistica successione…»: immagino che unico piccolo aiuto sia stato l’impareggiabile gusto per l’ironia e per il sarcasmo  dell’autore stesso.

Ma dopo l’età dell’infanzia le sofferenze di Thomas aumentano ancor più e nel capitolo “Angoscia” esse conducono anche la nostra coraggiosa autrice Valente a desiderare soltanto di allontanarsi e di abbandonare il racconto di un simile dolore, tanto sente insopportabile «il peso  del suo mondo interiore e quello del mondo intorno a lui».

Se la scuola, come Thomas afferma, è «un’istituzione per l’annientamento dello spirito», potremmo essere felici della sua liberazione dal ginnasio, ma ecco uno nuovo colpo di teatro nella vita dell’autore, che cerca e trova lavoro nel più sgangherato quartiere della sua città, una specie di anticamera dell’inferno, in una cantina adibita a negozio di alimentari, dove tuttavia l’autore, immerso nella disperazione degli abitanti di quei gironi, i reietti della società, i più poveri fra i poveri, prova una sorta di felicità nello stare a contatto con i più umili, anzi: «L’inferno per lui è diventato la casa, la famiglia… il fine settimana che coincide con il rientro a casa è l’inizio del nuovo inferno, il lavoro è liberazione, a casa vivono in nove in tre stanze», scrive Valente.

Thomas ora è gravemente malato di polmoni ed è costretto a condividere spazi ristretti con altri ammalati anziani, e conduce Grazia, insieme a noi, in questa sorta di incubo senza fine, l’ospedale,  cui T.B. dà il nome di trapassatoio, perché quotidianamente il numero dei morti supera quello dei vivi, e poi, giacché, nonostante l’incuria dei medici, lui malgrado tutto rimane vivo, ci porta in visita al sanatorio. Di tutto quel periodo al ragazzo rimane soprattutto il ricordo dei libri letti. Dei medici dirà: «Questi medici che hanno una concezione della medicina completamente degradata a puro commercio».

Grazia lascia Thomas alle soglie della sua guarigione, e lui sa di essere ormai un invalido, non potrà più portare sacchi pesanti come faceva in magazzino, ma non potrà nemmeno più cantare, arte in cui eccelleva… ma ha finalmente scartato l’idea del suicidio. Scriverà di sé: “Io non sono propriamente uno scrittore, solo un mediatore di letteratura».

È morto nel 1989. Chissà se si troverebbe ancora d’accordo con le sue stesse parole: «La morte non deve in alcun modo correggere l’immagine che dell’uomo ci siamo fatti».

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AUDIO “FEUDATARI E SERVI DELLA GLEBA”

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FEUDATARI E SERVI DELLA GLEBA (pubblicato su Parole in rete, febbraio 2024)

Ho terminato di leggere “Tecnofeudalesimo. Cosa ha ucciso il capitalismo”, di Yanis Varoufakis, uscito nel novembre 2023 per La nave di Teseo Editore, Milano. 

Yanis Varoufakis è stato ministro delle Finanze della Grecia nel governo Tsipras. Nato ad Atene si è laureato in Matematica ed Economia presso l’Università dell’Essex, Birmingham. Ha insegnato in varie università inglesi e presso l’Università di Sydney. Attualmente è professore di Teoria Economica all’Università di Atene e visiting professor alla Lyndon B. Johnson School of Public Affairs della University of Texas di Austin. È tra i fondatori del movimento politico DiEM25, acronimo per Democracy in Europe Movement, che ha come obiettivo democratizzazione dell’Europa.

Alla fine dell’anno 2023 , al profilarsi dei festeggiamenti per l’entrante 2024, Varoufakis aveva lanciato un appello: «I festeggiamenti di quest’anno cadono nel momento in cui si verifica un genocidio che stigmatizzerà la nostra generazione. Sì, dobbiamo prenderci cura dei nostri cari, celebrare i loro successi, prenderci cura di coloro che necessitano della nostra attenzione. Ma non possiamo festeggiare liberamente quando migliaia di bambini vengono massacrati in “Terra Santa” con la piena complicità della “nostra” Unione Europea». 

Il libro contiene un testo molto complesso e corposo (283 pagine), tuttavia mai noioso, la materia si alleggerisce con passi leggeri e accattivanti che inducono alla comprensione di un argomento economico difficile (almeno per me). 

E’ scritto sotto forma di lettera informale, diretta al padre, scomparso, storico militante comunista, incarcerato ai tempi della dittatura: un puro e duro a cui il figlio è costretto a spiegare, in un certo senso, l’inutilità dei modelli di pensiero del materialismo storico, del tutto inadeguati a interpretare il mondo di oggi. Il modello letterario della lettera consente all’autore uno stile di scrittura informale.

L’autore  espone nel volume la sua tesi, cioè che il capitalismo sia ormai defunto, sostituito dal Tecnofeudalesimo. Chi sarebbe l’assassino? Il capitalismo stesso. L’assassino ha avuto due complici: la privatizzazione di Internet da parte delle Big Tech americane e cinesi, e i comportamenti dei paesi occidentali nella gestione della grande crisi economica del 2008.

I due grandi pilastri del capitalismo, i mercati e i profitti, sono stati rimpiazzati dalle piattaforme di trading digitale che assomigliano ai mercati, ma in realtà sono feudi. Il profitto, in buona sostanza, è stato rimpiazzato dal suo predecessore di età feudale, vale a dire la rendita (che viene pagata da tutti noi (compresi privati, enti e aziende) per l’accesso alle piattaforme cloud. 

Esistono ancora i proprietari “vecchio stile”, così come il capitalismo li presentava: padroni di industrie, di fabbriche, di reti ferroviarie, reti telefoniche, edifici, ecc., ma essi stessi non si trovano più al centro del comando: sono divenuti vassalli, più o meno vicini ai vertici del comando, o più o meno vicini ai servi della gleba: tutti noi.

Nella sua analisi Varoufakis a un certo punto si chiede: che cos’è  il capitale? Non il denaro, non le armi… All’inizio il capitalismo era facile da definire: beni materiali che servivano a produrre altri beni materiali. M «la sua seconda natura», ci dice l’autore, «è il potere ineffabile di comandare gli altri». La transizione dal Feudalesimo al Capitalismo coincise con il trasferimento di potere di comando dai proprietari terrieri a coloro che erano proprietari di beni capitali: «La mercificazione a livello mondiale di terre precedentemente comuni ha permesso al Capitalismo di raggiungere la supremazia in tutti gli angoli del mondo». Così la forza nascosta del Capitalismo, quella del comando, ha rimodellato il mondo dai suoi inizi, avvenuti circa 200 anni fa, fino ad oggi.

Oggi si assiste a una nuova forma di capitale, con una capacità di comando prima mai sperimentata.

Il nostro Autore di racconta le sue esperienze casalinghe personali con Alexa e con l’Assistente Google; narrandoci del suo intrappolamento personale ci mette in guardia. 

Perché parla di “intrappolamento”? Perché, ci spiega, «Ciò che comincia con noi che insegniamo ad Alexa a fare cose per conto nostro ben presto sfugge al nostro controllo e si trasforma in qualcosa che non possiamo né capire né regolare. Tuttavia, con dispositivi basati sul cloud , ci troviamo in una strada a doppio senso sempre attiva  tra la nostra anima e il sistema basato sul cloud che si nasconde dietro la voce suadente di Alexa. Per usare le parole dei filosofi, Alexa ci intrappola nel più dialettico dei regressi senza fine». Dunque, se non ho capito male, noi, con le nostre  domande e le nostre interazioni (volontarie o involontarie, dal momento che Alexa ascolta sempre) la stimoliamo a operare per conto nostro, ma lei impara a conoscerci, anche mentre gironzoliamo in casa nostra, andiamo in bagno, mangiamo, diciamo parolacce, telefoniamo, e farà tesoro della conoscenza che acquisirà di noi per elaborare per noi, proprio per noi, solo per noi, risposte pertinenti alle nostre domande, saggi consigli e proposte allettanti. Ciò che noi insegniamo ad Alexa con parole o con le nostre abitudini e i nostri comportamenti viene tradotto in algoritmi, su cui noi non abbiamo nessuna possibilità di intervento, e grazie a ciò lei diventerà in grado di istruire noi. In che modo? Con piccole esortazioni, proposte di video o testi o musica o titoli di libri, anticipazioni di nostri desideri, di cui noi dapprima siamo un po’ stupiti e un po’ compiaciuti: insomma ci abitua un po’ per volta ad accettare le sue proposte; e in questo modo ci addestra ad addestrarla. Persuasi un po’ alla volta a lasciarci attrarre da qualche proposta giunta dai suoi algoritmi (dunque pertinenti per noi) finiamo con l’essere materiale redditizio per i suoi proprietari, che acquisiscono nei nostri confronti il potere di intervenire sul nostro comportamento. «Le macchine come Alexa», ci avverte Varoufakis «o perfino le impressionanti chatbot IA, come ChatGPT, sono ben lungi dalla temuta singolarità (N.d A. : la singolarità è il momento in cui la macchina acquisisce una propria coscienza). Possono fingere di essere senzienti, ma non lo sono e, probabilmente, non potranno mai esserlo. Ma anche se sono più stupide di uno strofinaccio bagnato, il loro effetto può essere devastante, il loro potere su di noi esorbitante».

Siamo noi stessi i preziosi fornitori del capitale cloud: noi che interveniamo e postiamo su Facebook, su Instagram, su TikTok … ecc., immettiamo testi e video, foto, scriviamo battute, aforismi, commenti, insulti, barzellette, noi che diamo le nostre posizioni in tempo reale a Google Maps: noi siamo gli inconsapevoli o semiconsapevoli autori della ricchezza di questi nuovi capitalisti. Non c’è bisogno di stipendiarci: noi lavoriamo gratuitamente, spinti dal nostro “divino” bisogno di imitare il Creatore, cioè di creare, di esprimerci, di mostrarci ad amici e nemici: noi siamo «i servi della gleba che si offrono spontaneamente di lavorare senza retribuzione per il beneficio dei suoi proprietari. Mentre i vecchi capitalisti potevano sfruttare solo i loro dipendenti i cloudisti beneficiano di un tipo di  sfruttamento universale; il capitale cloud è diventato strumento di comando e nello stesso tempo forma di riscossione di rendita ottenuta dall’accesso dei consumatori.

In sostanza l’ipotesi dell’Autore è che le big-tech abbiano sostituito i mercati con feudi cloud, cioè con piattaforme digitali di scambio che pur assomigliando vagamente ai mercati non sono tali e che abbiano sostituito i profitti con canoni cloud, cioè  quelle rate di pagamento che vengono versate per l’accesso ai feudi cloud, e che costituiscono le loro cospicue rendite.

Impossibile non andare col pensiero a Emanuele Severino, uno fra i più importanti filosofi del Novecento, scomparso nel gennaio 2020. Severino “prevedeva” che la tecnica avrebbe prevalso sul capitalismo e che i mezzi tecnologici sarebbero divenuti egemoni, pretendendo di essere sempre più potenziati, superando gli stessi limiti posti dai loro creatori ed esigendo un potenziamento pressoché infinito dell’apparato tecnologico. In questa ottica prevedeva che la tecnica passasse a essere, da mezzo, fine. Diceva: «Nel tempo della piena dominazione della tecnica accadrà che la politica, la morale, la religione, l’economia, il diritto non saranno più principi regolatori, ma materia regolata, mezzi al servizio dell’etica della tecnica, che prescrive di agire assumendo come scopo l’accrescimento infinito della potenza stessa della tecnica».

Così noi, disattenti fruitori di potenti mezzi tecnologici  che non dominiamo, con la testa un po’ nelle nuvole, arricchiamo l’addensamento di altri nuvoloni, fluttuanti nell’etere, carichi del bottino che noi abbiamo loro donato, e che non solo si aggirano sulle nostre teste distratte, ma ne esigono il dominio.

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AI NAUFRAGHI DELLA SCUOLA (pubblicato su “Parole in rete”, gennaio 2024)

Nel panorama generale di decadenza della scuola, di ogni genere e grado, si situa (anche) quella sorta di certificazione dei livelli di apprendimento acquisiti dagli allievi costituita dalle prove Invalsi, che dichiarano a gran voce la perdita di capacità, competenze, conoscenze a tutti i livelli scolastici. Nel panorama, tra l’altro, insiste una ulteriore lacerazione fra Nord e Sud della penisola, a sfavore del Sud, dove si sono aggiunte negli ultimi anni  pesanti mancanze causate dalla didattica a distanza, favorite dalla scarsa digitalizzazione degli ambienti familiari. Del resto, i dati Invalsi non fanno che confermare la percezione di una realtà che è chiara agli insegnanti, e dovrebbe esserlo altrettanto ai genitori, anche  a quelli che invece amano addossare le piene responsabilità dei problemi educativi alle istituzioni diverse dalla famiglia.

Il quadro educativo, formativo e didattico è allarmante e non occorrono prove docimologiche per confermarlo. Dal punto di vista scolastico i livelli di apprendimento sono allarmanti ed è macroscopicamente evidente che stiamo precipitando verso l’analfabetismo, non solo nell’ordine della cultura, ma anche in quello dell’istruzione.

È purtroppo dato di fatto l’incapacità degli studenti delle scuole superiori di formulare discorsi sensati, o anche brevi comunicazioni orali fondate su una sintassi accettabile, per non nominare la scarsa capacità di comunicare per scritto, o la penosa difficoltà di redigere semplici componimenti o argomentazioni autonome, cui si aggiunge l’ignoranza di semplici regole ortografiche e povertà lessicale.  

Tutte le suddette carenze vanno di pari passo, essendo nello stesso tempo causa e conseguenza, con la rinuncia degli insegnanti a porsi obiettivi decenti, con la faciloneria dei diversi istituti nel concedere facili promozioni (poiché anche le scuole non sono più libere da logiche commerciali), con la riduzione qualitativa dei programmi, con la banalizzazione progressiva dell’iter scolastico.

Non si profilano all’orizzonte proposte di rimedi e anche la pedagogia è un’arte in discesa, in graduale contrazione; è genericamente negato il valore del merito, galleggia la mediocrità.

L’antiautoritarismo è passato dall’essere un valore per promuovere la specificità degli allievi, la loro personalità, la loro espressività, a essere una buona scusa per l’anti-culturalità. Peggio, è divenuta scusa per il dilagare della mollezza, della maleducazione, del senso di inutilità, derivati da eccessiva compiacenza del mondo adulto e dalla rinuncia a una vera scuola educante.

La burocrazia soffoca ogni iniziativa culturale dedicata agli studenti e imbriglia gli insegnanti in una gabbia di riunioni, di circolari, di inutili assemblee che non provano nemmeno ad assemblare.

Qua e là sopravvivono, bontà loro, alcuni insegnanti di valore, disperatamente aggrappati a un ideale di scuola come ad una zattera in mare aperto e tempestoso, ancora guidati dalla volontà di ben operare, di trasmettere  strumenti, valori, conoscenze, saperi, capacità.

A loro vanno i miei auguri di BUON ANNO!

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AUDIO “AI NAUFRAGHI DELLA SCUOLA” (pubblicato su “Parole in rete”, gennaio 2024)

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AUDIO RACCONTO “IL PRESEPE IN VIAGGIO” di Letizia Gariglio

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IL PRESEPE IN VIAGGIO (racconto di L. Gariglio pubblicato su “Parole in rete”, dicembre 2023)

La ragazza si avvicinò al tavolo, sul quale avrebbe disteso, ad una ad una, tutte le statuine della collezione di famiglia. Suo padre andava fiero di quella meravigliosa collezione, che da alcuni anni si arricchiva, poiché aggiungevano ai pezzi già acquisiti altri meravigliosi manufatti, di pregiata fattura. Anche quest’anno erano stati ordinati al migliore artigiano di Napoli alcuni esemplari: un nuovo pastorello delle meraviglie, con la bocca spalancata per lo stupore che la nascita rituale di Gesù avrebbe provocato in lui, e un nuovo Benino.

Carlotta si chiedeva sempre se il pastorello delle meraviglie e il pastorello Benino, addormentato sul prato, fossero la stessa persona. Lei immaginava che Benino si fosse addormentato per poter sognare: nel sogno avrebbe potuto vedere quello che nella realtà non si vedeva mai: la visione del Bambino Gesù. Benino non si spaventava nel sogno, anzi, era così felice che voleva incontrare il Bambinello per davvero. E che, non esistono forse i miracoli? Così, dopo averlo sognato, si avvicinava alla grotta, e vedeva una luce così forte che rimaneva abbacinato; forse avrebbe voluto urlare, ma non ci riusciva, e rimaneva così, con la sua bocca spalancata. 

Il nuovo pastorello delle meraviglie, in mano alla ragazza, era davvero meraviglioso, oltre a essere meravigliato.L’artigiano aveva fatto anche un nuovo pastore ubriaco. Quello a Carlotta non piaceva. Quando si fosse trattato di sistemarlo l’avrebbe tenuto lontano da Gesù. Fosse stato per lei non ce l’avrebbe neanche messo nella mangiatoia: via tutta quella volgarità, le facevano orrore gli uomini ubriachi, puzzolenti di vino, con la pancia gonfia.

«Perché dobbiamo proprio metterlo nel presepe?», aveva chiesto a suo padre.

«È la tradizione», era stata la risposta che non l’aveva soddisfatta.

Tradizione o no, io lo nasconderò in un angolo. Che nessuno lo veda, pensò. E che non ci sporchi tutta la scena, implorò dentro di sé. È capace di vomitare, quello!

*

Tutto il proponimento stava in una notte stellata. 

Quante lingue in origine parlassero le genti che seguivano la stella non lo sapeva nessuno di loro. Una speciale dignità li univa, nonostante ogni differenza di provenienza e abitudini, e sebbene fra loro qualcuno si muovesse con sussiego, non vi erano intrusi.

Se il mondo non appariva a tutti loro come luogo di armonia, in fondo ai cuori tuttavia albergava la certa speranza che il firmamento riservasse una promessa indiscutibile di gioia, che finalmente avrebbe dato forma ai destini di ciascuno. 

Non conoscevano i calcoli complicati degli astronomi, né i tracciati delle loro mappe stellari, ma un disegno nascosto nell’anima guidava la rotta, rendendo sicuro il loro cammino.

Per quanto avessero cercato di mantenere il carico leggero, non mancavano masserizie e cesti con galline, otri imbottiti e pesanti abiti con cappucci stropicciati. Li seguivano le anonime  greggi; loro stessi erano e si sentivano gregge e da quello stato di gregge la stella prometteva loro di distoglierli. Si sarebbero liberati da quello stato indistinto, impersonale, forse anche un po’ torbido, in cui le loro vite erano trascorse fino ad ora senza individualità.

*

Adelaide toccò le orecchie dell’asino, accarezzandole. Poveretto, le faceva pena. Povero ciuccio, pensava accarezzando affettuosamente le orecchie della statuetta, che era appartenuta a sua madre Carlotta, perché ce l’hanno tutti con te? Non era forse entrato il Cristo in Gerusalemme su un’asina bianca, la domenica delle Palme? Già, ma come dimenticare sul libro di storia, nelle pagine degli Egizi, quella brutta testa d’asino che era la capoccia di Seth!

«Va beh, povero asinello mio», gli aveva detto l’anno passato «scusami se ti metto un passo indietro da Gesù, e metto il bue poco poco più avanti, così».

Quest’anno non si sentiva di dirgli più niente, però capiva che qualcuno ritenesse più importante il bue, che aiuta l’aratro a scavare.

*

Nel cuore delle notte le statuette giacevano sulla grande tavola dove la famiglia stava apparecchiando il presepe, sulla carta increspata di colore giallo rossiccio, così somigliante a quella terra madre con la quale le piccole sculture erano state forgiate dalle mani degli artigiani. Si erano succedute le stagioni dall’inizio del loro esistere, e l’espirazione di alcune varietà di cadenze linguistiche e di dialetti avevano dolcemente solleticato le loro vesti. Generazione dopo generazione, interi zodiaci di tipi umani li avevano maneggiati: tutti, a quanto pareva, appartenevano a un comune albero genealogico, sebbene fosse difficile intravedere caratteristiche comuni: solo qualche lineamento poteva lasciar scorgere una linea genetica di continuità. Eppure loro , le statuine del presepe, credevano di tanto in tanto di riconoscere la cascatella argentina di una ristata, una somiglianza nel timbro della voce, la dolcezza di una mano. 

Per alcuni, fra gli umani che li avevano maneggiati, avevano avuto decise preferenze, altri li avevano avuti pressoché in odio, poiché non era stato difficile decifrare in loro i segni di animi oscuri e di ambasce opprimenti. Di alcuni avevano invocato cure e protezione, altri avevano pregato per un po’ di gentilezza, di ognuno avevano temuto le ire, l’incompetenza e la malagrazia.

Era notte. In una notte come questa sarebbe nato il Salvatore. Ma non in una notte qualunque: nella notte più lunga e più buia dell’anno. Per questo loro dovevano aspettare che la preparazione fosse finita. Allora, la notte madre del firmamento, capace di correre i cieli avvolta in manto nero, trainata da neri cavalli, sarebbe stata percorsa da strani esseri, da figure tenebrose, forse da spettri e fantasmi, da presenze angoscianti. Così sempre accade nella notte più buia dell’anno, nelle notti più buie di tutte le vite.

E così anche loro avrebbe dovuto attendere. Avrebbero percepito attorno a loro i sentimenti degli uomini e delle donne che abitavano la casa, ne avrebbero compreso lo stato, avrebbero sentito gli animi vessati dalle paure, talvolta sospesi sull’abisso della solitudine interiore.

Ma quella notte, infine, avrebbe cacciato ogni timore, perché era stellata; era santa.

*

Maria Vittoria proseguiva nell’allestimento del presepe, maneggiando con cura le piccole opere d’arte che passavano fra le sue mani. Era in uno dei salotti della casa, quello più piccolo, con le poltrone e i divani di velluti rossi, dove lei lavorava sul tavolo addossato al muro, nell’angolo fra i due grandi finestroni. 

Aveva disposto sul tavolo piccoli sassolini e pezzettini di legno per ottenere  il fondo. In mano teneva l’impagliatrice di sedie, statuina che la famiglia possedeva fin dal ‘700, le diede il suo posto accanto al bottaio, vicino le pose i piccoli cesti impagliati, che di recente il loro artigiano di fiducia aveva dovuto rifare: quelli originali, nonostante le cure, si erano praticamente sbriciolati.

 La scenografia di fondo, con tutti i pastori in discesa dalle montagne, era già stata sistemata; ogni pastore, ogni pecorella, ogni agnello avevano già trovato collocazione. Ora stava sistemando la scenografia di pianura, dove si sarebbe ammirata la scena di città. 

Tutta Napoli avrebbe trovato posto su quel tavolo: la città di oggi accanto a quella il cui tempo si era fermato, in epoche diverse, tra le mani di un artista artigiano, che l’aveva immortalata in preziose figure e in piccoli oggetti di vita quotidiana. 

Questa era l’occasione in cui strati diversi di passato, di moderno e di contemporaneo si sarebbero conciliati e avrebbero pacificamente sostenuto lo stesso spettacolo di mangiatoia: oggi, attori di epoche diverse sarebbero confluiti sulla stessa scena, lì, su quel tavolo, amorevolmente guidati dall’attenta regia della quindicenneVittoria, dalle mani aggraziate.

 *

Tutti loro erano considerati pastori, anche quando rappresentavano mestieri diversi. Sistemati tra le pieghe delle stoffe o delle carte fra le quali erano stati adagiati per il resto dell’anno, attendevano la forma  che per quell’anno sarebbe definitivamente stata loro impressa. 

In passato era capitato che si fossero sentiti imperatori della scena, attori di prim’ordine, destinati alla stupefatta attenzione del pubblico, di cui avevano riscosso l’ammirazione, e anche quest’anno ogni astante, quando il presepe fosse terminato, si sarebbe mosso attorno con passi attutiti e visi protesi. 

Anche in questo Natale i ponti, sistemati in bilico fra fragili sponde di ruscelli, si sarebbero barcamenati come ginnasti in equilibrio, mentre con un filo di nostalgia loro avrebbero ripensato alla passata sistemazione, quella dell’anno trascorso, che oggi appariva ai loro stessi occhi come opera di costruzione più solida e assai meno avventurosa. Ma non potevano agire: solo essere agiti. 

*

Nella notte ognuno di loro, ogni viaggiatore verso Betlemme, depositava a terra le proprie carabattole; i più disordinati le sparpagliavano attorno a sé. Il presepe, che di giorno si riassestava, riassumendo come poteva un senso di ordine, di notte lo perdeva del tutto. Forse erano gli uomini che vi giravano intorno, durante le ore del giorno, a fornire un senso a quel guazzabuglio; infatti erano loro che dicevano:

«Ecco, qui pascola questo gruppo di pecorelle», sistemandole proprio lì. 

Poi però le lasciavano sole e di notte le pecorelle sporcavano dovunque, si spostavano belando, fuggivano al cospetto di lupi selvaggi (ma forse erano solo cani) che arrivavano mostrando i denti. Insomma, non si capiva più niente. Era persino capitato che arrivasse una famiglia di topolini, che aveva tentato di rosicchiare il prosciutto appeso, aveva bevuto l’acqua del laghetto e aveva scompigliato ogni stelo d’erba e di fiore. C’era da augurarsi che non avessero nidificato nella casa dell’impagliatore di sedie.

*

Accadeva sempre, quando il presepe era finalmente pronto, che nel buio della notte inframmezzato da lance improvvise di luce, qualcuno fra loro si spaventasse per quelle presenze così inquietanti, dalle forme arrotondate e gobbute, con paramenti luccicanti come gonnellini di danzatrici, tintinnanti al movimento come scacciapensieri. Alti e strani animali giunti da oriente, si diceva, sembravano avanzare dondolando, mentre le frange e i ricami delle loro gobbe frusciavano nel buio. Portavano carichi di datteri, e frutti dolcissimi, e ricchezze inimmaginabili, profumavano di spezie e di foglie preziose, sporte di vini e elisir dolcissimi. O almeno, così si diceva: così le voci sussurravano al loro frusciante passaggio, condotto dagli uomini. Disdegnavano ogni altro personaggio, ondeggiando come fa la sabbia al vento del deserto: e da lì si diceva che provenissero. 

Tutti loro li osservavano intimiditi e persino gli abili artigiani, abitualmente orgogliosi delle loro arti, rimanevano incantati ad osservare. Al confronto degli animali dondolanti del deserto sentivano che i loro ruoli si sminuivano.

Non si preoccupavano invece del possibile confronto gli storpi, i ciechi, i gobbi… tutte le forme meno fortunate del genere umano.

*

Che cosa avrebbero scelto quell’anno gli abitanti della casa? Grotta o stalla? Nell’armentario della famiglia entrambe le collocazioni della nuova nascita erano già state sperimentate.

Dall’Alto Canavese ad un certo punto della storia della famiglia era giunta una grotta intagliata nel legno, che contendeva alla stalla il privilegio della scena. Le vacche avrebbero pascolato in un paesaggio montano, su uno sfondo invernale innevato, con gli alberi dalle bianche punte? Sarebbe stata tirata fuori anche la fontana con le stalattiti e le stalagmiti? Avrebbero rinunciato a sfoggiare i pastori di scuola napoletana, che pure si erano amplificati nel tempo in una meravigliosa mediterranea esuberanza figurativa?

Adesso lo scatolone era a terra, ai piedi del tavolo che sarebbe stato dedicato a loro, almeno per ventinove giorni. Lo stress del viaggio sarebbe finito solo quando a uno a uno fossero stati tutti sistemati sulla tavola: tutti, tranne uno. Lui si sarebbe fatto attendere ancora per qualche giorno. Era un’attesa stancante per ognuno di loro, che non si sentivano al completo senza di lui, ma alla fine anche l’ultimo piazzamento sarebbe stato completato.

*

Nella notte spesso  qualcuno di loro raccontava, pur non essendo sicuro di essere ascoltato: non tutti i discorsi erano conversazioni, avevano piuttosto il suono dei monologhi. Vi erano nomi che venivano pronunciati più spesso: padre, madre, sorella, fratello, amico, amore, destino… Ognuno di quelli che di volta in volta parlavano aveva sprazzi di ricordi, e si gettava a farne il proprio racconto. Per ognuno di essi c’era un amico, una sorella, un amore grande o piccolo, felice o infelice, si dipanavano destini… Tutti iniziavano a chiedersi come mai questi nomi tornassero in ogni racconto. Ascoltavano se stessi, ascoltavano gli altri personaggi del presepe, e infine avevano l’impressione che ogni storia si confondesse con l’altra; diventava difficile distinguere fra loro i gradi di parentela, gli esiti degli amori, i destini degli uni e degli altri. Non sapevano più qual era il racconto che avevano narrato e quello che avevano ascoltato; loro stessi credevano di essere figli, e amanti, e madri, e pescatori, e cacciatori, e agnelli, e soldati romani… a turno avevano preso posto al centro della scena, poi avevano recitato parti gregarie, poi erano stati semplice massa di popolo. E ora, chi era di scena? 

Qualcuno iniziava a chiedersi perché avesse intrapreso quel viaggio, iniziava a pensare che il viaggio fosse interminabile, troppo disagevole. I marinai che erano giunti dalla costa, abituati a viaggiare solo per mare, erano sfiniti dal lungo cammino. Si domandavano se ci fosse un futuro. Impossibilitati, su terra, a tracciare rotte e a progettare approdi, si erano nel frattempo dimenticati per quale ragione si fossero incamminati e quale sogno li avesse attratti lì. 

Ma noi siamo davvero viaggiatori alla volta della Stella? O non siamo che statuine?, alcuni si chiedevano; e la confusione serpeggiava. Qual è il nostro ruolo? Quale il nostro destino? Ma ormai il gioco si era portato troppo avanti, e sebbene comprendessero d’essere diversi dagli umani che li maneggiavano, si erano profondamente identificati nei cercatori di salvezza.

Non avrebbero riportato a casa stoffe preziose né carichi di spezie, si dicevano i marinai, e dunque, che cosa erano venuti a fare? Tuttavia il ricordo si stemperava, nella notte addirittura si raggelava, e loro volgevano gli occhi intorno, incapaci di trarre, da ciò che li circondava, i segni di quella cosa che li aveva condotti fino lì.

*

C’era tutta la famiglia attorno al tavolo. Qualcuno estraeva gli oggetti, un altro scartava, un terzo proponeva una collocazione per questo o quello, un altro ancora voleva occuparsi prima del paesaggio, dello sfondo, addirittura della forma: insomma, un gran rumore, un vociare sconnesso, un accalorarsi disordinato e improduttivo. La cosa cominciava a destare qualche preoccupazione. Queste persone si sarebbero mai date una regolata? 

Loro passavano di mano in mano: una era appiccicosa e sapeva di cioccolata, l’altra era ruvida e un po’ callosa, quella era maldestra e li induceva a temere per la loro stessa vita. Tranquilli certo non potevano stare.

Speriamo si decidano, prima o poi, pensava ciascuno di loro nell’attesa pericolosa.

Qualcuno prese la  direzione della baracca:

«Prima dobbiamo decidere se vogliamo farlo in pianura o in collina».

E le sue parole misero tutti a tacere.

Per qualche attimo. Perché poi tutti si rigettarono nella mischia verbale, e si scatenò l’inferno.

Il problema era che, mentre ognuno si accalorava nel sostenere la propria opinione,  manovravano impugnandoli e brandendoli come spade. Tutti fendevano nell’aria certe affermazioni che meritavano di essere sottolineate e accompagnate da traiettorie diversificate. Loro, in preda delle manacce di tutto il gruppo,servivano a tutto, a dire su e giù, di qua e di là, sopra e sotto, ma anche a sinistra, a destra, insomma ogni persona presente disegnava il proprio paesaggio mentale con uno di loro in ogni mano. Più le mappe dei loro pensieri si presentavano complicate, più le diverse braccia s’incrociavano, si affrontavano in assalti ripetuti, si muovevano in fendenti che facevano tremare il cuore. Era difficile credere che stessero solo parlando: sembrava piuttosto un incontro all’arma bianca privo di regole. Ma quando li avrebbero messi giù?

 Infine qualcuno intervenne, come deus ex machina:

«Parliamone».

Parliamone? E finora che cosa avevano fatto?

*

Ora un intero villaggio si accalcava nella pianura, cui giungevano, per lo più a piedi, lunghe file di gente del popolo, attratta dalla stella che li aveva guidati. Stavano giungendo, anche più rare, carovane a cavallo e i pochi stranissimi cammelli. Le pastore preparavano l’accampamento per la notte, e capitava che sostasseso presso qualche bottega, insieme a qualche rara cortigiana, a ciechi che procedevano tastando il terreno col bastone, a vecchi barbuti dalla schiena piegata, a giovani fanciulle ridenti. 

La notte era fredda, molto fredda. Le figure si rannicchiavano, cercando un posto alla meglio riparato, aspettando l’alba. Qualcuno fra loro si chiedeva se questo viaggio avrebbe avuto un ritorno o se tutto, al suo termine presso la grotta con il Bambino, sarebbe stato compiuto. Ma come fra gli umani, ecco che i pensieri più alti, anche presso le piccole sculture di terra, venivano spostati un po’ più indietro e nei sogni avanzavano sguardi e sfioramenti, e amplessi senza parole…

*

I Maghi già scalpitavano nello scatolone: anche lì volevano saperla lunga! Fremevano in mezzo alle statuine degli araldi, dei palafrenieri, dei servi, dei musici, delle cortigiane e dei paggi. Erano costretti ad attendere in compagnia degli animali, delle bardature per i cavalli, dei finimenti di pregio, insieme con i cammelli drappeggiati come odalische con veli. 

Al fondo dello scatolone si affollavano in gran disordine i poveri, i diseredati, gli umili, i popolani in vesti cenciose.

Poldo si avvicinò a annusare per bene la scatola: facciata superiore e quattro lati vennero ispezionati con cura; quando, dopo qualche minuto, fece un tentativo indeciso d’alzare la zampa posteriore destra qualcuno gli mollò un ceffone sulla chiappa dall’altra parte. Colpa sua: aveva tergiversato troppo. Un po’ disorientato dalla manovra Poldo desistette; andò in cucina, dove il profumino di ragù prometteva sviluppi più interessanti.

Nei pressi dello scatolone lo sostituì Melania, più attratta del visitatore che l’aveva preceduta al fiocco che legava la scatola. Frastornata dal campanello che aveva appena suonato Melania andò a rifugiarsi sotto una poltrona, non tanto per timidezza, ma perché lei era un tipo riflessivo: le piaceva studiare le situazioni con calma. Naturalmente si riprometteva di tornare a analizzare  l’oggetto di cartone che, con lieve odore di muffa, spadroneggiava sul suo pavimento, dove abitualmente si rotolava e eseguiva una serie complicata di esercizi ginnici.

*

Nella notte sognavano la loro sistemazione coreografica definitiva (definitiva almeno per quell’anno). Erano pronti per ricevere l’impronta che qualcuno avrebbe loro dato: si sarebbero trovati inseriti in nuovi gruppi di persone, in famiglie diverse, per somiglianza o per contrasto? Ognuno di loro era pronto, come lo erano gli umani, a riconoscersi in quel presepe, o almeno a riconoscere alcune parti di sé.

Ciascuno pregava la notte:

«Eccomi, signora Notte, signora del Tempo, ci sono anch’io. Se con questa nuova nascita si avvierà un nuovo progetto di vita, ci sono anch’io. Anch’io faccio parte di un destino di cui  questo presepe è testimone; desidero che anche per me si dipani una nuova vita. Anche per me, feconda Notte, sarai crogiolo di nuovi germi di vita, nuove energie, nuova crescita. 

«Ecco, qui mi raccolgo: voglio meditare, voglio riflettere, voglio incubare. Ascolto il rumore del silenzio e le mie antenne vibrano».

E nella notte i pensieri e le preghiere delle statuine si sovrapponevano a quelle degli uomini.

*

Caterina stava sistemando il pittoresco mondo dei Magi, così come aveva preso forma nell’elaborazione fantasiosa dei secoli. Apprezzava tutta la coreografia regale che le statuette portavano con sé: il gran sfoggio di spade, lo scintillio delle scimitarre, il luccichio degli ori e degli argenti, il brillio dei vetri colorati, fatti a somiglianza delle pietre preziose. Aveva sempre preferito quella parte del presepe a quella dei semplici pastori. Le era sempre piaciuta la boria di quelle statuette, che si erano aggiunte nel tempo a quelle della collezione napoletana della sua avola Carlotta. Tutto ciò che agli artigiani doveva essere sembrato orientale vi era stato infilato, insieme con straordinarie vesti e copricapi. E quanto le piaceva il corteo di accompagnamento, annunciato dagli araldi, composto dai servitori, dai palafrenieri, dai soldati, cui seguivano, meno appropriatamente, ma con altrettanta coloritura, le odalische e le cortigiane. E gli animali? I più belli del presepe! Elefanti e cammelli, più modeste scimmie, e i pappagalli sgargianti dalle lucide piume… e poi la fanfara con le trombe, i cimbali e i corni. Che senso di potenza e di regalità! 

Sua sorella invece preferiva gli animali domestici, sistemava sempre lei le oche e gli agnelli!

*

Sullo stesso suolo di carta arruffata ora si trovavano assestate parti diverse; dove si affacciava ieri il muretto del pozzo profondo, oggi aveva trascinato la propria sedia il bottegaio, col suo armamentario di salumi e prosciutti, appesi in alto sul banchetto dove gli avventori si potevano affacciare. Quell’improvviso cambio di uso avrebbe potuto  confondere chiunque, scontornava e rendeva imprecisi i confini delle loro esistenze, inducendoli talvolta a una crisi, che rendeva difficile riconoscere il senso della loro vita. 

Che sono venuto a fare qui? si domandavano i vari pezzi. Qual è il senso di questa mia vita? Qualche ricordo si illuminava per brevi attimi come un flash, e poi… via, era già lontano. Solo loro rimanevano, con tante domande racchiuse nella mente e nel cuore.

Ma ad un certo punto, ecco… oro incenso e mirra… avanzavano i Magi portando i loro doni… la risposta era lì?

Diciamo sempre le tre  parole così, in questo ordine. Sempre tre, ancora tre…oro, incenso e mirra…

Era enorme la stella, quando la scorsero. Tanto l’avevano attesa, fiduciosi nella profezia.

Anche gli Astrologi l’avevano attesa. Eccoli, i Magi. Forgiati nella fucina inconscia di tutti i miti e di tutte le storie del mondo, eccoli; all’orizzonte si profilava la carovana e loro erano lì, provenienti dalle tre direzioni del mondo per vivere insieme la simbolica esperienza. Giungevano da luoghi mitici, forse dalle Tre Indie: Melchiorre, grondante oro,  dalla fertile terra di Arabia e di Nubia;Baldassarre dalla terra dell’incenso e delle spezie; Gasparre dal regno di mirra.

«Dove si trova il re dei Giudei appena nato?», chiesero.

Li precedeva la stella.

*

C’erano discorsi pubblici e discorsi segreti, fra di loro. In questo si sentivano tanto somiglianti a quegli umani che li avevano creati. C’erano desideri dichiarati e desideri muti, tenuti nel segreto di ciascuno. C’erano paure non dette che serpeggiavano, e ansie interminabili per le proprie vite e i propri destini. E sebbene ciascuno di loro conoscesse la caducità della propria esistenza, non potevano rinunciare né ai desideri né alle paure. Era come se la terra di cui erano fatti avesse impresso nel loro petto, insieme alla pesantezza della materia, questo aereo frullo d’ali, un anelito, un anelito… verso qualcosa di più alto, un’unità più estesa, più grande, vibrante d’amore. Non è che mancasse loro il filo del raziocinio, in grado di dare regole alla loro vita, non è che mancassero di prospettive realistiche, però… però…

Oro, incenso e mirra, riflettevano.

Alla natura mortale dell’uomo si addice la mirra; con la resina anche gli Egizi mummificavano i corpi e poi, dalla pianta della mirra veniva l’antidoto contro il morso dei serpenti. Ci voleva la mirra per proteggere dalla morte.

Allo spirito si addiceva l’incenso che, tra fumo e profumo, sapeva innalzare le preghiere verso il cielo. 

Al re si addiceva l’oro, perché la ricchezza spirituale non può che prepararsi con quella materiale.

«Abbiamo seguito la stella che è sorta. Siamo venuti per adorarlo», dissero i Magi. 

Non si sa di quale stella si trattasse, ma non era una stella qualunque. Era luce guida e messaggera di luce, capace di orientare e tracciare la via. Anche quella dell’anima…

*

Si stavano avvicinando alla meta. I più decisi fra loro guidavano la carovana, che si era allungata come una biscia dai molti colori, ma dove i terrigni toni della polvere prevalevano su ogni altro. Davanti camminavano coloro la cui fede era più forte, li seguivano quelli che dopo tanto camminare erano divenuti incerti; a una certa distanza si raggruppavano in appendice gli storpi. La carovana aveva viaggiato chiassosa, di tanto in tanto si era levato un canto che aveva accompagnato la marcia, nel tintinnare delle masserizie, che nel frattempo, consumandosi, erano diminuite. Si erano formati lunghi tratti di silenzio e ora il serpente era ammutolito e i respiri si erano sincronizzati; i movimenti si erano fatti più lenti. 

Abituati al regolare procedere nel deserto, quando scivolavano con i piedi sulla sabbia infuocata, alcuni fra loro, magri e scattanti, abituati alla fatica e al sacrificio del viaggio, avanzavano ora senza concedere soste, né a se stessi né alla biscia in movimento che si srotolava dietro di loro, non già perché non avessero bisogno di riposo, ma piuttosto perché non potevano permettersi comportamenti inconcludenti, che avrebbero portato a ritardare l’arrivo. Camminando, ora alcuni di loro lasciavano ciondolare fra le mani i bracieri, su cui stava bollendo l’acqua per la tisana che li avrebbe dissetati. L’avrebbero preparata e bevuta senza fermarsi.

Poi… ecco, in piedi si erano bloccati, di colpo, con gli occhi in alto, verso la stella. Ora la si poteva toccare con le mani.

La stella indicava una grotta, un buio riparo, e da lì sembrava provenire una nuova luce: luce dal buio. Il grande anelito alla luce che ciascuno di loro aveva provato, ecco, si realizzava. Si erano allineati in lunghe file serpentine per raggiungere quel luogo, avevano lunghissimamente camminato, avevano sostato solo nelle notti, accendendo focolari  domestici. Con piccoli fuochi avevano alimentato il grande fuoco del desiderio, attenti, vigili per quanto possibile a compiere gli sforzi necessari affinché rimanesse desto il lume delle loro coscienze. Volevano rinascere.

Con i fiati sospesi si avvicinarono. Sì, tutti, tutti volevano rinascere.

Nella grotta già stavano i Maghi: Melchiorre, vecchio canuto, porgeva inginocchiato la propria offerta di oro; Baldassarre, adulto virile di pelle scura, offriva incenso; il più giovane, Gasparre, adolescente ancora imberbe, donava la mirra.

Tutti, tutti, tutti volevano rinascere.

Pubblicato in Scrittura, Senza categoria | Commenti disabilitati su IL PRESEPE IN VIAGGIO (racconto di L. Gariglio pubblicato su “Parole in rete”, dicembre 2023)

LA COLPA ORA È DEL MASCHI0 (pubblicato su “Parole in rete”, dicembre 2023)

Forum, talk-show, fiaccolate, dichiarazioni politiche, conversazioni salottiere, lettere, annunci propagandistici, post, al fine di trasformare un singolo evento, violento in massima misura, ma pur sempre un singolo evento, in un evento-simbolo, in grado di  far esecrare e condannare l’intero genere umano maschile.

L’operazione mediatica è partita con immediatezza, quasi fosse già stata preparata, è stata condotta in modo efficientissimo, coinvolgendo ogni mainstream, il cui scopo di esistenza è per l’appunto quello di seguire pedissequamente le indicazioni padronali del pensiero unico, non ha mollato la presa per giorni e giorni a cominciare dal primo annuncio fornito dai media dell’allontanamento dei due ragazzi veneti dalle loro case. L’operazione mediatica si è gettata a capofitto sulla golosa occasione, rappresentata dal delitto morboso (su cui peraltro oggi si addensano molti dubbi, vista la dichiarazione della Polizia tedesca circa la mancanza totale di macchie di sangue sull’auto), e ha immerso tutti noi, volenti o nolenti, in un clima carico di delittuosità, assassinio, spargimento copioso di sangue, botte, ferite, accoltellate impietose, dove a predominare è solo il male assoluto. Momentaneamente in esaurimento la carica di paura indotta con le pandemie, con le guerre, e in Europa e in Medio Oriente, dove comunque abbondano le visioni di innocenti massacrati, era tempo di fornirci nuovo materiale in grado di far ammalare le nostre anime; assassinii efferati possono agevolmente distrarre dalle importanti e preoccupanti notizie economiche.

Certo,  lo sappiamo noi e anche loro che non si può tirare troppo la corda e dopo un certo numero di giorni è necessario che i media tornino a una qualche normalità, perché l’interesse del pubblico comincia comunque a scemare, ma intanto si è creata una base di azione negativa sull’inconscio collettivo, sul quale la cattiveria, il dolore, la sofferenza, il puro male si sono situati con la forza di un virus, e il risultato negli animi umani è la paura per l’incertezza e la pericolosità del futuro, la perdita di fiducia nell’avvenire e più in generale nel genere umano, la perdita di quel sentimento che anima le azioni dell’uomo e lo spinge a evolversi: la speranza.

Questa volta i sentimenti preoccupanti si sono volutamente addensati attorno al mondo maschile, e le azioni di attacco dei media e dei loro lacchè hanno infierito sul genere maschie, ma io preferire dire sull’archetipo del maschile.

Non nasce dal nulla, ma si fonda su una lunga crisi che ha investito la mascolinità, cui da tempo è stata strappata l’importanza del ruolo paterno, pensato all’interno di un sistema armonico di relazione fra i sessi.

Ho scritto sessi? Eh, già, parola desueta, ma io appartengo a un mondo antico, un mondo perduto. Oggi il concetto di  sessualità, e maschile e femminile, è roba dell’altro mondo, soppiantata, con successo, dal concetto di genere, anzi di generi plurali, che come sappiamo ormai felicemente pullulano.

Sì, ho scritto sessi. Per la precisione due, complementari fra loro, dove non necessariamente il maschile rappresenti il fondamento di un ordine, e dove non si guardi solo al  femminile come fondamento della dimensione privata e emotiva. Due sessi per capire le basi della psiche umana. Due sessi fra i quali uno, quello maschile, possa rappresentare virilità, potere, sicurezza, senza sopraffazione dell’altro.

È noto che la mascolinità sia in crisi, a causa del cedimento dell’autorità in seno alla famiglia e alla società, alla perdita di stabilità della vita e della sicurezza familiare e sociale che ha colpito sia uomini sia donne, ma in particolare ha minato i soggetti maschili, resi più vulnerabili a causa della crisi di ruolo che stanno vivendo nella società.

Oggi interessa soprattutto diffondere stereotipi, e fornire un’immagine del maschile come pura sopraffazione, violenza, disprezzo del femminile, abuso. Dopo secoli i cui le donne sono state trasformate in demoni, in streghe, adesso è tempo di creazione di mostri, di dilaganti figure maschili vissute come assassini e stupratori; si vuole ostinatamente offrire un’immagine del maschile malato.

Credo che finalità sia, in finale,  fratturare gravemente il sacro incontro archetipale tra Maschile e Femminile, che si riflette dalla dimensione umana a quella cosmica, e viceversa. L’Universo è governato da polarità opposte: la natura polare dell’esistenza è indagata in tutte le filosofie: Yin e Yang interagiscono nel Taoismo. Yang è razionale, verbale, attivo. Yin è compositivo, ricettivo, immaginativo. Mi pare che un insegnamento fondamentale della dottrina cabalistica sia quello dell’integrazione fra Maschile e Femminile. Nella mitologia induista l’Universo è creato dall’incontro fra maschile e femminile: Shiva e Shakti. Shakti è pura coscienza manifesta, è “colei che dà la vita”, è la Madre dell’Universo. L’incontro di Shiva e Shakti rappresenta nel genere umano il risveglio dell’anima. 

Gli emblemi del Maschile e del Femminile si completano l’un l’altro, le energie contrapposte si integrano, poiché il dualismo è insito in ogni cosa.

Che cosa accade quando un principio o l’altro viene negato?

Pubblicato in ARTICOLI, Parole, narrazioni, illusioni, paure, Senza categoria | Commenti disabilitati su LA COLPA ORA È DEL MASCHI0 (pubblicato su “Parole in rete”, dicembre 2023)

LE CITTÀ INVIVIBILI (pubblicato su “Parole in rete”, novembre 2023)

Calvino scriveva che le sue «città invisibili» nascevano come un sogno dalle città invivibili, eppure al suo Marco Polo, protagonista insieme all’imperatore Kublai Kan dell’opera, interessava «scoprire la ragioni segrete che hanno portato gli uomini a vivere nelle città», al di là della fragilità dei sistemi/città e delle loro crisi.

Che oggi nelle città (non solo nelle megalopoli), si viva male, è un dato incontestabile, sia che la vita si svolga proprio nel cuore della città, come nell’esteso suburbio. Lo spazio suburbano è il risultato di un processo quasi canceroso di colonizzazione urbana, di una presa degli spazi vitali che attorniano la città: una sorta di edificazione della campagna in progressiva decadenza, con la presenza, in alcune città, di baraccopoli in perpetuo disagio sociale.

A proposito della città calviniana di Cecilia, Polo riferisce che il Gran Kan lo rimprovera perché non gli parla mai dello spazio che si estende tra una città e l’altra, non gli dice «se lo coprano mari, campi di segale, foreste di larici, paludi». Allora Polo gli risponde con un racconto e gli narra dell’incontro con un capraio, un pastore in transumanza, che conosceva tutti i nomi dei pascoli ma non sapeva riconoscere le città. Polo ammette che per lui è l’esatto contrario. Passano molti anni e i due si incontrano nuovamente. Il capraio conduce poche capre spelacchiate, ridotte a pelle e ossa,  in luogo del suo gregge fiorente. Si trovano entrambi nella città di  Cecilia, e non sanno come ci sono arrivati, giacché provenivano da città lontane: in pratica la campagna fra le città distanti è sparita. Infatti il capraio conclude: «Qui una volta doveva esserci il Prato della Salvia Bassa. Le mie capre riconoscono le erbe dello spartitraffico».

Così, quando in Le città invisibili arrivi a Pentesilea «sono ore che avanzi e non ti è chiaro se sei già in mezzo alla città o se sei ancora fuori». Pentesilea «si spande per miglia intorno in una zuppa di città diluita nella pianura». In buona sostanza i margini della città non esistono, si susseguono i sobborghi, le aree dismesse, i cimiteri,  i mattatoi:  dove esattamente Pentesilea inizi e finisca non lo sa più nessuno e Pentesilea nella notte «è solo periferia di se stessa», una sorta di limbo continuo senza definizione di entrate o di uscite.

Qualche volta il degrado delle nostre città nel suo complesso è fortemente avvertibile: traffico scatenato e caotico, eccessiva velocità dei mezzi, inefficienze dei mezzi pubblici, mancanza di verde, mancanza di spazi pubblici, inquinamento, rumorosità, pericoli di ogni genere compresa la criminalità, rifiuti.

Nella Leonia di Calvino ogni mattina « sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica, i resti della Leonia di ieri aspettano il carro dello spazzaturaio». Infatti la ricchezza di questa città si misura dalle cose che ogni giorno vengono scaricate come spazzatura. «Dove portino ogni giorno il loro carico gli  spazzaturai nessuno se lo chiede». Certo è che «una fortezza di rimasugli indistruttibili circonda Leonia, la sovrasta da ogni lato come un acrocoro di montagne». Verso il pattume di Leonia tuttavia avanzano inesorabilmente gli immondezzai di altre città, che a loro volta  tentano di respingere lontano da sé le proprie montagne di rifiuti.

Non è un’immagine troppo lontana dalla nostra realtà.

Le promesse medievali sono ormai completamente negate (mi riferisco al motto medievale “la città rende liberi dopo un anno e un giorno”, motto che valeva per i servi della gleba fuggiti). Abbiamo superato in peggio le descrizioni di Musil attorno agli anni ’30 del Novecento:« la metropoli è costituita da irregolarità … da collisioni… da punti di silenzio abissali,  da rotaie e terre vergini, da un gran battito ritmico e dall’eterno disaccordo e sconvolgimento di tutti i ritmi».

Oggi si fa un gran parlare di sostenibilità della città. L’Agenda 2030 dell’ONU dichiara all’obiettivo 11 che occorre rendere le città e gli insediamenti umani sicuri, inclusivi, resilienti e sostenibili: in una frase almeno tre aggettivi che personalmente detesto, per l’abuso che se ne fa. Per attribuire agli insediamenti urbani le qualità indicate si dice, nel documento, che entro il 2030 dovranno essere realizzati: accesso ad alloggi adeguati per tutti; riqualificazione dei quartieri poveri; sistema di trasporti sicuro, in particolare quello pubblico; riduzione dell’impatto ambientale negativo, con attenzione ad aria e rifiuti; realizzazione degli spazi verdi.

Uhauuuh: detto, fatto.

O no?

Un po’ distratta dal nervosismo provocatomi dagli aggettivi usati non so dare risposte. Resiliente va bene per tutto, dovrebbe mettere d’accordo tutti, viene propinato in ogni occasione e offerto come tazzina di caffè: per il fatto che è usato a proposito e a sproposito ci si dimentica del suo valore reale, in cui qualcosa si mostra capace di autoripararsi. Sostenibile ha ormai preso il significato di compatibile con le risorse ambientali: ha la stessa funzione che ebbe nella seconda metà del ‘900 l’aspirina: buona per curare qualunque cosa (adesso démodé). Entrambi i due aggettivi precedenti vengono considerati molto fighi e sono spesso usati in modo intercambiabile con quella fluidità che oggi piace tanto.

Ma ci vogliono almeno altre due parole per completare il quadro degli stereotipi : circolare (riferito all’economia) e inclusivo.

Non si discute certamente l’opportunità di rallentare lo spreco di risorse naturali,  ridurre i rifiuti, contribuire a rigenerare i sistemi naturali; ma c’è da dire che l’economia circolare fa tanto bene soprattutto alle aziende (e ai loro profitti) quando puntano su riciclo e riuso. 

L’inclusività viene declinata in molte maniere, a seconda che ci si riferisca a obiettivi educativi, didattici oppure economici e sociali.  Se applichiamo il concetto alla città abbiamo l’obiettivo di risolvere i problemi di diseguaglianza, o di sovraffollamento, o di degrado: ci dovrebbe essere una certa equità sociale, e una simmetrica integrità dell’ambiente; dovrebbero funzionare in modo attivo delle politiche finalizzate alla diminuzione (non parliamo nemmeno di risoluzione) delle diseguaglianze sociali; ci vorrebbero investimenti per ridurre l’emarginazione e il degrado sociale. Nobili principi cui rispondono nobili obiettivi, senza la realizzazione dei quali non può esistere giustizia ambientale (se viene a mancare quella sociale). Che cosa fare come semplici cittadini? Certamente spingere per garantire l’abbattimento di barriere, in modo da includere tutti nel diritto agli spazi e ai contenuti, ma, in modo più diretto, lavorare  affinché gli incontri fra persone siano possibili, uguali nella sostanza, non nella forma: in questo senso la fragilità va senz’altro difesa, affinché l’unicità degli esseri umani possa trovare espressione.

Mancasse nelle nostre città qualunque forma di inclusione si  finirebbe come in Cloe, definita da Calvino grande città in cui le persone vivono senza conoscersi, in cui è impossible qualunque incontro, dove «nessuno saluta nessuno, gli sguardi si incrociano per un secondo e poi si sfuggono, cercano altri sguardi, non si fermano», così mai fra le persone in Cloe  corre una parola né ci si sfiora con un dito. La possibilità di comunicazione non è che sogno: è la città dell’esclusione per eccellenza, un’esclusione che riguarda tutti, senza differenze di alcun genere. Si potrebbe dire un’esclusione inclusiva.

Come sarà la città del futuro? Noi sappiamo che sono in corso alcuni progetti di 5-minute city o città di 15 minuti basati su un’idea non recentissima, del 2016, di un urbanista franco colombiano di nome Carlos Moreno, docente di urbanistica alla Sorbona di Parigi; questo concetto della città di 15 minuti è stata ripresa in seguito da Anne Hidalgo, sindaco di Parigi: è il modello di una città in cui tutti servizi  dovrebbero essere accessibili a chiunque la abiti in un tempo massimo di 15 minuti di distanza dalla propria abitazione, calcolati camminando a piedi oppure percorrendoli in bicicletta.

Fa parte di del più ampio progetto delle smart-city, le città intelligenti. Dove intelligenti significa massivamente digitalizzate. Si tratta di  digitalizzre mezzi di trasporto, automezzi e non solo: lo scopo ultimo è quello di realizzare, attraverso i mezzi,  il tracciamento delle persone. Il traffico nelle città del futuro sarà via via sempre maggiormente ristretto, limitato, scoraggiato.  Per ottenere questo risultato saranno ampliate le limitazioni già vigenti oggi; per esempio attraverso i parcheggi. Già adesso ci hanno abituati a usare parcheggi che considerano la targa del mezzo richiedente il servizio,  in modo da poter escludere le auto o gli altri mezzi che non rispondono alle caratteristiche richieste per  la viabilità di quella zona. Ma saranno previste naturalmente anche delle misure restrittive per l’attraversamento delle città:  sarà senz’altro più difficile il passaggio da una zona all’altra, da un quartiere all’altro. In questo senso esiste già la l’esperienza della città di Oxford in cui l’area urbana è stata divisa in sei zone o distretti  ed è stata data la possibilità ad ogni veicolo, posseduto dei residenti, di attuare un attraversamento di zone fino a un massimo di 100 passaggi, dopodiché vengono erogate delle sanzioni amministrative. Superato il limite massimo delle 100 possibilità necessariamente bisogna ricorrere ai mezzi pubblici oppure occorre attuare dei percorsi molto più complicati, con percorrenza molto più lunga. Inutile aggiungere che le auto sono controllate da telecamere. A Oxford ci sono già state moltissime proteste popolari nei confronti di questa sperimentazione che peraltro va avanti, e ciò nonostante Oxford sia praticamente una città università, dove è molto più facile attuare una sperimentazione di questo genere perché gli studenti sono per lo più abituati a circolare senza automobili personali  Inutile dire che  l’obiettivo ultimo è appunto lo scoraggiamento del possesso delle autovetture private e l’incentivazione di una mobilità apparentemente leggera, cioè a piedi o in bicicletta. Con i progetti 5 minute city la privatizzazione delle auto diminuirà sempre di più. In tutto questo ovviamente ci sono dei rischi, uno dei quali è e che si vadano a formare delle zone, diciamo così, particolarmente felici, contrapposte ad altre problematiche: sostanzialmente ci saranno delle zone centrali benestanti, ancora più separate di quanto non siano oggi dalle zone di periferia.

Naturalmente tutte queste iniziative sono propagandate in chiave green: virtuoso è chi le appoggia,  viziato chi  si oppone.

Ancora una volta un’idea di per sé positiva, quella di una città più umana, con servizi pubblici fondamentali, con soddisfacimento dei bisogni a pochi metri da casa, con aree verdi, parchi, riduzione dell’inquinamento, viene declinata in chiave dispotica.

In questi giorni abbiamo vissuto nel nord e centro Italia piogge, piene di fiumi e torrenti, corsi d’acqua sull’orlo del tracollo,  esondazioni, centinaia di case e famiglie senza acqua potabile e senza luce, scuole chiuse in alcune province, morti, feriti, dispersi, allagamenti di strade e edifici pubblici essenziali, come gli ospedali, sanità al tracollo nelle località colpite, chiusure di strade e autostrade: tutti segni di fallimento dello Stato. Ma la tutela del territorio non è obiettivo dell’Unione Europea presente nel PNRR. Infatti il primo obiettivo indicato nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza è la Digitalizzaione, Innovazione, CompetitivitàCultura. Il secondo: Rivoluzione Verde e Transizione Ecologica. Il terzo: Infrastrutture per una Mobilità Sostenibile. Il quarto:  Istruzione e ricerca. Il quinto: Inclusione e Coesione. Il sesto: Salute. I fiumi, vicini o lontani da abitazioni e città,  sono liberi di continuare a esondare, l’ha detto l’Europa, tanto per parafrase un intercalare ormai comune. 

Chiese a Marco Kublai: «Tu che esplori intorno e vedi i segni, saprai dirmi verso quali futuri ci spingono i venti propizi».

E Polo al gran Kan: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui…»

Pubblicato in ARTICOLI, Parole, narrazioni, illusioni, paure, Senza categoria | Commenti disabilitati su LE CITTÀ INVIVIBILI (pubblicato su “Parole in rete”, novembre 2023)

ANCHE GALILEO ERA IN MINORANZA (pubblicato su “Parole in rete”, ottobre 2023

Dopo la svolta dell’Equinozio dobbiamo davvero considerare l’estate finita  e tirare le somme delle esperienze vissute. E come hanno passato l’estate i nostri ragazzi? C’è chi ha trascorso piacevoli vacanze e riposo, chi ha avuto bisogno di recuperare a settembre qualche materia, tra i più virtuosi qualcuno ha contribuito a ripulire sponde dei fiumi, c’è chi ha fatto giardinaggio o agricoltura ecologici, chi ha dato una mano nella tutela della natura o nella gestione di aree protette. I più in gamba hanno dedicato il loro tempo a inventare, magari partecipando a concorsi, come Fionn Ferreira, di 22 anni, che ha ideato lo sviluppo di soluzioni liquide per eliminare le microplastiche dagli oceani; o come Felipa de Sousa Roche, ingegnera di 27 anni, che si è dedicata al miglioramento dell’apprendimento digitale, inventando blocchi con icone 3D per insegnare l’alfabetizzazione digitale; o come Richard Turere, inventore Masai di 22 anni,  che si è volto verso la protezione del bestiame senza mettere in pericolo la popolazione dei leoni, inventando un sistema che utilizza sequenze di luci per dissuadere leoni e altri predatori.

Ma non tutti abbiamo capacità di inventori, magari predomina in noi il lato artistico.

Come per Giorgia Vasaperna, italiana di 27 anni, attrice, la quale si è prodotta in una performance nel mese di luglio al Giffoni Film Festival, e ha recitato così bene da scatenare quel sentimento di empatia e quell’effetto di risonanza tale da indurre a commozione (quanto catartica?) del minIstro Gilberto Pichetto. Ben preparata ed efficace la giovane attrice ha eccelso nella parte di piagnona. Così, la notizia ha fatto il giro dei mainstream, assegnando una volta di più a noi italiani il ruolo degli inerti e passivi frignoni, ma evidenziando la talentuosa giovane nella sua particina di gretina (a Greta, non dimentichiamo come il professor  Zichichi avesse personalmente raccomandato di STUDIARE). Vincente nella sua piena adesione al pensiero unico vigente, l’attrice, sfoderando la sua arma retorica, ha dato il suo contributo all’élite, schierandosi con la narrazione della crisi climatica come peggior minaccia per la nostra specie e mostrandone senza vergogna gli effetti su di sé.

Il riferimento a Greta Thunberg non è casuale: la narrazione dei problemi climatici fatta dalla giovane svedese, imbeccata e diretta dall’alto, fa parte integrante di quel quadro di pensiero unico dominante che vorrebbe mettere definitivamente a tacere le voci fuori dal coro. Malgrado la pappetta che  i mainstream ci propongono  mescoli tanti fattori diversi fra loro, quel tipo di narrazione pare avere un certo successo, se basta dichiararsi eco-ansiosi per balzare alla ribalta. Che cosa dunque comprende la pappetta che ci servono abitualmente? L’abilità, come per gli esperti gastronomi, è mescolare con arte gli ingredienti, in modo che il pubblico non vada troppo per il sottile, pretendendo di vederci chiaro fra riscaldamento climatico, paure di catastrofi ecologiche (ansie indotte con efficacia), problemi dell’inquinamento, emissioni di Co2, alternative energetiche,  fonti rinnovabili… e via, mescolare bene fino a ottenere un morbido impasto (con tante menzogne).

I professori Carlo Rubbia (Premio Nobel per la fisica) e Antonino Zichichi sostengono che il clima della Terra è sempre cambiato: citano le glaciazioni, e le diverse variazioni climatiche nel tempo, si porta l’esempio del clima alpino molto diverso nel passato (le temperature erano così elevate da permettere ad Annibale di passare con gli elefanti)). Secondo gli scienziati citati attribuire alla responsabilità umana il surriscaldamento globale è privo di fondamento. Secondo Zichichi il cambiamento climatico dipende dall’attività umana solo per il 5% ed è differente dall’inquinamento (mentre la narrazione “ufficiale” vuole mescolarne gli elementi in modo da confondere con la confusione delle componenti anche la nostra comprensione, n.d.a.); secondo il fisico si può agire sull’inquinamento, ma non sull’attività climatica della Terra, che non ha origine antropica: il riscaldamento dipende, in sintesi, dall’attività del Sole. 

Di analogo parere è anche Franco Prodi, uno fra i più importanti studiosi di fisica dell’atmosfera, il quale sostiene che «il cambiamento climatico non può non esserci perché dipende dal Sole, dall’astronomia, dall’effetto gravitazionale degli altri pianeti, dai componenti dell’atmosfera che possono essere naturali o indotti dall’uomo, insomma il sistema clima è assai complesso).

Sono molti gli scienziati, oltre a quelli citati, i quali ritengono che la realtà non risponda a quel panorama che il mondo politico e finanziario vogliono propinarci: l’impatto umano sul cambiamento climatico è solo un’ipotesi. Il climatologo Franco Prodi asserisce che vi siano gravi errori negli odierni studi sul clima: «viene privilegiata la pseudoscienza pilotata dalla politica e dalla finanza mondiali», afferma «nel caso del riscaldamento globale . Non si manifestano ancora compiutamente delle gravi conseguenze di fondo dell’umanità, tuttavia già operanti nell’abbandono immediato di punti di forza economici, con conseguente dilagare della povertà, nella perdita della democrazia a favore dell’attuale operante dittatura». Gli scienziati non-allineati ribadiscono dunque che il cambiamento climatico dipende dal Sole, dall’astronomia, dai cambiamenti dell’atmosfera». Sono bastate le loro dichiarazioni perché sparissero da qualunque programma televisivo e divenissero così, all’improvviso, scienziati poco raccomandabili, degni di ostentato disprezzo: una piccola minoranza indegna di nota.

Se la narrazione ufficiale, tuttavia, è tutta allineata con il catastrofismo, in modo tale da richiedere continui sacrifici alla specie umana, tale  da indurre sensi di colpa, da pretendere espiazioni umane , non risulta essere un’assurdità provare eco-ansie, non solo per. giovani facilmente suggestionabili e fragili attivisti green, vista la propaganda delle istituzioni e del mondo delle informazione.

Se non proviamo simpatia per chi prova le eco-ansie è solo perché pensiamo che certe recite siamo ben sostenute e sponsorizzate.

Non vorrei che si pensasse che io non dia la giusta importanza ai processi ecologici e alla questione ambientale: al contrario, è proprio perché la mia attenzione è massima che dissento dallo  sbandieramento della falsa ecologia e dei falsi ecologismi. Non stupisce che coloro i quali hanno finora dominato il mondo attuando politiche favorevoli soltanto all’espansione delle loro ricchezze si siano all’improvviso e precipitosamente votati alla causa ecologista e alle politiche di transizione green?

La nostra società è profondamente disarmonica, l’ambiente in cui viviamo è nella sostanza disequilibrato, e spesso violento, fondato com’è sullo sfruttamento delle risorse della Terra, compresi gli animali e l’umanità, basato sulla negazione della cooperazione, sullo sfruttamento delle risorse, sulla disuguaglianza a scapito dei più deboli.

In che cosa consiste dunque la ricerca di una migliore condizione “ecologica” se a monte la struttura stessa della società impedisce di raggiungere obiettivi fondamentali? Che cosa significa ricercare la “sostenibilità”in condizioni simili, di disarmonia con la natura, con il mondo vegetale e animale, dove aria, acque dei mari e dei fiumi, aria e cibo sono inquinati e lo stress della vita è continuo? Se manca una “vera” ecologia  non vi può essere salute, né fisica né spirituale.

Ma la falsa ecologia viene sbandierata a destra e a manca, e viene strategicamente adoperata per mantenere il controllo sociale. E pertanto, via i motori a scoppio, da sostituirsi nel più breve tempo possibile dagli ecologicissimi  (!!!) motori elettrici. Avanti con le soluzioni che diminuiscono la qualità della vita.  Avanti con la moneta digitale. Avanti con le “città dei 15 minuti”, che apparentemente mirano a ridisegnare l’organizzazione delle città fornendo servizi essenziali in ogni quartiere (facilmente raggiungibili a piedi o in bici), ma in realtà progetti che chiuderanno il traffico ai mezzi non rispondenti agli standard imposti (ecologici, s’intende!)  E di fatto serviranno a ghettizzare la popolazione nelle rispettive porzioni di quartiere o di borgo. La piena realizzazione delle “città dei 15 minuti”prevederà infatti un permesso per uscire dal proprio ghetto in auto, quindi, sostanzialmente per incrementare il controllo sociale.

Naturalmente nella falsa ideologia ambientalista anche questi progetti serviranno a risolvere il problema dell’inquinamento. Peccato che che sia affrontato solo a parole, in modo che non vada mai ad intaccare il sistema capitalistico, che è sostanzialmente incompatibile con l’ecologia: deforestazione, distruzione di eco-sistemi, degradazione dei suoli, dei mari, delle acque, tortura degli animali prima della loro uccisione, sfruttamento umano non sono mai affrontati nella sostanza.

Più facile, vero, prospettare lo psicologismo delle eco-ansie?

Pubblicato in ARTICOLI, Senza categoria, Tra malattie reali virtuali letterarie. Tra manipolazione e necessità della natura | Commenti disabilitati su ANCHE GALILEO ERA IN MINORANZA (pubblicato su “Parole in rete”, ottobre 2023

FIABE DELL’ANIMA (pubblicato su “Parole in rete”, settembre 2023)

Già nell’edizione del 2012 nel film Biancaneve (Mirror mirror) ,diretto da Tarsem Singh, la protagonista, che ha pur sempre suscitato l’invidia della regina cattiva, trova rifugio presso i sette nani ma, diversamente dalla fiaba tradizionale, sarà lei a risvegliare il principe con un bacio, salvandolo  da un incantesimo, e rifiuterà la mela avvelenata propostale dalla strega.

Into the woods della Disney incassò 42 milioni al suo lancio: nel film Cenerentola e il suo principe divorziano, dopo che lei lo ha preso a calci.

Ho portato due esempi perché furono le prime sperimentazioni di destrutturazione delle fiabe, continuate poi con MaleficientBiancaneve e il cacciatore e molti altri film prodotti in seguito da Hollywood. Poi giunsero le idiozie di scuole statunitensi e spagnole che eliminarono dalle loro biblioteche centinaia di titoli di libri di fiabe, accusati di perpetuare stereotipi sessisti e suggerire stereotipi di genere.

Già Bruno  Bettelheim nel volume Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe si chiedeva perché molti genitori, per quanto attenti e intelligenti, privassero i loro figli della fruizione delle fiabe tradizionali: una vera e propria messa al bando. E alla domanda che si poneva rispondeva che l’attacco alle fiabe dipendeva dal desiderio di omologazione, che  comprendeva la penalizzazione delle facoltà di immaginazione, derivante dal grande mare di simboli e di stereotipi appartenenti all’inconscio collettivo. Frustrare e soffocare l’immersione nei processi psichici dell’inconscio collettivo equivale a porre una barriere fra l’Io e l’inconscio, fra l’individuo e le radici culturali essenziali dell’umanità. Nel generale panorama di iconoclastia della civiltà occidentale in totale crisi di identità, dei suoi valori storici e culturali, dei suoi simboli, la perdita delle fiabe rappresenta un passaggio di non poco valore.

Insieme alle opere letterarie fondamentali, già purgate da censura, insieme alle opere d’arte censurate perché ritenute inappropriate (perché sessiste, o discriminatorie di razze e generi…), ora il fanatismo censorio si è allargato alle fiabe. La revisione della storia, dei valori, delle norme comportamentali dell’Occidente nel suo complesso ha come obiettivo il disgregarsi della politica, dell’economia, della società, al fine di creare un mondo di persone polverizzate, omogeneizzate e impastate  nell’impasto della massa: l’annullamento di valori etici e culturali è d’obbligo e deve passare necessariamente anche attraverso l’addomesticamento di strumenti apparentemente molto semplici, come può sembrare quello delle fiabe. 

Le fiabe  interpretano in forma metaforica e allegorica e sostanzialmente simbolica il viaggio dell’anima e l’evoluzione della coscienza: da una mancanza o perdita  iniziale la fiaba porta l’eroe, vale a dire ciascuno di noi, ad affrontare prove, difficoltà, sfide, ostacolatori o nemici, per far sì che esso giunga, con l’aiuto magico che non viene mai, ma proprio mai a mancare (aiuto del cielo, o provvidenziale o sincronico, o divino, secondo la definizione che più ci piace) fino alla soglia della sua “casa” dove è destinato a “tornare”, dopo che la sua anima e il suo livello di coscienza si sono arricchiti di nuova sapienza. Si tratta in sostanza sempre di una storia di evoluzione; nella fiaba l’ascoltatore ( o lettore) non è mai passivo, e attraverso la percezione del simbolo è stimolato a farsi attore del proprio percorso: è il simbolo a consentire  e favorire nel percorso iniziatico dell’anima i passaggi fra i vari livelli di coscienza. 

Le fiabe, diceva Calvino «sono il catalogo dei destini che possono darsi ad un uomo e a una donna, soprattutto per la parte di vita che è appunto il farsi un destino: la giovinezza, dalla nascita che sovente porta in sé un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano».A confermarsi come essere umano le fiabe aiutano, sia consentendo l’esplorazione del mondo interiore, sia raccontando un livello puramente animico della realtà; compiono la loro funzione magica fornendo simboli per alimentare la crescita della nostra coscienza. Come in un testo sacro la nostra consapevolezza nella fiaba si specchia.

Ecco perché destrutturare malamente le fiabe giocando pericolosamente coi suoi simboli e gingillandosi in interpretazioni reali (o, peggio, controiniziatiche) produce pericolosi risultati.

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AUDIO ARTICOLO “VELOCI, SEMPRE PIÙ VELOCI” (pubblicato su “Parole in rete”, agosto 2023)

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VELOCI, SEMPRE PIÙ VELOCI (pubblicato su “Parole in rete”, agosto 2023)

Sono tornata spesso ultimamente a parlare o a scrivere dell’accelerazione del tempo, facendo dell’argomento anche oggetto di una conferenza: è una sensazione condivisa da molti come faticosa, una condizione estranea alla propria volontà, inspiegabile, invadente eppure, nonostante la volontà individuale delle persone, inoppugnabile. Mettiamo pure che per appartenenza generazionale io possa essere catalogata fra i viventi classificabili come antichi, se non fossili, ma basta questo a liquidare lo stato di accelerazione percepito? L’accelerazione pervade il tempo delle nostre vite, che sembra non bastare mai, occupa le nostre giornate che si affollano di impegni, doveri, scadenze, appuntamenti improrogabili, che invano abbiamo tentato di scansare e invece, non sappiamo perché, sono riusciti a occupare le nostre giornate, sottraendoci a forme di riflessione, di meditazione, di pensieri scelti da noi invece che da pensieri che ci hanno scelti nostro malgrado. Perché? Perché anche quando apparentemente potremmo staccarci dal contingente, dall’inutile, dal pratico accade questo? Perché ci risulta così difficile portarci da un piano puramente materiale a uno più spirituale, come vorremmo?

Così, quasi a mo’ di consolazione sono tornata agli amati Veda e alla teoria degli Yuga, età vissute dall’umanità – nella forma che conosciamo – attraverso molte migliaia di anni e che vede realizzarsi nell’epoca attuale l’ultima parte dell’ultimo Yuga (il Kali Yuga) del processo che procede dalla perfezione del principio unitario al massimo grado di degradamento finale (per poi dare luogo a un nuovo inizio di un ciclo cosmico). La dottrina indù ci insegna infatti che la durata di un ciclo dell’umanità sulla terra (cui si dà il nome di manvantara) si divide in quattro età, succedenti non già in condizione evolutiva, ma involutiva, in oscuramento progressivo sempre più grave rispetto alla condizione primordiale. Nella cultura occidentale ne narrava anche Ovidio, in modo del tutto analogo, in termini di età: età dell’Oro, dell’Argento, del Bronzo, e infine la nostra, l’età del Ferro.

Non riporto le datazioni che usufruiscono in parte di alcune differenziazioni (sia nella cultura vedica sia in quella occidentale), cui si sono aggiunte proposte di datazioni eseguite più recentemente (per esempio quelle del maestro di Paramahansa Yogananda, Yury Yuktesvar), però desidero soffermarmi invece su quanto dice René Guènon. La lettura/rilettura di Guénon è in certo senso provvidenziale: è in qualche modo consolatorio rileggere le parole del grande filosofo e ricercatore che già nel ‘900 preconizzava una condizione di rotolamento della velocità della vita, quale noi oggi proviamo giorno dopo giorno.

Secondo l’Autore le quattro ere cosmiche o Yuga non sarebbero di pari durata nel tempo, ma la prima prenderebbe quattro parti del tempo totale, la seconda tre parti del tempo totale, la terza due parti, l’ultima, la quarta, prenderebbe solo una parte (4/ 3/ 2/ 1 = 10).  E qui, quanto scrive Guénon mi è d’aiuto per comprendere appieno quella soffocante sensazione di accelerazione di cui parlavo poco fa: «È proprio per questa ragione che attualmente gli avvenimenti si svolgono ad una velocità che non trova riscontro nelle epoche anteriori, velocità che va aumentando senza posa e continuerà ad aumentare fino alla fine del ciclo; si tratta di una specie di progressiva contrazione della durata…». 

Dunque,  se seguiamo il pensiero dell’autore, è per questa ragione che la velocità degli avvenimenti va aumentando a mano a mano che ci approssimiamo alla fine dello yuga; scrive: «…può essere paragonato all’accelerazione cui sono soggetti i corpi pesanti nel loro movimento di caduta: il cammino dell’umanità attuale assomiglia in realtà al percorso di un corpo in movimento lanciato in una discesa,  e che accelera sempre più quanto più si avvicina al basso».

Nel pensiero di Guénon trovo riflesse le mie personali sgradevoli sensazioni, non solo quelle sulla accelerazione del tempo, dell’assurda velocità degli accadimenti (cui si aggiunge peraltro la sensazione esponenziale dell’aumento di entrambe quando si seguano le amplificazioni prodotte dai media), ma anche  quella della materialità delle nostre esistenze e il senso di degrado che le forme istituzionali in cui ci troviamo inseriti esprimono, compreso il degrado della politica, 

Fin dalla Introduzione a Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi (Adelphi Editore) l’autore  afferma che pur rappresentando il mondo moderno una sorta di anomalia, una specie di “mostruosità” (agli occhi dello studioso) in realtà corrisponderebbe esattamente alle condizioni del periodo estremo del Kali Yuga (quello in cui ci troviamo): è il punto più basso, dove prevale l’aspetto quantitativo su quello qualitativo. Nel pensiero di Guénon, infatti, gli aspetti quantitativi e gli aspetti materiali dell’esistenza si rafforzano esprimendo entrambi caratteristiche negative. Dichiara Guénon: «Poiché lo svolgimento discendente della manifestazione si effettua dal polo positivo, o essenziale, dell’esistenza verso uno negativo, o sostanziale, il processo stesso acquisisce un aspetto via via sempre meno qualitativo e sempre più quantitativo: l’ultima fase si caratterizza, appunto, come epoca o regno della quantità. Ne consegue che tutte le cose devono prendere un aspetto sempre meno qualitativo e sempre più quantitativo».  Già nella sua opera  La crisi del mondo moderno (pubblicata in Italia da Enigma Edizioni nel 2021), avvertiva dell’allontanamento sempre più drastico dal “principio” da cui il mondo ha avuto inizio e da come sia caratterizzato da una progressiva materializzazione.

Una fase di grande successo del processo di materializzazione è stato rappresentato dall’epoca industriale, che ha visto l’apice nel XX secolo: un vero trionfo della quantità sulla qualità, sia nelle fasi e nelle modalità dei procedimenti produttivi, sia nel predominio della presenza di macchine, protagoniste del lavoro, mentre gli uomini sono stati ridotti ad azioni meccaniche, sia nell’aspetto complessivo della produzione di cose assoggetta al principio della quantità (produzione in serie). Abbiamo assistito alla retrocessione dell’importanza dei mestieri, delle arti; a dirla tutta abbiamo visto l’arte relegata ad una condizione sminuita,  penalizzata in un ambito chiuso dell’attività umana, fino a diventare una specie di sorella un po’ speciale (non in senso positivo) delle attività utili e pratiche, fino a staccarsi dal mondo cosiddetto “reale”.

Oggi vediamo attuarsi un fenomeno che potrebbe apparire come una sorta di controtendenza al processo di materializzazione. Siamo in piena fase di de-industrializzazione, fortemente collegata con i problemi di perdita di posti di lavoro, con l’allontanamento del mondo produttivo (che si contrae o nel migliore dei casi si delocalizza in altri continenti), si  percepisce una specie rottura di specchio in piccoli tasselli, di frazionamento indefinito, una vera e propria disgregazione delle attività umane in ogni campo. In realtà, sempre seguendo il pensiero del nostro autore, quella presente non è che l’ultima fase del processo della materializzazione, quello che avvia alla disgregazione, quello della tendenza a dividere ogni cosa frazionandola: la divisione porta a conflitti di ogni genere (che sfociano anche in guerre armate) fra i popoli come fra gli individui. È ancora Guènon a fornircene le ragioni: «Più ci si sprofonda nella materia, più i fattori di opposizione e di divisione si accentuano e si estendono». 

E d’altra parte ciascuno di noi ben conosce la sensazione di instabilità, di provvisorietà riferita ad ogni campo, della frammentarietà: tutto domani potrebbe essere, nessun posto è riservato all’immutabile, al permanente. E siamo sopraffatti dalla sensazione della diffusione dell’ignoranza e dal senso di oscurità che ci accompagna: si tratta di quella tendenza al basso, al materiale, che la dottrina indù definisce tamas. Importanti sono solo gli aspetti materiali, ciò che cade sotto i sensi: beni materiali, forza muscolare, fisicità  e prestanza, soddisfacimento di bisogni – artificiali e indotti – ma sempre di cose, di denaro, di oggetti definenti uno status; tutto il resto pare essere inesistente, eppure la rinuncia a ogni forma di spiritualità non sempre rende più felici gli umani costretti a immergersi nello spessore della materia in modo veloce, veloce, sempre più veloce.

La velocità sempre crescente dello svolgimento degli avvenimenti si accompagna ad una «agitazione incessante» (sono ancora parole di Guénon), al bisogno di un mutamento continuo. Afferma: «È la dispersione nel molteplice non più unificato dalla coscienza di un qualche superiore principio».

L’immediato pensiero va alle scienze, dove assistiamo a una successione sempre più rapida di teorie, di ipotesi, che sono destinate a essere superate nel giro di breve tempo, soppiantate da altre, altrettanto fugaci. Secondo Guénon le «scienze profane» partecipano pienamente alla rapida discesa verso il basso, «residui degenerati di antiche scienze tradizionali», che si sforzano di condurre tutta la conoscenza a un piano puramente quantitativo, basandosi esclusivamente su forze materiali. Aggiungerei che allo spirito materialistico si accompagna il tratto dell’individualismo, della “falsa unità” dell’individuo, concepito come completo in se stesso.

Tornando a noi oggi, se osserviamo il mondo attorno a noi, ci accorgiamo di come imperi l’individualismo, che crea separatezza fra gli esseri umani, dimentichi di appartenere alla stessa specie. Divisi gli uni dagli altri gli uomini fanno di se stessi delle (apparenti) unità, simili ad atomi.

Mi pare davvero di percepire attorno a noi un lavoro contro l’umanità, un tentativo di condurre l’umanità, attraverso la molteplicità, a una conseguente uniformità, con la soppressione delle distinzioni qualitative. È il processo di massificazione che molti scambiano per unificazione mentre si tratta di uniformizzazione, in cui si accentua via via sempre di più la separatività fra “unità” frammentarie, vale a dire i singoli rappresentanti dell’umanità: l’uniformità della massa si ottiene infatti sopprimendo ogni distinzione qualitativa. Ecco perché il fine ideale delle élite di potere è quello di realizzare la maggior uniformità possibile – quasi delle unità numeriche, spogliando l’umanità, intesa come specie, delle qualità superiori sue proprie, riducendo i singoli individui a qualcosa di sempre più simile a una macchina.

Potrebbe sembrare una contraddizione quanto osserviamo nella nostra contemporaneità, in opposizione solo apparente con il processo di “materializzazione”, vale a dire la caratteristica della “liquidità”, o della polverizzazione di ogni parametro nella dispersione della molteplicità, dove l’unica cosa permanente è l’incertezza. A tale proposito ci avverte Guénon: «Nella riduzione graduale di tutte le cose alla quantità vi è un punto a partire dal quale tale riduzione non tende più alla “solidificazione”, ma vi sarebbe un punto in cui i corpi non potrebbero più sussistere come tali e si riducono in una specie di “pulviscolo atomico” privo di consistenza… si potrebbe perciò parlare di una vera e propria “polverizzazione del mondo”». E ancora: «La seconda parte (del processo) tenderà alla dissoluzione».

Intanto nelle nostre  condizioni di vita, nella tendenza allo sgretolamento, imperano incertezza e impermanenza, e l’effimero trionfa sul duraturo, nell’individualismo spinto al massimo grado il singolo finisce con lo scomparire nella massa, nella poltiglia alimentata dalle politiche di omologazione e atomizzazione sociale, nella moltitudine indifferenziata, dove vi è appiattimento intellettuale verso il basso: un amalgama, un impasto indifferenziato di individui (come vuole l’etimologia della parola massa che significa proprio  impasto).

E per creare un impasto gli individui non devono e non possono riconoscersi in una cultura comune, in una nazione, in una religione, in una ideologia… nemmeno in un sesso… e quanto più saranno frammentati in una serie di “generi” tanto più saranno impastabili in una poltiglia, che toglierà loro via via sempre più la possibilità di riconoscersi come umanità.

Pubblicato in ARTICOLI, Parole, narrazioni, illusioni, paure, Senza categoria | Commenti disabilitati su VELOCI, SEMPRE PIÙ VELOCI (pubblicato su “Parole in rete”, agosto 2023)

L’UOMO, ALGORITMO OBSOLETO (pubblicato su “Parole in rete”, luglio 2023)

Molti di noi in anni recenti hanno provato, insieme a me, sentimenti contrastanti verso un autore, Yuval  Noah Harari, che ha delineato nei suoi libri dai sottotitoli omonimi, dapprima una Breve storia dell’umanità (Sapiens. Da animali a dei), poi una Breve storia del futuro (Homo deus). Nel primo libro, pubblicato in Italia nel 2014, parla di noi, rappresentanti dell’Homo sapiens, divenuti signori del pianeta. Ci propone la sua teoria secondo la quale l’Homo Sapiens è giunto a conquistare una simile condizione di privilegio: circa 70.000 anni fa l’Homo sapiens avrebbe saputo operare un salto di qualità mentale e intellettuale, una vera e propria «rivoluzione cognitiva», caratterizzata da un diverso modo di pensare e comunicare, forse dovuta ad accidentali mutazioni genetiche in grado di modificare le connessioni neuronali del cervello, che ha ampliato le capacità linguistiche della specie, rendendola straordinariamente duttile, fino a fare del linguaggio uno strumento idoneo alla comunicazione sociale (chiave fondamentale  per la sopravvivenza e la riproduzione), consentendo così lo sviluppo di sofisticati modi di cooperare. Ma, dice Harari, la capacità davvero unica del nostro linguaggio è «la capacità di trasmettere informazioni su cose che non esistono affatto». «Solo Homo sapiens», scrive, «può parlare di cose che non esistono veramente e mettersi in testa storie impossibili appena sveglio. Non riuscirete mai a convincere una scimmietta a darvi un banana promettendole che nel paradiso delle scimmiette, dopo morta, avrà tutte le banane che vorrà». L’uomo, invece, lo fa. Questa abilità, insieme a quella dell’immaginazione, hanno permesso il salto di qualità. Ciò ha permesso all’Homo sapiens di vivere una realtà duale: da una parte la realtà oggettiva di «fiumi, alberi, leoni, dall’altra la realtà immaginata di dei, nazioni, società per azioni». In conclusione sembrerebbe che la rivoluzione cognitiva abbia permesso ai Sapiens di affrancarsi in parte dalle dipendenze della biologia.

«Noi siamo una delle ultime generazioni di Homo Sapiens. Entro un secolo o due la terra sarà dominata da entità che saranno diverse da noi quanto noi lo siamo dagli scimpanzé»: parole pronunciate da Yuval Noah Harari a Davos. Secondo la storico nelle prossime generazioni impareremo a progettare corpi e  cervelli: «questo sarà il prodotto principale dell’economia».

Nella visione dello storico (Harari nasce come storico del Medioevo) una élite costituirà il gruppo dominante del pianeta, diciamo meglio: saranno i padroni del pianeta. 

Chi saranno dunque i futuri padroni del pianeta? Saranno coloro che, possedendo la conoscenza dei dati, saranno dominatori della scena di vita dell’uomo e della vita stessa. 

Per dati si intendono soprattutto i dati biometrici, vale a dire quelli che riguardano ciò che avviene nel corpo e nel cervello umano, uniti a una grande capacità di calcolo. La capacità di calcolo è ottenuta oggi dai progressi dell’informatica e sarà ottenuta via via sempre più dal miglioramento della cosiddetta “intelligenza artificiale”.

Se la conoscenza dei dati si concentrerà nelle mani di pochi, non avremo una società divisa in classi: si prefigura una scenario non dissimile da quello che vediamo realizzarsi giorno per giorno, che si compirà ai massimi livelli, dove il potere sarà tutto concentrato in poche mani (non generose) affiancate da una moltitudine di poverissimi.

L’importanza della conoscenza dei dati sottende la capacità di hakerare son solo i computer ma – precisa l’israeliano Harari – anche gli esseri umani e altri organismi. In questa visione gli organismi vengono considerati algoritmi biochimici: tutti gli organismi, compreso quello umano, che sarà così compiutamente conosciuto tanto da poterlo controllare e “ricreare” a piacimento. Le nuove “scienze” daranno la possibilità di decifrare e controllare gli algoritmi biologici, dunque di hakerarli.

La complessità dell’uomo sarà conosciuta, analizzata, “smontata” e “rimontata” sia a livello del singolo individuo, sia nell’aspetto dell’umanità nella sua complessità: e qui anche Harari è d’accordo con noi quando afferma che sarà il momento dell’ascesa della dittatura digitale (lui stesso così la definisce) e della riprogettazione della vita stessa da parte della élite.

Fin qui il quadro della situazione futura non si differenzia sostanzialmente da quello proposto dalle organizzazioni dedite a delineare progetti di Transumanesimo, ma, pur accennando a eventuali evidenti pericoli da cui ci mette in guardia, si spinge poi a parlare di una «evoluzione intelligente della vita», non già progettata dalla vita stessa, ma dalle élite che si prefigurano, e non manca di attendersi risultati possibilmente positivi. «Dopo quattro miliardi di anni di evoluzione della vita organica», dice, «stiamo entrando nel tempo dell’evoluzione della vita inorganica, dominata da un disegno “intelligente” preordinato e controllato da élite».

All’inizio del XXI secolo sta avvenendo qualcosa di veramente nuovo e Homo sapiens sta valicando i propri limiti: da sempre l’evoluzione umana ha avuto luogo in base a leggi di selezione naturale, ora queste leggi stanno per essere sostituite da quelle di un nuovo disegno che i partigiani della Silicon Valley e del Transumanesimo, tra cui Harari,  definiscono un «nuovo disegno intelligente», che si realizzerà, come abbiamo compreso, attraverso gli strumenti della biotecnologia, dell’ingegneria biomedica, dell’ingegnerizzazione degli esseri non organici. 

Da ciò che vediamo accadere attorno a noi non si tratta (solo) di sperimentazioni sugli animali, né di modificazioni di specie indesiderate, o di modificazioni di alimenti, del loro gusto, o del loro contenuto genetico, e nemmeno di resuscitare specie estinte. Si tratta invece della progettazione (e si teme della realizzazione a breve), di modificazioni sostanziali nella fisiologia umana, nel nostro sistema immunitario e nelle capacità intellettive e emotive dell’uomo, di impiantare con nuove forme di ingegneria biomedica parti organiche dell’uomo con parti inorganiche, combinate in modi inseparabili nei nostri corpi, fino a ottenere con metodi di ingegnerizzazione esseri  umani strettamente combinati con parti inorganiche, o esseri inorganici con simulacri di vita e di intelligenza, per esempio ottenendo un vero cervello dentro a un computer.

I dubbi che Harari poneva al termine del suo primo libro  sul processo in corso a causa dell’irresponsabilità umana  sono nel frattempo scoloriti, svaniti sull’onda del megagalattico successo delle sue opere (che l’hanno reso una celebrità plurimiliardaria) e sull’onda del feedback che tumultuosamente lo invade ad ogni conferenza di fronte a centinaia e centinaia di persone, nelle sedi importanti dei potenti della terra, nel rispetto totale delle richieste delle élite.  

L’ammirazione per l’ accattivante, fluida e nello stesso semplice scrittura  di questo autore ha lasciato il posto dapprima a un catulliano odio et amo, per divenire rifiuto nei confronti di questa punta di diamante del globalismo integrale.

Pubblicato in ARTICOLI, Parole, narrazioni, illusioni, paure, Senza categoria | Commenti disabilitati su L’UOMO, ALGORITMO OBSOLETO (pubblicato su “Parole in rete”, luglio 2023)

SOLO GRILLI PER LA TESTA! (PARTE II). UN GRILLO FAMOSO (pubblicato su “Parole in rete”, maggio 2023)

UN GRILLO FAMOSO.

No, non è quello che pensate voi.

E neppure quest’altro:

«C’era un grillo in un campo di lino / la formicuzza ne chiese un pochettino, / larinciunfalaralillallero  larinciunfalaralillellà….»

La nostalgia non ci viene da filastrocche antiche quanto la nostra infanzia, ci viene per  un altro grillo famoso e per il suo autore.

È opinione comune che nella storia di Collodi, Pinocchio, il Grillo Parlante rappresenti la voce della coscienza: non ho mai pensato così, ho sempre avuto un’opinione diversa.

A mio parere il grillo rappresenta l’Autorità, dotata  (anche) di un bel patrimonio conoscitivo da dispensare a giovani allievi più o meno birboni. Il Grillo Parlante è un personaggio dotato di modi educatissimi e di un linguaggio forbito ed elegante, paragonabile nello stile e nel contenuto del suo operare a certi vecchi insegnanti di cui noi abbiamo memoria, incontrati nelle nostre esistenze. Le cose che il grillo dice sono le stesse che alcuni educatori, presenti in età diverse delle nostre vite, hanno ossessivamente ripetuto, con l’intendimento di convincerci, per mezzo delle parole, ad accettare l’impronta del loro insegnamento, affinché ci adattassimo al sistema.

Chi più, chi meno, tutti abbiamo ricevuto quell’imprinting supportato dal peso condizionante delle parole dei genitori, degli insegnanti, della famiglio, delle istituzioni scolastiche.

Nell’opera di formazione che abbiamo ricevuto, anche attraverso le parole, ci siamo più o meno adattati, a seconda della nostra indole, delle caratteristiche della nostra personalità, in buona sostanza della nostra docilità a sopprimere la nostra originaria individualità.

La scuola oggi non è molto diversa da quella dei tempi di Collodi: quanti concetti più o meno inutili vengono forzatamente immessi nella mente degli allievi, con la ripetizione di un mucchio di parole, spesso inutili, attinte da una pedagogia vecchia e inappropriata per i nostri tempi.

«…Abito in questa stanza da più di cento anni…», afferma il Grillo a Pinocchio; «…Però questa stanza è mia», risponde il burattino: vale a dire l’intelletto è il mio. Il grillo può sapere tutto, ma è Pinocchio che deve comprendere. E il pedante grillo ci rimette la vita, colpito da una martellata, anche se Pinocchio «non credeva neanche di colpirlo». E così, in poche righe del quarto capitolo il grillo viene liquidato; ma la coscienza di Pinocchio, quella sì che dovrà proseguire la sua strada.

Non è però un’eliminazione definitiva dell’erudizione perché l’insetto ricomparirà nel capitolo XIII come fioca luce, ombra del Grillo Parlante, che ci proverà ancora una volta, e ancora senza successo, a istruire il burattino con le parole dettate dall’esperienza e dalla conoscenza e, anche se «L’ora è tarda», «La nottata è scura», «Le strade sono pericolose» Pinocchio deciderà, malgrado tutte le parole ammonitrici, di seguire la sua strada e il suo capriccio, riaffermando in tal modo che le parole giunte dall’esterno nulla possono, pochissimo incidono sulle nostre scelte, a differenze delle parole che giungono dalla nostra coscienza interiore.

Nel XVI capitolo Pinocchio, più morto che vivo, perché già impiccato dagli assassini a un ramo delle quercia grande, viene visitato dai medici, chiamati dalla soccorritrice Fata Turchina. Uno dei tre è il nostro Grillo Parlante. Gli altri due sproloquiano, producendo una melma di parole inutili, del tipo: «Se non fosse morto allora sarebbe indizio sicuro che è sempre vivo»(parole del Corvo). Oppure: «Se per disgrazia non fosse vivo, allora sarebbe segno che è morto davvero» (parole della Civetta).

Forse Collodi con un salto temporale  ha visto tutte le trasmissioni televisive che ci propinavano durate il lockdown, quando ogni pseudo-medico e ogni pseudo-scienziato si sentiva in diritto di sparare panzane sulla salute, sulla vita e sulla morte. Le voci di questi personaggi corrispondono alle voci di chi si erge tronfio nella sua falsa conoscenza. Il grillo, invece, per davvero SA, e svergogna Pinocchio rivelando la sua vera natura: «birba matricolata», «monellaccio», «svogliato», «vagabondo».

E per una volta le parole risvegliano, attraverso l’emozione, il cuore di Pinocchio che, finalmente risvegliato nella sua coscienza,  scoppia in lacrime sotto le lenzuola.

palloni gonfiati, i falsi eruditi non desistono e hanno la faccia tosta di continuare: «Quando il morto piange è segno che è in via di guarigione», e ancora: «Quando il morto piange è segno che gli dispiace morire».

Nella loro scempiaggine queste due star della comunicazione finiscono persino con il dire qualcosa di giusto!

Quanto alla coscienza di Pinocchio, la strada perché il protagonista riesca a svilupparla è piuttosto lunga. La possiede in modo caotico fin da quando gli è stato infuso il soffio di vita, ma duro è il compito di farne un cosmo.

Pubblicato in ARTICOLI, Senza categoria, Tra malattie reali virtuali letterarie. Tra manipolazione e necessità della natura | Commenti disabilitati su SOLO GRILLI PER LA TESTA! (PARTE II). UN GRILLO FAMOSO (pubblicato su “Parole in rete”, maggio 2023)

TRANSUMANi, POSTUMANI, ANTIUMANI (pubblicato su “Parole in rete”, giugno 2023)

Transumanesimo e postumanesimo: due parole che da alcuni anni, e con sempre maggiore vigore, girano nelle nostre teste e, ovviamente, nei motori di ricerca che tutti frequentiamo.

Transumanesimo è quel processo all’interno del quale si stanno verificando cambiamenti radicali, tali da incidere profondamente nella forma umana: con la convergenza di tecnologie emergenti, quali la biomedicina, la biotecnologia, le nanotecnologie, l’intelligenza artificiale, le tecnologie dell’informazione e dell’ingegneria sociale, tutte in crescita rapidissima, si avrà come risultato una profonda trasformazione della natura umana. 

Il postumanesimo sarà il risultato di questo processo: un risultato positivo e meraviglioso per chi crede che l’uomo saprà liberarsi da malattie, vecchiaia e morte, tremendo per chi ritiene insidioso il passaggio da un’evoluzione biologica a un’evoluzione sempre più artificiale della vita umana.

Gli entusiasti non hanno dubbi né temono conseguenze della propria hybris, del loro peccato di smisurato orgoglio prometeico, altri ritengono quantomeno inopportuno tentare di superare e modificare radicalmente la natura umana, riconoscendo nella natura una saggezza intrinseca.

I primi pensano di poter intervenire sulle capacità cognitive ed emozionali dell’uomo, gli altri ritengono che un’espansione quantitativa (di dati cognitivi trattenuti dalla mente, o di anni di vita, per esempio) non conduca necessariamente a un miglioramento della qualità della vita, né della felicità.

Nella prospettiva dei fautori il passaggio a questo tipo di uomo superiore, cui anelano, si otterrà per mezzo dell’eugenetica (sostantivo che ancora richiama memorie storiche da far tremare le vene), dove non si escludono dalla prospettiva le terapie dei geni e delle cellule; per mezzo delle nanotecnologie, che prevedono l’introduzione nel corpo umano di microchip, utili a potenziare alcune facoltà, fra cui quelle della mente. L’obiettivo ultimo sarà il superamento della morte: e infatti si guarda con molto interesse alla crioconservazione dei corpi morti, nella prospettiva ultima di poterli riportare a nuova vita.

È evidente che queste prospettive sottendano una visione dell’umanità puramente materialistica e meccanicistica, da cui è esclusa qualunque idea di sé superiore, di scintilla divina, in ogni caso di qualcosa al di sopra della pura materia.

Se però noi cerchiamo il lemma “transumano” sul vocabolario possiamo leggere (su Treccani): «Più che umano, che trascende i limiti della condizione umana e assurge al divino». Assurge, dunque a un piano di creazione eterno, a una condizione di non-tempo e di non-spazio, a Dio, all’«inesprimibile visione dell’Uno» , se ci ispiriamo a Plotino.

Nel desiderio di trascendenza che anima l’umanità, impegnata nel mondo fenomenico e tuttavia  rivolta a qualcosa di superiore alla pura materia, questo significato di «transumanare» reperibile nel vocabolario ci regala una speranza per il nostro anelito.

Dante scriveva «Trasumanar significar per verba non si poria»: l’anelito a oltrepassare la condizione umana non si può spiegare per mezzo delle parole. E come possiamo riuscirci noi?

Però Dante è riuscito a «trasumanar» e ha sentito di essere tutt’uno con il piano divino, guardando negli occhi la donna amata.

Gli umani contemporanei, i transumanisti, invece, vogliono che noi, sottolineo NOI transumaniamo con l’aiuto di droghe, impianti, eugenetica, chips cerebrali, e così via… e diventiamo – non oso pensare in quali condizioni – immortali.

Balza alla memoria I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift e il racconto del protagonista che giunge a Lugnagg, dove incontra gli struldbruggs, immortali, ed è costretto a scoprire con rammarico che gli immortali non sono felici e, superata l’età dei trent’anni, diventano malinconici e depressi, caratteristiche che vanno peggiorando con il passare degli anni. «Quando arrivano agli ottant’anni… essi non solo avevano tutte le debolezze e le follie degli altri vecchi (i mortali, n.d.a), ma molte di più… Non soltanto erano ostinati, bisbetici, avidi, tetri, vani, ciarlieri, ma pure incapaci di amicizia e morti a tutti gli affetti naturali».  Il colmo della sofferenza viene raggiunto quando assistono a un funerale: «Ogni volta che vedono un funerale si lagnano e gemono perché gli altri sono arrivati a un porto di pace a cui essi stessi non possono sperare mai di giungere». Swift ci confessa: «La mia acuta brama di vita senza fine era molto diminuita». Eppure, che tentazione, l’immortalità.

I miti, cari a noi e alla nostra cultura, raccontano di eroi mossi da altalenante desiderio: quello di assurgere all’eternità, caratteristica del divino, e quello di rimanere legati, anima e corpo, alle condizioni di mortalità, caratteristica umana.

Nel poema che narra l’Epopea di Gilgamesh, in antica lingua accadica, il protagonista non ha dubbi e il leggendario re sumerico intraprende il suo viaggio alla ricerca dell’immortalità. Durante il viaggio di ritorno a Uruk porta con sé una pianta in grado di far ringiovanire, ma la perderà, perché sarà divorata da un serpente. Prima che ciò accada dice al battelliere: «Urshanabi, questa è la pianta dell’irrequietezza; grazie ad essa l’uomo ottiene la vita. Voglio portarla ad Uruk e voglio darla da mangiare agli anziani e sperimentare la pianta. Il suo nome sarà “l’uomo anziano ringiovanirà”» (tav. XI). Non andrà così. Per il suo fallimento Gilgamesh si dispererà ma, tornato a casa, di fronte alle mura della sua città, Uruk, comprenderà qual è il senso della sua vita di mortale: governare con saggezza al servizio del suo popolo.

Odisseo, eroe del Poema omerico, il cui ritorno a Itaca, terra di partenza e di origine, si alterna con altro desiderio nell’arco di dieci anni durante i quali si svolge il viaggio di ritorno, è  incerto fra le seduzione esercitata dalla promessa di immortalità e immutabilità e quella della fragile caducità umana.

Odisseo incontra Calipso che (nel Canto V) di lui si innamora, lo tiene con sé per sette anni, legato al desiderio di lei, gli offre un’imperitura felicità: gli offre l’immortalità, oltre alla sua bellezza e al suo amore. Eppure la brama di Ulisse di tornare alla terra dei padri è più forte, e con il beneplacito della Ninfa,  a Giove ubbidiente, costruisce la zattera con cui affronterà il mare per tornare alla sua terra. 

Cesare Pavese nei Dialoghi con Leucò (“L’isola”) fa dire a Calipso, rivolta a Odisseo, nel tentativo di convincerlo a rimanere: «Devi rompere il destino, devi uscire di strada, e lasciarti affondare nel tempo… Che cosa è stato finora il tuo errare inquieto?» Odisseo non lo sa, ma  dice all’antica dea immortale: « …Tu dimentichi qualcosa…Quello che cerco l’ho nel cuore».

Sfuggito con i compagni alle insidie delle droghe rappresentate dai fiori di loto, sfuggito poi ancora all’ira del Ciclope, e infine ai Lestrigoni, giunge all’isola di Circe (Canto X), presso cui rimane per un anno intero, immemore ospite, vezzeggiato  e viziato fra gli agi nella reggia della maga, fra cibi abbondanti e vini dolcissimi, dimentico di sé. Per un anno assapora  una sorta di paradiso fino a quel momento sconosciuto.

Eppure anche in questo caso la promessa di eterna felicità non basta a trattenere Ulisse, che uscito dalla condizione di smemoratezza di sé, rinuncia alla condizione di un tempo ciclico senza fine e si risveglia.

Si direbbe che in entrambi i casi descritti Odisseo abbia corso il rischio di perdere la propria identità umana, fatta di imperfezione e caducità, ma in entrambi i casi, infine, egli sceglie di tornare alla propria condizione di umano, il cui senso della vita sta nella terra d’origine, dove si trovano ascendenti e discendenti e, ahimè, alberga anche la condizione di mortalità.

Non dimentichiamo l’etimologia di uomo (homo – hominis, in latino) che condivide la propria radice con l’humus, vale a dire la terra fertile, contenente sostanze organiche prodotte dalla decomposizione di esseri animali o vegetali: in senso metaforico noi usiamo la parola humus per indicare il complesso di fattori culturali da cui qualcosa trae origine: anche il pensiero, le idee, gli accadimenti trovano radici nella terra, in questo modo di usare la parola.

Nella parte finale del Poema omerico si riconferma il radicamento di Ulisse alla terra, alla Terra, alla natura umana e mortale: la vicenda lo stabilisce definitivamente quando  viene svelato il segreto che lui condivide con Penelope e che permetterà alla sposa di riconoscerlo: il letto nuziale è piantato in terra, così talmente insediato nella  terra da essere stato costruito  sulle radici profonde di un secolare albero di ulivo.

Ma, tornando all’attualità, qualcuno vuole ora negare la forza degli archetipi su cui l’uomo da sempre fonda la propria esistenza: a loro non importa nulla ditrasumanar; hanno come unico obiettivo il transumanar del genere umano nella  negazione di ogni forma primordiale dell’esperienza umana.

Scrive Borges, in un racconto intitolato “Gli immortali”: «La morte rende preziosi e patetici gli uomini. Questi commuovono per la loro condizione di fantasmi; ogni atto che compiono può essere l’ultimo, non c’è volto che non sia sul punto di cancellarsi come il volto di un sogno».

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COME ARTICOLARE IL PRESENTE. INFORMAZIONI PARALLELE PER OBLIQUI FATTI

RACCOLTA DI ARTICOLI PUBBLICATA DA NUOVA IPSA EDITORE, PALERMO, 2023, COLLANA “SAGGI”

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SOLO GRILLI PER LA TESTA! (Parte prima) pubblicato su “Parole in rete”, aprile 2023

La farina di grillo, con quella di locusta migratoria e la polvere ottenuta dal verme della farina (Tenebrio molitor) sono state definitivamente approvate dalla Unione Europea. Pronte per saltare nel nostro piatto, terranno presto buona compagnia alla carne ottenuta in laboratorio.  Come si ottiene la carne in vitro? Chiediamolo alle streghe shakespeariane.

Cominciamo dalla fine. Dunque dal dessert.

Ed ecco a voi le gradevolissime cavallette caramellate! Guardatele, come sono pronte a saltare nel vostro piatto, e  voilà, semplici e facili da realizzare anche nella vostra cucina, amate da grandi e piccini. O no? Personalmente preferirei un bello scorpione caramellato, con tanto di pungiglione, ma pare che per ora mi debba accontentare.  Ma nutriamo molte speranze che cibo spazzatura e cibo transgenico allieteranno via via sempre più le nostre mense. Una cosa è certa: nella precisa volontà di alcuni di rendere sempre più basso e abominevole il piano materiale dell’umanità, non troverà spazio il frizzo creativo e immediato di qualche vecchia strega che, uscita dalle pagine di Shakespeare, dovrà lasciare il posto alle costruzioni dei transumanisti. Godiamoci ancora per un po’, prima che sia definitivamente messo in pensionamento, il guizzo creativo di chi per preparare pozioni doveva metterci del suo, rimestando e attizzando, mentre il brodo bolliva e il fuoco crepitava:

«Questo rospo che dormì / trentun notti e trentun dì… / Bolla prima in questa broda…/ Questa biscia di pantano /bolla e cuocia a mano a mano; /D’un ramarro aggiungo un occhio  / E la zampa di ranocchio,  / Con il pel di pipistrello  7 E d’un verme col pungello… / »

Se qualcuno ha qualcosa in contrario, sia chiaro che ha solo grilli per la testa!

A proposito di grilli: fuori di torno tutti gli appassionati di made in Italy e di dieta mediterranea, tutti coloro che pensano che il cibo sia cultura e la cultura anche cibo!: i nostri governanti della Unione Europea, che ci considerano alla stregua di pennuti, così hanno deciso. E così sarà.

Intanto nella nostra Italietta una catena di fast food a Milano ha già servito l’hamburger di grillo, che ha debuttato a febbraio in Porta Romana: «novel food sostenibile e instagrammabile», è stato definito. Infatti è ovvio che il cibo debba innanzi tutto adattarsi coloristicamente, in senso fisico e metaforico, ad essere fotografato e a girare con successo sui social, rinforzando la visibilità di chi lo mangia (o ne è mangiato?!). 

E così l’obbrobrio è stato servito in un bel panino verde, a base di spirulina, guarnito di scamorza, cavolo viola, patate e salsa. Molti si sono accalcati per vivere la nuova esperienza gastronomica, nessuno è ancora morto, malgrado l’indigeribilità da parte dell’apparato digestivo umano della chitina contenuta nei grilli, che tuttavia risulta appetitosa per funghi, parassiti e cancro, e forse darà i suoi frutti quando ben accumulata nel tempo nell’organismo umano, soddisfacendo così le aspettative dei malthusiani.

Ma tant’è: l’Unione Europea ha autorizzato la polvere di Acheta domesticus, vale a dire la farina di grillo, secondo il regolamento della Gazzetta Ufficiale del 3 marzo 2023. Precedentemente era già stato approvato il consumo di tarme della farina essiccate (larva gialla della farina Tenebrio Molitor). L’autorizzazione, per essere più precisi, riguarda gli  umani, non gli animali.

Grilli, vermi, e locuste migratorie dunque, sono benvenuti, secondo la UE, come aggiunta insieme con farine multicereali, nei grissini, nei biscotti, nella pasta secca, farcita e non farcita, nelle salse, negli snack, nelle preparazione del pane, delle barrette dietetiche, nel cioccolato, nella birra e e nei sostituti della carne. 

«…D’un dragone l’aspra scaglia, / ’uno squalo la ventraglia, / D’una lupa zanna acuta / Con radici di cicuta… / E d’un tasso un ramo secco / Che, eclissandosi la luna, / Colto fu nell’aria bruna…»

A tutti i nemici della carne e di coloro che molto si preoccupano del trattamento degli animali negli allevamenti intensivi non farà piacere sapere che il trattamento del grillo domestico e dei vermi della farina -esseri comunque senzienti – prevede  che essi siano sottoposti a un digiuno di 24 ore, allo svuotamento intestinale, al lavaggio, all’uccisione tramite congelamento o, in alternativa, all’immersine in acqua bollente, a un successivo trattamento termico, all’essiccazione, all’estrazione dell’olio, e infine alla macinazione.

Naturalmente viene vantato l’alto valore proteico, alternativo a quello fornito dai mammiferi, comprensivo della presenza di amminoacidi, fibre minerali come calcio e ferro, vitamina B12, acidi grassi e omega 3.

Ma la parola magica per sostenere la presenza degli innocui grillo&company nella nostra dieta è: ecosostenibilità. Il virtuoso grillo, infatti, al pari del verme della farina, il cui spirito di attivismo e di efficienza è noto in ogni casa quando si conservi un po’ di farina nella madia, richiede una piccola porzione di terra, in confronto all’esigente vacca, che ha il vizio di consumare anche tanta acqua, e lui, il grillo, produce solo l’1% di gas serra. Insomma le povere creature contribuiranno senz’altro a salvare il pianeta dal riscaldamento climatico!

Non si dice mai che il mercato dei grilli raggiungerà la stima di tre miliardi e mezzo di dollari entro il 2029.

Se abbiamo dubbi che la diffusione degli alimenti con insetti faccia parte di un vasto progetto di reset della nostra cultura, delle nostre radici, della nostra identità, è bene sapere che negli USA la American Food and Drug Administration ha già autorizzato la costruzione della carne di pollo in laboratorio, e la minaccia che l’apertura a una simile pratica in futuro (a breve) possa riguardare l’Europa è reale. 

«…D’una serpe il doppio stocco /  Ed un’ala di un allocco, / Di lucertola un piè rimane  / Ed infin lingua di cane:  / perché il filtro sia potente  / bolla e bolla ogni ingrediente».

La Coldiretti ha dichiarato: «Non è carne ma un prodotto sintetico e ingegnerizzato, non salva gli animali perché viene fabbricata sfruttando i feti delle mucche, non salva l’ambiente perché consuma più acqua ed energia di molti allevamenti tradizionali, non aiuta la salute perché non c’è garanzia che i prodotti chimici usati siano sicuri per il consumo alimentare, non è accessibile a tutti poiché è nelle mani delle grandi multinazionali».

E come si costruisce la finta carne? La carne creata in laboratorio si produce facendo crescere le cellule staminali, prese da animali vivi, in una coltura di sostanze nutritive. La crescita e lo sviluppo fanno parte di un processo che ha luogo in bioreattori.

I dubbi riguardano le possibili mutazioni delle cellule riprodotte in laboratorio, le quali sono esposte a processi di crescita molto rapidi, praticamente esponenziali, e che necessitano di controlli costanti. Come in natura potrebbero verificarsi degli errori ma, a causa della rapidità dei processi la natura stessa avrebbe ben scarse possibilità di correggere eventuali errori nello sviluppo di linee cellulari difettose. In tal caso gli effetti sulla salute umana non sarebbero né prevedibili né controllabili.

Al termine del processo artificiale per produrre la carne da alcuni definita di Frankenstein, l’alimento conterrà necessariamente moltissimi conservanti e additivi perché il prodotto possa raggiungere, almeno nell’aspetto e nel gusto, (dati di aroma, consistenza, tessuto, sensazioni tattili alla masticazione, ecc.) uno standard accettabile per il palato umano.

Le preoccupazioni che riguardano la manipolazione del cibo, attuata per renderlo artificiale non coinvolge solo il piano fisico e chimico, ma si allarga ai piani emotivo, mentale e spirituale. L’uomo è ciò che mangia, diceva il filosofo Feuerbach. E infatti quando noi mangiamo immettiamo qualcosa nel nostro corpo; noi riceviamo. Con il cibo entriamo in una relazione profonda.

Noi viviamo in una società multiculturale, ma in ognuna delle culture che la compongono il cibo, che è elemento culturale per eccellenza, si carica di un certo numero di simboli rappresentanti valori e credenze. Anche le religioni giocano il loro ruolo: ci sono cibi permessi e proibiti, cibi elettivi a altri poco graditi. 

Ma qui è diverso: non vi è alcuna relazione con il tipo di cibo che si prefigura nel futuro sulle nostre mense e una qualsivoglia forma di cultura; qui semplicemente non si vuole più riconoscere che, al di là delle differenziazioni, esiste una forza creatrice che unisce ogni creatura e che noi facciamo parte di un tutto che è vibrazione, energia, frequenza.

Quando noi non crediamo più al valore della terra, attraverso cui l’alimento si costruisce in modo naturale, e non si rispetta la vibrazione degli alimenti che entrano nel nostro corpo, ci stiamo davvero allontanando dalla consapevolezza. È vero che già ingurgitiamo junk food, ma che vibrazione potrà avere una fetta di carne cresciuta in un bioreattore?

«Tutto questo addensa e aggruma / La miscea che bolle e spuma… / Dai e ridai, rimesta e attizza, / Bolle il brodo e il fuoco guizza».

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CI SUICIDERANNO TUTTI (pubblicato su “Parole in rete”, marzo 2023)

Tira ad apparire simpatico, cura il suo look – manco a dirlo – giovanile, indossa occhiali con una lente quadrata e una rotonda, come se l’aspetto sbarazzino potesse contribuire a sdrammatizzare i contenuti dei suoi discorsi. Le spara grosse. Oserei dire che sia stato messo lì al fine di spararle grosse: l’ennesimo sacerdote della nuova religione transumanista e finalizzata al grande reset.

Ricordiamoci come funzionano le finestre di Overton nel processo di manipolazione delle masse, operato con meccanismi di ingegneria sociale, in cui la progressione porta alla completa accettazione e alla diffusione, in precedenza rifiutata dalle masse, di una certa idea. Il primo passaggio della progressione è rappresentato dal primo getto di parole (apparentemente sconsiderato) contenenti affermazioni in contrasto con l’opinione comune su un determinato argomento: parole che esprimono l’impensabile. Il secondo passo, immediatamente successivo, è quello che noi stiamo vivendo in questi giorni, in cui dibattiamo dellaimpensabilità, dellinimmaginabile. Nel tempo sappiamo che la proposta assumerà toni ragionevoli, raccoglierà consensi, probabilmente ci faranno canzoni rap, e infine diventerà legale.

Che cosa, dunque, ci turba? Che cosa ha affermato di tanto sconvolgente il simpatico occhialuto di Yale, Yusuke Narita, docente di economia di origine nipponica, che in precedenza aveva già parlato di eutanasia per gli anziani malati «con la possibilità», diceva lui «di renderla obbligatoria in futuro». Nel febbraio 2023 è tornato sull’argomento, modificando leggermente la sua proposta di soluzione finale, ammorbidendola, e nominando, in luogo dell’eutanasia (forzata) la parola suicidio. ‘Sta volta ha modificato il tono trasformandolo in un sentito invito, circoscrivendolo, per ora, al suo Paese di origine, il Giappone.

I vecchi, si sa, gravano sul debito pubblico, si ammalano molto più facilmente dei giovani, il mantenimento delle cure e dell’assistenza loro dedicate pesano, gli individui anziani non partecipano più alla vita produttiva, esercitano diritti senza rispondere ad altrettanti doveri.

Così, al pari degli antichi Samurai, i vecchi vengono invitati a sacrificarsi per il loro Paese, rinunciando di spontanea volontà a una vita poco attiva. Per il bene  della comunità, sono spronati a fare seppuku, forma di suicidio rituale che i Samurai mettevano in atto in caso di grande disonore. Qui, tuttavia, il suicidio non sarebbe prerogativa di una casta privilegiata di guerrieri, ma aperta a qualunque cittadino amante della propria patria. Il suicidio rituale, secondo l’ardito economista trentasettenne, che  una vaga imitazione della figura di John Lennon non rende meno pericoloso, potrebbe «divenire obbligatorio in futuro per consentire alle giovani generazioni di farsi strada»: gli anziani sarebbero colpevoli di non mollare le loro posizioni in campo professionale e sociale, dove occupano posizioni strategiche che rubano ai giovani. A causa del numero elevato di anziani si sarebbe scatenato nella realtà in Giappone un certo odio verso i vecchi e verso un’organizzazione gerontocratica del Paese: una persona su quattro, infatti, avrebbe (orrore! orrore!) più di sessantacinque anni e gli anziani costituirebbero il 30% della popolazione.

C’è un film del 2022, presentato a Torino, intitolato Plan 75, in cui il Giappone nella fiction ha già risolto i problemi dell’invecchiamento della popolazione e la sproporzione fra giovani e vecchi. È stato inventato il programma Plan 75, che prevede l’offerta gratuita dell’eutanasia. La situazione presentata nel film è dispotica almeno quanto quella reale, dove sembra farsi avanti, giorno dopo giorno, una politica sociale del tutto disumana. Il regista del film, Chie Hayakawa, anch’egli giapponese, ha dichiarato  in una intervista: «C’è un profondo sentimento di odio tra i giovani verso gli anziani nella società giapponese, perché pensano di dover pagare per loro e non avranno nulla in cambio».

Preoccupa la risonanza di tematiche tra cinema e realtà: del resto, il compito dell’arte non è quello di saper cogliere e prefigurare in anticipo certe realtà, prima che si realizzino?

La preoccupazione che il transumanesimo sia antiumano, che anziché rispettare e liberare l’umanità abbia come obiettivo quello di perfezionare la sottomissione dell’umanità, rimane motivo di apprensione verso un modello sempre più dispotico.

Il transumanesimo aborrisce la vecchiaia, si rifiuta di considerarla come una parte importante della vita, il suo obiettivo è sconfiggerla, allontanandola dall’essere umano, fino alla rinuncia della vita stessa (almeno, di quella degli altri), pur di non accettarla nel panorama dell’esistenza. Non volendo assegnare alla vecchiaia un valore positivo, che invece possedeva sia nella storia dei Greci che in quella dei Romani, non ne intravede l’utilità, né il valore storico e culturale che riveste nella vita del singolo né in quella della collettività.

I vecchi sono biologicamente scadenti, inadeguati ai ritmi che la tecnologia impone, lenti, inadatti ad affrontare le lotte per l’esistenza, sono ansiosi nei confronti delle esperienze nuove, psicologicamente fragili, bisognosi di supporto non solo fisico, poco adattabili a nuovi apprendimenti. I corpi e le menti dei vecchi decadono, si pongono come ostacolo nel vivere esperienze fisiche e mentali. Che ce ne facciamo di questi vecchi? si chiedono molti transumanisti.

L’idea che la vecchiaia, come diceva Cicerone, sia l’età più adatta a coltivare le attività dell’anima non li sfiora. Ci diceva anche, Cicerone, che malgrado l’implacabile assalto del tempo, l’ultima età della vita va vissuta in maniera naturale e che la morte va attesa con serenità, secondo le leggi di natura. Non nel terrore che qualcuno ci suicidi.

Pubblicato in ARTICOLI, Parole, narrazioni, illusioni, paure, Senza categoria | Commenti disabilitati su CI SUICIDERANNO TUTTI (pubblicato su “Parole in rete”, marzo 2023)

NELL’INFERNO DELL’ADOLESCENZA (pubblicato su “Parole in rete”, febbraio 2023)

L’adolescente sperimenta l’immersione negli impulsi malvagi della natura umana, prova dentro di sé lo sprofondamento nel personale inferno dell’ego. Forse Dante può aiutarci a capire.

Ho una preoccupazione. Riguarda figli adolescenti di amici. Come spesso accade alla loro età indulgono volentieri in una sorta di fancazzismo che pervade molte ore della loro giornata e gli impedisce di ottenere una buona qualità di vita. 

Adagiati su un divano un po’ dormicchiano, un po’ sognano a occhi aperti, un po’ sfumazzano e/o spinellano. Mi auguro moderatamente, ma quanto moderatamente non è dato sapere. Si alzano volentieri per un po’ di shopping, di sesso, un aperitivo, possibilmente alcolico. Non studiano. Malgrado letti e divani siano le loro cucce preferite, dicono di odiare la casa. E per buona misura anche i genitori. Le figlie odiano uno’ di più i le madri, i figli odiano un po’ di più i padri.

Per loro il viaggio della vita ha inizio, ma coincide con il viaggio metaforico negli stati negativi dell’essere. 

Dev’essere il mio amore per Dante a suggerirmi che il percorso nei gironi del loro essere avrà un andamento simile a quello percorso dal viaggiatore Dante, o meglio che il loro viaggio personale nelle difficoltà e nelle negatività dell’esistenza potrà avere un andamento analogo a quello dei gironi dell’Inferno. Mi sento di affermare che gli adolescenti soffrano come gli ospiti del regno d’oltretomba e si introducono, si direbbe volontariamente , a quelle sofferenze autoprocurate che Dante ci ha così ben descritto nella prima parte del suo poema: l’adolescente apre le porte alla fase autodeterminata della vita, ma introduce se stesso all’autodeterminazione della sofferenza .

Ricorderete il Vestibolo dell’Inferno, dove risuonano i lamenti degli Ignavi: i peccatori di ignavia sono «coloro che vissero sanza infamia e sanza lodo», che vivono, diremmo noi, in modo opaco, grigio, senza impegnarsi nelle proprie azioni, incapaci di imprimere la propria impronta sia nella storia personale sia in quella collettiva, coloro che  si lasciano vivere da una vuota vita sciupando le proprie facoltà, coloro che non sanno scegliere mai. Per questo la legge del contrappasso li induce nel Poema a inseguire una banderuola (un’insegna, dice Dante), stimolati da mosconi e vespe. 

Come i peccatori degli Inferi danteschi i nostri adolescenti si adagiano in una condizione di blocco dell’energia, e impauriti dalla loro stessa vulnerabilità rinunciano all’azione, spesso accompagnati da un diffuso e costante senso di fatica. La condizione di ignavia li distacca dalla realtà, anzi, lo stato di disconnessione costituisce esso stesso una condizione di trance, nella quale i ragazzi possono dimenticare i pungolamenti che giungono dall’esterno, in una sorta di oblio. 

E infatti molte famiglie sperimentano quella speciale inutilità del richiamo, delle parole, delle richieste, delle preghiere del mondo adulto, che non penetrano, non riescono a penetrare nella bolla dell’ignavia. Così la preziosa vita di questi ragazzi si sciupa, si dipana in modo insignificante, si depriva di scopo: i talenti tacciono, sviliti dal tedio. Talvolta l’ignavia che esprimono come indifferenza alla vita, è scatenata da altra indifferenza: quella dei genitori, presi dai loro problemi e concentrati su se stessi. I ragazzi sono, sì, adolescenti, ma ancora un po’ bambini, desiderosi di attenzione, di una dose aggiuntiva di accudimento, di una dimostrazione di affetto incondizionato, di approvazione: spesso delusi da una sostanziale indifferenza dell’adulto, impegnato a sua volta a sopravvivere, a sua volta incapace – è possibile – di superare la propria ignavia, la propria incapacità di affrontare il campo delle emozioni che gli impedisce di aprire il cuore.

Gli ignavi si ripresenteranno ancora nel Poema in Purgatorio come pigri, che mantengono, persino dopo la morte, l’atteggiamento degli infingardi (come il personaggio di Belacqua, di cui Croce diceva «È la voce della pigrizia»): alcuni continueranno a mostrare il tipico modo negligente che ebbero in vita, altri mostreranno comportamenti di correzione, sollecitandosi e camminando velocememente.

È un passaggio successivo dell’adolescente quello che mi preoccupa di più, quello in cui sceglie un’ulteriore via di fuga, quella legata a qualche percorso di dipendenza. Dal mangiare troppo o bere più del dovuto, gonfiare troppo i muscoli, fumare e/o spinellare tanto da far diventare il fumo un vizio, far sesso in modo anaffettivo e ripetitivo, spendere troppo in stupidaggini, assaporare smodatamente i giochi fino ad arrivare (capita) al gioco d’azzardo, e indulgere nel consumo di pornografia. 

Nell’Inferno di Dante «la concupiscenza, amore tumultuoso di falso bene» dice Valli in “Lo schema segreto del Poema Sacro”,«s’impaluda nell’accidia, mancato amore al vero bene”. Concupiscenza e accidia si rivelano come due effetti del medesimo disordine.

So che molti genitori non riconosceranno i propri figli adolescenti in questo quadro di pericolosità che considerano esagerato, e insieme a loro mi auguro che abbiano ragione. Eppure l’ingordigia conduce a ossessioni, magari piccole inizialmente, ma pericolose per quel bisogno di appagamento che portano con sé. 

Siamo nel girone dei «golosi», di coloro che sono tormentati dalla cupidigia, nel terzo cerchio, dove i golosi giacciono supini nel fango, sotto una pioggia di grandine, di acqua sporca e di neve: «Io sono al terzo cerchio, della piova / etterna, maladetta, fredda e greve; / regola e qualità mai non l’è nova. / Grandine grossa, acqua tinta e neve / per l’aere tenebroso si riversa; / pute la terra che questo riceve».

Dante avverte: l’ossessione, l’indulgere nelle forme diverse della dipendenza, collegata alla «golosità», all’ingordigia (di tante sostanze, esperienze, emozioni, non solo di cibo) conduce  a vivere, per così dire, di escrementi: chi fa cacca della propria vita è costretto dalla legge di contrappasso a vivere nella cacca, perché ha sprecato la propria esistenza. Eppure, come spiegarlo in modo convincente ai nostri ragazzi?

Poi Dante prosegue il suo viaggio fra le anime degli avari e dei prodighi, due facce di una stessa medaglia, di uno stesso peccato: il «mal dare e mal tener». Negli avari e nei prodighi distingue due aspetti contrari e complementari dello stesso male, che percorre continuamente quel segmento fra desiderio di avere sempre di più e gretto attaccamento a quanto già posseduto. Già nel Convivio Dante aveva affermato che ogni virtù ha due nemici o vizi, uno per difetto, l’altro per eccesso. 

Come in vita i prodighi e gli avari del terzo cerchio si affaticarono appresso al denaro, al possesso di beni materiali, così ora sono costretti ad affaticarsi spingendo pesanti massi, simbolo scelto a rappresentare i beni materiali stessi. Assai numerosi, sono divisi in due schiere che camminano in direzione contraria l’una all’altra; cozzando fra loro si rimproverano, urlando la colpa degli altri: «Perché tieni?», vale a dire “perché sei avaro?», e gli altri: «Perché burli?», vale a dire “perché getti via? perché sprechi?”

Se gli adolescenti raramente sembrano mostrare la propensione all’avarizia (tuttavia ci sono anche quelli) per lo più desiderano raggiungere il possedimento di beni materiali che in apparenza hanno il potere di diminuire la loro vulnerabilità, e consentono di raggiungere in qualche modo il soddisfacimento di un bisogno fondamentale: quello di essere socialmente approvati. Così troviamo adolescenti che sperimenteranno la sofferenza del desidero di beni materiali, cui tuttavia seguiranno frustrazioni in diverse forme. Identificare con il possesso del denaro e dei beni il possesso della propria affermazione e della propria sicurezza non li porterà a raggiungere la felicità.

Molti ragazzi arriveranno alla consapevolezza del dolore che si stanno autoprocurando e all’affacciarsi alla vita adulta sapranno porre rimedio. Inizieranno così il loro personale pellegrinaggio nel Purgatorio. Ci auguriamo che siano in grado di proseguire.

Ma alcuni sceglieranno ancora di continuare nella vita adulta sperimentando, uno dopo l’altro, molti gironi dell’Inferno.  

Pubblicato in ARTICOLI, Dis/orientamento dei giovani. Problemi educazione e scuola, Senza categoria | Commenti disabilitati su NELL’INFERNO DELL’ADOLESCENZA (pubblicato su “Parole in rete”, febbraio 2023)

NON DICIAMO CHE L’ACQUA È BAGNATA (pubblicato su “Parole in rete”, gennaio 2023)

Woke: un’altra parola proveniente dal mondo anglosassone che siamo costretti nostro malgrado a imparare e che si aggiunge, in stretto collegamento con esse, alle espressioni linguistiche  di cui Parole in rete si è occupata negli ultimi numeri:political correctness e cancel culture. Che cosa significa woke? 

Come spesso accade nella neolingua preconizzata da Orwell (e in piena realizzazione oggi) occorre sapere che le parole hanno spesso esattamente il significato opposto a quello che presentano, e che il significato è stabilito da chi della neolingua decide la diffusione. Perciò, come  in Orwell il «Ministero della Pace» serve a organizzare la guerra, quello «dell’Amore» serve a operare la tortura (e così via), così woke, che significherebbe sveglio in lingua afro-americana, pare avere il preciso compito di ottundere le menti.

Woke, o stai sveglio, diceva il movimento Black Lives Matter già nel 2013, e voleva significare «stai attento alle ingiustizie»  di cui sei vittima,. Il termine era già emerso attorno al 2010 negli Stati Uniti nei campus universitari americani per designare gli emergenti movimenti militanti e è arrivato in Europa, accompagnando il movimento e l’ideologia woke, nel 2020, dapprima in Francia. 

Sii cosciente di essere vittima. E che cosa rende vittime queste persone? Quali categorie di persone? 

In buona sostanza: il nemico è sempre bianco, orientato in senso eterosessuale, possibilmente europeo, per forza di cose storicamente colonizzatore: tutto il male, dunque, proviene dall’Occidente; coloro che possiedono le caratteristiche sopraelencate sono colpevoli da sottoporre a processo e a giudizio, da parte dei woke, ed essi sono le vittime. Ma negli USA woke non sono solo gli appartenenti alle minoranze che esigono giustizia, ma molti appartenenti alla classe di privilegiati osteggiata dai woke: molti bianchi, eterosessuali, ricchi, vale a dire molti fra coloro che trarrebbero vantaggio dalla loro posizione nella cultura occidentale.

Per capire il fenomeno nella sua complessità ci viene in aiuto Jean François Braunstein, professore di filosofia contemporanea e autore del saggio La religion woke, edito da Grasset. Già il titolo ci avverte che nell’ideologia woke è insito il pericolo di un atteggiamento quasi religioso, lesivo di libertà: il pensatore esprime intense preoccupazioni sull’ideologia woke, collegata a atteggiamenti fanatici e in molte interviste il filosofo non lesina la sua opinione.

Il vittimismo riguarda principalmente tre categorie di persone. Prima categoria: quelli che si riconoscono nella teoria gender e che, oltrepassando i sessi e la biologia, difendono a spada tratta le possibilità di riconoscersi in una identità di genere fluida, mutevole, cangiante, per cui il corpo non possiede alcun valore in cui identificarsi: il corpo è solo quello percepito «dalla propria coscienza». La fluidità dei generi si oppone alla stabilità: «Le nostre coscienze fabbricano il mondo», è uno slogan dei woke. E ritengono di poter fabbricare anche i loro corpi, non più determinati dalla biologia, bensì da decisioni del singolo individuo. È la teoria riconoscibile in tutte le categorie LGBTQIAPK. 

Con queste iniziali si intende una serie di varietà sessuali e di genere, che peraltro vanno esponenzialmente aumentando nel tempo, così che la sigla si è già allungata dalle tre lettere iniziali alle nove attuali: ogni lettera propone un arricchimento dello spettro della sessualità umana. Dunque, con santa pazienza: L sta per Lesbiche; G sta per Gay (uomini attratti da altri uomini); B sta per Bisexual, o persone attratte sia da uomini sia da donne; T sta per Transgender, vale a dire persone che non si riconoscono nel sesso loro attribuito al momento della nascita; I sta per Intersex, persone che possiedono caratteristiche cromosomiche fisiche e ormonali miste e non sono né maschi né femmine, ma un po’ uno e un po’ l’altro; Q sta per Queer o Questioning, cioè persone che si stanno facendo domande, incerte sul proprio orientamento e sulla propria identità di genere; A sta per Asexual, o persone che non sentono attrazione per nessun genere; P sta per Pansexual, o persone che provano attrazione per chiunque, a prescindere dal genere (non solo per maschi o femmine); K sta per Kink, persone che provano piacere nell’esprimere la loro sessualità in modi alternativi e in contro-cultura. 

Per ora abbiamo finito ma penso che dovremo aggiornare presto la lista. Mi permetto di citare le parole di Braunstein, in un suo saggio precedente, La philosophie devenue folle: «I nostri dibattiti ricordano parola per parola quelli altrettanto surreali sul sesso degli angeli, che agitavano gli studiosi bizantini, mentre l’islam si stava preparando a porre fine a quella civiltà millenaria».

Il secondo punto forte dell’ideologia woke, sempre secondo Braunstein, è la «teoria critica delle razze». Le persone che vi aderiscono sono convinte che il razzismo sia «sistemico»: necessariamente tutti i bianchi sono razzisti e tutti i neri sono delle vittime.

La terza teoria è quella della «intersezionalità». Il concetto di intersezionalità nasce dalla teoria critica della razza attorno al 1989, introdotto da Kimberlé Crenshaw.  Si afferma, in pratica, che chi è discriminato sotto più di un punto di vista vede potenziata, moltiplicata l’ingiustizia che riceve e vede lievitare la propria  condizione di vittima, come se si trovasse in punti di intersezione degli input discriminanti. Per esempio essere nero/a e nel contempo transexual moltiplicherebbe la condizione negativa. Oppure essere nera e donna, anche; ma l’apoteosi del vittimismo è rappresentato dall’essere nera, donna e magari anche portatrice di handicap.

L’idea è che sia possibile subire discriminazioni secondo più assi, come un individuo in mezzo ad un incrocio potrebbe essere colpito da vetture provenienti da diversi lati. Siccome questo concetto pare offrire la ricerca di mille sfaccettature, i militanti woke si spingono sempre oltre, sempre oltre, e non mancano di trovare sempre nuovi punti di intersezionalità  e nuovi aspetti discriminanti. 

Traggo la conclusione che nell’ideologia woke predomina un forte senso di vittimizzazione, tale per cui lo stato di vittima assume quasi un senso sacrale e si configura come una sorta di risorsa sociale. Mi ricorda tanto la condizione di alcuni vecchi conoscenti, carichi come me di anni e malattie, che tuttavia non perdono occasione di sciorinarle, per di di più con un certo orgoglio, entrando in particolari che li allontanano sempre più da una condizione di dignità e li precipitano in un baratro privo di decoro. Lì l’intersezionalità, volendola applicare, si potenzierebbe nell’area delle malattie, moltiplicando il vittimismo del malato, mentre questi giovani woke, di cui tutte le ricerche sociali non mancano di puntualizzare l’appartenenza a classi sociali privilegiate perché ricche, non solo rinnegano i vecchi valori di mascolinità, dignità, orgoglio della cultura occidentale che denigrano, ma sembrano nel complesso sempre più impastoiarsi in un’immagine di fragilità e di debolezza, caratteristiche di cui si ergono rappresentanti al massimo grado.

Sembra che alcuni valori umani siano davvero cancellati: le debolezze, le mancanze, le diversità  sono motivo di sbandieramento, le caratteristiche di cui eventualmente avvalersi per un po’ di autostima costituiscono motivo di vergogna. 

Inutile dire che rimpiango un po’ Clint Eastwood, la sua maschera di uomo bianco occidentale che sa controllare attraverso i movimenti del volto i moti dell’animo, il quale anziché esternare piagnistei e gnaulii, offre di sé un aspetto improntato a gravità e compostezza, in una parola, dignità. Me ne devo vergognare?

Dice Braunstein: «In Occidente rischiamo un 1984 in cui sarà pericoloso anche dire che l’acqua è bagnata».

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Pubblicato in ARTICOLI, Parole, narrazioni, illusioni, paure, Senza categoria | Commenti disabilitati su NON DICIAMO CHE L’ACQUA È BAGNATA (pubblicato su “Parole in rete”, gennaio 2023)

OBBLIGO DI GELATO A TUTELA DELLA SALUTE (pubblicato su “Parole in rete”, dicembre 2022)

La Corte Costituzionale ha deciso, al momento non abbiamo ancora le motivazioni, che saranno espresse, con buona probabilità, nel giro di qualche settimana, ma la decisione è presa: sul perché la Corte avrà modo di riflettere e di pronunciarsi sulla propria decisione in seguito. Abbiamo il titolo del Comunicato Stampa: «Obbligo vaccinale a tutela della salute», Roma, 1° dicembre 2022, emesso dal Palazzo della Consulta.

È sicuramente un titolo che contiene in se stesso, con quel pronunciamento «a favore della salute» la qualificazione, la coloritura con la quale la sentenza verrà pronunciata: contiene l’argomento e nello stesso tempo il cappello sotto il quale si vuole che guardiamo all’argomento e alla sentenza. Non so perché, ma nella mia totale ignoranza giuridica, mi pone in condizione di dubbio, di sospetto: è come se contenesse in sé l’enunciazione e il risultato, la premessa e la conclusione. Come se dicesse: «Obbligo di mangiare il gelato a tutela della salute». Non vi sentireste smaccatamente spinti vostro malgrado verso il gelato perché è già deciso che il gelato deve essere mangiato? 

La prima parte della Sentenza, comunque, devo rileggerla più di una volta per capire: «La Corte ha ritenuto inammissibile, per ragioni processuali, la questione relativa alla impossibilità, per gli esercenti le professioni sanitarie che non abbiano adempiuto all’obbligo vaccinale, di svolgere l’attività lavorativa, quando non implichi contatti interpersonali». Dunque, mi chiedo, è inammissibile che sia accaduto, o è inammissibile che i sanitari privi di vaccinazione abbiano pensato di svolgere la loro attività lavorativa senza contatto interpersonale? Ma poi anche io capisco. Capisco che tutti ricorsi dei lavoratori sospesi dai loro servizi a causa dell’obbligo vaccinale (personale scolastico, sanitario e in parte militare) sono stati cancellati con un colpo di spugna.

Le scelte adottate dal legislatore nel periodo della pandemia, relativamente all’obbligo di vaccinazione, sono salvaguardate, ritenute «non irragionevoli». Contemporaneamente è stata esclusa la corresponsione di un assegno, da addebitarsi al datore di lavoro, per coloro che, grazie alla normativa, erano stati sospesi dallo svolgimento del loro lavoro.

Non ci si aspettava nulla di diverso, sia per la certa politicizzazione dei membri della Corte, le cui storie personali evidenziano l’appartenenza o la vicinanza a parti politiche che era necessario salvare, sia per l’enormità degli interessi in gioco, che avrebbero eventualmente pesato sulle conseguenze di una diversa sentenza e avrebbero fatto implodere la costruzione sui cui si è basata la dittatura sanitaria negli ultimi anni. Così ancora una volta balza in evidenza la possibilità per i governi di imporre procedure medicali o farmacologiche ai cittadini, e nello stesso tempo di imporre procedure sanitarie ai lavoratori di determinate categorie e professioni.

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Pubblicato in ARTICOLI, Senza categoria, Tra malattie reali virtuali letterarie. Tra manipolazione e necessità della natura | Commenti disabilitati su OBBLIGO DI GELATO A TUTELA DELLA SALUTE (pubblicato su “Parole in rete”, dicembre 2022)

POLITICAL CORRECTNESS E CANCEL CULTURE: ANALFABETISMO CULTURALE (pubblicato su “Parole in rete”, novembre 2022)

Le parole hanno un peso, non solo per noi di Parole in rete. La Bibbia  suggerisce che la gente stolta non abbia neppure un nome (Giobbe 30, 8), che dare il nome a una città equivalga a dominarla (Samuele II, 12, 28), ma anche che le molte parole aumentano la delusione (Ecclesiaste, 6, 11).In Isaia  (40, 26), si dice che  Dio, creatore di tutti gli astri li abbia chiamati ad uno ad uno con il loro nome.  In Genesi, nel racconto riguardante la creazione, Adamo riceve da Dio la facoltà di dare il nome agli animali, anzi Dio conduce gli animali da lui creati al cospetto di Adamo«per vedere con quale nome li avrebbe chiamati». E si aggiunge:«Adamo dunque dette il nome ad ogni animale domestico, a tutti gli uccelli del cielo e ad ogni animale della campagna». Così viene assegnata all’uomo la facoltà di elaborare il linguaggio e, attraverso l’atto di nominare, viene dato all’uomo il dominio sul mondo animale. Forse abbiamo approfittato un po’ troppo  della nostra facoltà linguistica?

L’Occidente ha sempre avuto una grande fiducia nella parola: il logos  veniva considerato nella civiltà greca lo strumento principe della conoscenza, come è manifesto nella forma dialogica scelta da Platone. 

Oggi si vive un’epoca in cui impera nell’ideologia e nella prassi la political correctness, che fa del conformismo linguistico un obiettivo: non è importante dire con chiarezza ciò che si pensa, ma badare alla forma. Così si attribuiscono a vecchi nomi significati nuovi o si sostituiscono con nuove espressioni edulcorate e perifrasi melense vecchie locuzioni, in modo da non ferire o intimidire gruppi sociali, classi o categorie di individui aventi caratteristiche minoritarie: in realtà l’obiettivo non è il miglioramento educativo ma il raffreddamento della lingua, che in tal modo si priva di suggestioni emotive, politiche e sociali. Così, ad esempio disabile si preferisce a invalido, l’handicappato suona come diversamente abile o portatore di handicap, il sordo e ilcieco si promuoveranno nella forma (che a me non suona meno violenta) rispettivamente di non udente enon vedente.  In ambito lavorativo lo spazzino è promosso come operatore ecologico, al pari del bidello, ora operatore scolastico. Per fortuna sono spariti tutti i padroni, che ora si correggono nella forma assai più neutrale di imprenditori. Mi chiedo se i barboni, o senza tetto, si avvantaggino per mezzo della political correctness o se si avvantaggerebbero di più dall’averlo, un tetto. E come la penserà una persona  grassa, si sentirà meglio sentendosi definire sovrappeso, cambierà davvero qualcosa per lei? Francamente si chiedo se genitore 1 e genitore 2 siano contenti di essere chiamati così, certamente però sono molto infastiditi tutti coloro (la maggioranza)  che pensano che la genitorialità sia un fatto biologico, segnato dall’appartenenza a un sesso (in tutto due sessi, per essere più precisi). E l’immigrato illegale si sentirà sollevato sentendosi chiamare irregolare? Nella political correctness non esistono più i disonesti… poverini, sono eticamente disorientati. Stupidi? Ma per carità! Matti, idioti… ma che dite, mentalmente disturbati. E sia chiaro che non esistono più omosessuali, solo gay; e i pervertiti si sono trasformati tutti in sessualmente disfunzionali.

Se in Italia non siamo ancora arrivati a rinunciare agli auguri natalizi (un semplice Buon Natale sembra essere divenuto proibitivo nei Paesi di lingua anglosassone) né a festeggiare le vacanze di Natale, costretti a chiamarle Winter Festival, ci siamo tuttavia impastoiati in altre forme di cretinismo, rinunciando, qua e là, agli auguri natalizi nelle scuole, di solito accompagnati da regali e scambi di dolcetti e  festicciole con famiglie «per non offendere la sensibilità degli islamici».

Insomma, dilaga l’ipocrisia, nel tentativo di rinunciare a termini scomodi: da questo punto alla vera e propria censura il passo è breve, se ad avvalersene è il potere, che impone la rinuncia a parole chiare e comprensibili in favore di mollezze semantiche.

Nella melassa sguazzano alcuni elementi, come  l’esaltazione della multiculturalità e dell’inclusività (guai a usare parole che celebrino la cultura occidentale e i suoi valori, in prima linea quelli religiosi, o la meritocrazia); predomina l’individualismo e l’estetismo con grande attenzione alla pura fisicità (guai a usale parole che esaltino il senso del dovere o la priorità di valori comunitari o sociali); emerge con forza un certo nazi-femminismo (guai a esaltare concetti pericolosi  come quello della virilità, visto che le femministe estreme si reputano superiori al maschio); sulla superficie dello sciroppo zuccheroso flotta in piena evidenza l’ecologismo, declinato in tutte le sfaccettature coloristiche- meglio se green ( guai anche solo a pensare che il lavoro della natura possa contare di più di quello, seppur distruttivo, degli umani); persino il materialismo si edulcora (ma guai a usare parole che accennino a valori spirituali).

La correttezza politica è sostanzialmente un’arma a doppio taglio: ammesso che le categorie minoritarie, più fragili, siano esse tali per razza, genere o orientamento sessuale, cultura, avendo vissuto esperienze di svantaggio e di discriminazione, non si sentano ingabbiate dalle sbarre di nuovi stereotipi e dalle nuove parole predisposte per loro (non scelte da loro), è però evidente che le categorie maggioritarie sentono che la loro espressione linguistica è impedita da una serie di regole e di stereotipi assurdi che inducono comportamenti comunicativi limitati e limitanti.

A parte le ridicolaggini di cui ho portato sopra qualche esempio,  la  P.C. è molto di più: sotto il manto dell’ipocrisia della buona educazione si nascondono strumenti per stravolgere il significato della realtà; intanto com’è ovvio non riesce a cambiare nella sostanza la realtà delle cose: il matto continua a dare di matto e il barbone continuerà a dormire sulla panchina del giardino pubblico, ma la P.C.è in grado quando vuole di alterare la percezione della realtà, attribuendo a parole significati diversi da quelli che storicamente hanno rivestito, fino a offrire il senso opposto da quello originario. In molti miei articoli precedenti ho portato esempi; ora ne porterò uno per tutti: durante il coprifuoco Covid abbiamo costantemente ascoltato l’espressione distanziamento sociale, a indicare la separazione delle persone, persino dai familiari e dagli anziani bisognosi di assistenza; tuttavia il modo con cui l’espressione veniva usata, con valenza del tutto positiva, portava il messaggio che il distanziamento sociale era cosa buona (riprovevole comportarsi in modo opposto) fino ad assumere la valenza di protezione di sé e del proprio corpo dagli altri e quindi dalla malattia. Ma quanti si sono resi consapevoli del ribaltamento del significato?

In buona sostanza, attraverso la manipolazione operata con la parola la correttezza politica induce a variare la percezione della realtà, variando la percezione di espressioni linguistiche, fino a rivoltarne il significato o comunque trasformandolo profondamente: è uno strumento di potere. 

A tale proposito ricorro a un riferimento letterario di un autore considerato adatto per bambini, che secondo me non lo è per niente e la cui opera trabocca di profondissimi significati nascosti. Lewis Carroll in Attraverso lo specchio racconta l’incontro di Alice  con Humpty Dumpty in forma di uovo che, oltre a illustrarle il pregio dei regali di non -compleanno  (364 possibilità contro una sola), afferma: «Quando io uso una parola, quella significa ciò che io voglio che significhi, né più, né meno». Alice dubita  che si possa attribuire alle parole significati così diversi, come lui fa. Lui  replica spiegando: «La questione è chi comanda, ecco tutto» E aggiunge: « Quando costringo una parola a fare tutto quel lavoro, le pago sempre lo straordinario… eh, dovresti vedere al sabato sera, come mi si affollano tutte intorno… per avere la paga, capisci?». Interessante metonimia, in cui  l’azione del prodotto (la parola) sostituisce quella del produttore… chissà  se   conoscono Alice molti personaggi del mainstream!

La manipolazione viene attuata con l’aiuto delle nuove scienze, come la PNL (Programmazione Neurolinguistica) e della Psicologia Sociale. Come disse Bertrand Russel all’inizio del secolo scorso: «Con questi strumenti noi riusciremo a far credere che la neve sia nera… alla popolazione non sarà permesso sapere come si siano generate le sue sue convinzioni …ogni governo sarà in grado di controllare i suoi soggetti in modo sicuro senza bisogno di eserciti o di poliziotti (The Impact of Science on Society).

Strettamente legato al tema della correttezza politica è quello della cancel culture dominante nei Paesi di lingua inglese. È la cultura della cancellazione o dell’annullamento e le vittime designate qui non sono le parole o le espressioni linguistiche: la moderna forma di ostracismo colpisce personaggi, gruppi, autori, libri, che vengono messi al bando in modo bieco e ignorante. Avreste mai pensato che, ad esempio, a essere presi di mira potessero essere i classici? È proprio così: opere e mondo classico sono messi all’angolo, anzi si vorrebbe metterli nel definitivo dimenticatoio. Prendiamo Omero, che noi abbiamo amato, rispettato e ritenuto pietra miliare della nostra cultura. E invece… nel Massachusetts Omero è stato giudicato «capostipite della mascolinità» e la Lawrence High School ha dichiarato, tramite un proprio docente, di essere orgogliosa di aver rimosso l’Odissea dal curriculum scolastico. La civiltà greca, nel suo complesso, risulta essere la massima rappresentante di quel pensiero, quell’arte, quella cultura divenuta odiosa ad alcune parti di popolazione, ma evidentemente non solo a quella; si aggiunge a suo sfavore che i Greci praticavano la schiavitù.

Un altro libro all’indice è La lettera scarlatta di Hawthorne, testo accusato di misoginia. Ma ormai sono numerosissimi gli autori e i libri sotto accusa, perché non rispondono a canoni odierni e esprimono valori razziali o di genere tali da richiedere la damnatio memoriae. Sono state prese di mira anche molte statue, ree per lo più di essere state scolpite in marmo bianco e dunque «esprimenti forme e atteggiamenti razzisti e anti-neri». Ciò ad opera del Black Live Matter.

Anche le favole turbano gli animi dei cancellatori e si disquisisce su principi azzurri e baci. Il dubbio che Biancaneve non fosse consenziente al bacio del Principe li dilania. Per fortuna lui ha preso una decisione da vero maschio di una volta, altrimenti la poveretta avrebbe continuato a dormire altri cento anni. Inutile dire che loro non sono d’accordo e io dopo un simile commento sono in serio pericolo.

La ghigliottina della cultura della cancellazione (e chiamala cultura!) è scesa anche su Peter PanGli Aristogatti e Dumbo della Disney. È stata la stessa Disney a vietarli ai minori di sette anni «perché veicolano stereotipi sbagliati e contengono messaggi dannosi». In Gran Bretagna i film sono stati rimossi dalle piattaforme dedicate  ai bambini e riservati (udite, udite) a un pubblico adulto. Peter Pan  è accusato di chiamare i nativi americani pellirosse; Gli Aristogatti di presentare il gatto Shun Gon con gli occhi a mandorla (caricatura razzista dei popoli asiatici!); il tenero Dumbo è denigrato per la canzone dei corvi, omaggio a menestrelli razzisti (schiavitù afro-americana ridicolizzata).

Anche Jessica Rabbit è all’indice: troppo fatale, troppo sexy: e chi lo dice adesso ai miei figli quarantenni che a Natale non potremo più riguardare tutti insieme, come in un rito, Chi ha ha incastrato Roger Rabbit? Che non ci tolgano Bud Spender e Terence Hill, o che ne sarà dell’annuale celebrazione della loro/nostra infanzia?

Questi sono solo alcuni esempi, ma negli Usa la situazione sta precipitando nel cretinismo e in modo grave coinvolge musica, arte, letteratura, poesia, teatro, spettacolo, in modo vergognoso. Come ben si capisce tutta questa acrimonia è innanzi tutto frutto dell’ignoranza: è un atteggiamento dittatoriale imposto da minoranze e fatto proprio da tutti, purché ignoranti, che nega discussione e confronto e boicotta con prepotenza, annientando pericolosamente la storia, il passato. È ovvio che chiunque e qualunque cosa viene insistentemente decontestualizzata, attualizzata, considerata con la lente dei canoni di oggi. Il tutto negli Stati Uniti avviene con molto eccesso e con un’atmosfera da caccia alle streghe: la cancel culture non è manifestazione del pensiero progressista, come credono i protagonisti, ma vero soffocamento della libertà, è un comportamento reazionario da parte di novelli inquisitori.

Non c’è troppo da ridere. Quale nota di speranza per il futuro potremmo introdurre? Non può venirci in aiuto nemmeno Rossella O’ Hara con il suo positivo mantra «Dopotutto, domani è un altro giorno»: è in castigo anche lei, uccisa con Via col vento dalla cancel culture.

Pubblicato in ARTICOLI, Parole, narrazioni, illusioni, paure, Senza categoria | Commenti disabilitati su POLITICAL CORRECTNESS E CANCEL CULTURE: ANALFABETISMO CULTURALE (pubblicato su “Parole in rete”, novembre 2022)

IL PROMETEO CHE È IN NOI (pubblicato su “Parole in rete”, ottobre 2022)

Nell’aprire il motore di ricerca più noto non impatto su alcune notizie di ieri, già rullate verso il fondo, invecchiate velocemente (e male) e già sostituite da altre, fresche di giornata, pronte per creare un tonfo al cuore dei lettori. Ecco che oggi, a farmi sobbalzare di paura, ci si mette un’informazione per così dire molto casalinga, anzi infrattata in quell’archetipica parte della casa che è il camino.

Ad appesantire il piatto della bilancia del caro-bollette di luce e gas troviamo la notizia del divieto di utilizzo di stufe e camini. Compiuto un breve accertamento sulla veridicità dell’ordinanza in questione, contenente il divieto, vengo in realtà a conoscere una serie di dettagli che, se non sono proprio tranquillizzanti, rendono tuttavia la proibizione di usare stufe e camini più circostanziata e meno grave. Ma ormai la testa si è infuocata e ha preso la spinta verso l’alto imboccando la salita lungo il camino delle associazioni di idee. Il caminus latino già rimanda al significato letterale del suo etimo: il focolare, vale a dire per estensione, la Casa e la Famiglia, cioè il luogo che protegge e unisce nella sensazione, non solo fisica, di calore. È direttamente collegato all’idea del fuoco, a sua volta principale simbolo del calore, della protezione dal freddo, di strumento arcaico di difesa dagli animali feroci.

Nella prospettiva di un inverno carente di materie prime (gas, metano, elettricità) e di conseguenza animato da prospettive povere di calore, la notizia depaupera in profondità le persone della speranza di ottenere protezione dal freddo.Anche quelle che fino a ieri il camino non avevano nemmeno pensato di usarlo, ma oggi si sentono improvvisamente private di un’ulteriore libertà. Funziona come il colpo finale inferto al cuore.

Si aggiunge un  aspetto altrettanto pericoloso. Il fuoco è anche alchemicamente simbolo di trasformazione, di cambiamento e di purificazione. Quel fuoco che andrà a mancare nel camino delle nostre case ci mancherà anche come proposta di ascesa a livelli spirituali superiori, attraverso un processo di trasformazione interiore. O, almeno, è proprio questa la sottile minaccia che simbolicamente ci viene lanciata con la nuova proibizione, come se non bastasse tutta la chiara volontà di limitare il nostro mondo esperienziale a pura materialità.

La mente balza ai miti. Due sono le accezioni importanti che i miti ci suggeriscono: quella che afferisce al concetto di fuoco come elemento unificatore, attivante anche in senso sociale e culturale e quello di fuoco come desiderio di conoscenza. E a pensarci bene: esiste davvero una distanza tra questi due concetti?

Come non pensare a Levi-Strauss che infuocava le nostri menti adoloscenziali o poco più con le sue opere in cui attraverso i miti si proponeva una chiave di comprensione delle culture. Il fuoco alimentava la cucina di culture vicine e lontane, rendendoci (un po’ di più) cittadini del mondo, desiderosi di unione e rispettosi delle diversità. Fu proprio questo antropologo a insegnarci che nella cottura del cibo (con l’uso del fuoco) era avvenuto il passaggio, nella storia dell’umanità, da una società naturale a una culturale: «La cucina di una società», affermava, «è il linguaggio nel quale essa traduce inconsciamente la sua struttura». Sebbene oggi l’antropologia strutturale non sia  più così di moda credo che nessuno possa dissentire. Bello è il momento della preparazione del cibo, della sua trasformazione attraverso il fuoco, più belle ancora la scelta del cibo e la sua condivisione. Bellissimi i ricordi infantili del cibo preparato sulla stufa, che nella regione dove ho vissuto – il Piemonte, ha segnato le esperienze familiari di montagna. Del resto, è proprio il cibo uno fra i più importanti elementi nel caratterizzare, luoghi, regioni, territori: è importantissimo nella costruzione della nostra identità. Quell’atto, ben noto ai nostri predecessori, di mangiare insieme vicini a un focolare, prometteva e realizzava momenti conviviali di grande valore, in famiglia o fra amici. E ammetto che è la negazione di tutto questo che nel divieto del focolare mi inquieta così tanto: va a toccare un punto nevralgico di risonanza.

Vi è un mito, quello di Prometeo, direttamente legato al fuoco che mi ha sempre sollecitata non poco per il profondo senso di ingiustizia che arreca. Il mito è raccontato da Platone, nel Protagora, per dimostrare «come l’uomo venne ad aver parte in un destino divino per via della parentela col dio», ma come poi gli venissero a mancare «rispetto e giustizia»: doni che per ordine di Hermes vennero distribuiti agli umani successivamente per evitare la loro estinzione, inevitabile se non avessero posseduto «l’arte politica». Dunque Platone innanzi tutto ci racconta che l’uomo fu «foggiato all’interno della terra, con fuoco e terra», come altre stirpi mortali (di animali). Zeus diede poi a Prometeo (il cui nome significa il Previdente) e a suo fratello Epimeteo (l’Imprevidente) l’incarico di distribuire le caratteristiche delle razze. Epimeteo si propone per fare tutto il lavoro da solo, poi Prometeo controllerà. Ma Epimeteo svolge la sua funzione in accordo con il destino che il suo nome gli attribuisce, e fa pasticci. Ad alcune razze assegna forza senza velocità, ad altre velocità ma debolezza, ai più piccoli dona la facoltà di fuggire con le ali, ad altri la capacità di rifugiarsi sotto terra, ad alcuni dà grandezza smisurata oppure distribuisce peli folti e pelli spesse, o zoccoli… e così via. Distribuisce di qua e di là, ma con poco criterio, in maniera malaccorta, finché si accorge di aver terminato i doni: l’uomo è rimasto «nudo, scalzo, scoperto e inerme». Che fare? Passa la patata bollente a Prometeo, che dovrà rimediare ai suoi guai. È così che Prometeo prende da Efesto e Atena la scienza tecnica, anzi, Platone dice che la ruba dall’officina che le due divinità avevano in comune, e le dona all’uomo. Efesto, si sa, è il dio del fuoco, il dio fabbro, Atena è la dea della scienza tecnica. E, conclude Platone, in seguito Prometeo venne punito per quel furto.  Quel furto è il furto del fuoco della conoscenza: un furto compiuto per impulso; e analogo sarà negli uomini l’impulso a conoscere, più forte di regole, di precetti, di doveri.

È Gaston Bachelard che propone ( nell’opera Psicoanalisi del fuoco) di annoverare sotto la definizione di «impulso di Prometeo» l’atto del furto del fuoco agli dei, perché la volontà di conoscenza è un impulso fortissimo, più forte di qualunque rischio di fallimento o di punizione – persino quella divina, proprio come sottolinea un altro mito a noi noto, nel raccontare la storia della punizione del genere umano, cibatosi dell’albero della Conoscenza e per questo allontanato dall’Eden. Anche Ulisse, l’uomo che rappresenta più d’ogni altro la volontà di conoscere, è posto da Dante nell’Inferno, proprio per il suo ardore conoscitivo, che lo indusse ad allontanarsi dal pensiero di Dio.

Anche il poeta greco Esiodo nella Teogonia riferisce di Prometeo che Zeus ammonisce: «Non mi sfuggì la tua arte ingannevole». L’inganno organizzato dal Titano , avvenuta in precedenza, aveva visto Prometeo dividere in parti un bue, occultare in un sacco ossi e grasso, nell’altro carne e l’aveva visto indurre Zeus a scegliere il primo: in seguito a questo episodio Zeus toglierà agli umani il fuoco.

Nell’opera Le opere e i giorni il Poeta ritorna sul tema e si sofferma sulla punizione data da Zeus agli umani per il furto del fuoco messo in atto da Prometeo: la formazione e l’invio dello «splendido malanno»: Pandora. 

Il mito fu poi cavalcato in ogni epoca e letteratura, stimolando filosofi, poeti e letterati.

Tre secoli dopo Eschilo comporrà il Prometeo incatenato: è ormai l’eroe martirizzato ingiustamente, iniziatore della cultura e della civiltà, delle arti e della tecnica. Boccaccio nel XIV secolo ne farà il simbolo della sapienza e della conoscenza, nella Genealogia deorum gentilium.

Giordano Bruno, XVI secolo,  sarà sollecitato dal mito di Prometeo «capace di suffurar il fuoco di Giove per accendere il lume della potenza razionale», secondo quanto dice Saulino nel I Dialogo del Cabala del cavallo pegaseo.

Anche Leopardi nelle Operette morali sceglie Prometeo come co-protagonista di una storia: insieme a un’altra divinità, Momo, che in realtà rappresenta il punto di vista del Poeta, visita tre punti della Terra distanti fra loro per constatare la perfezione umana (secondo Prometeo) o l’imperfezione (secondo Momo). Nell’America del Sud troveranno cannibali intenti a mangiare carne di loro parenti; in India incontreranno una donna (una sati) costretta ad autoimmolarsi perché vedova; a Londra troveranno un uomo che ha assassinato i propri figli e poi si è suicidato sparandosi. A ben osservare (ma Leopardi non sottolinea) tutti e tre i misfatti vengono commessi attraverso quell’elemento – il fuoco – che Prometeo nel mito aveva donato ali uomini: il fuoco cuoce nella pentola carne umana, il fuoco della pira attende la donna, il fuoco dell’arma toglie le vite dei londinesi: è dunque il mezzo attraverso cui l’imperfezione si manifesta.

È Mary Shelley, diciannovenne quando scrisse Frankenstein, il cui sottotitolo è Il moderno Prometeoche ci ammonisce contro i pericoli della conoscenza e della tecnologia, di cui in epoca ottocentesca lei avvertiva chiaramente le opportunità di sviluppo e i pericoli a essa connessi di travalicare i principi naturali della vita umana: lettura più che mai interessante da fare oggi in cui i confini del transumanesimo sono già stati abbondantemente superati.

Tuttavia è l’aquila di Alberto Bevilacqua (Prometeo e l’aquila. Dialogo sul dono del fuoco e i suoi dilemmi, testo del ‘900) che ci fornisce la visione che meglio ci mette in guardia. L’aquila giunge sulla rupe di Prometeo (non è la stessa che ha pasteggiato con il suo fegato) e fra i due intercorre un dialogo, che dura dall’alba fino alla notte in cui entrambi i protagonisti dibattono i grandi temi riguardanti la condizione umana dopo la conquista del fuoco da parte dell’umanità.  L’aquila fa a pezzi l’illusione del progresso umano e svela la profonda ambivalenza delle conquiste della nostra civiltà, smontando la metafora del potere dell’uomo sulla natura. Bevilacqua aveva a cuore le problematiche scaturite dai cambiamenti tecnologici, agiti dall’uomo sulla natura, spesso contro la natura. La sua visione di scrittore e di intellettuale evidenzia (peraltro anche in altri suoi libri) la drammaticità del liberismo economico, capace di assoggettare in modo spietato territori e uomini, e di porre la natura al servizio della gestione del potere economico. In questa ottica il dono di Prometeo all’uomo è un dono infido e  porta con sé il germe della morte, perché «L’ avidità degli Umani ha consegnato il valore di tutte le Creature-che-stanno-sotto-il-Sole alle monete… all’Ordine-delle-Cose-morte».

E se l’Ordine delle cose morte decide che non possiamo più scaldarci o incontrarci attorno a un focolare (la seconda è già successa durante il Covid), noi che faremo? Saremo ubbidienti servitori della regola, o come novelli prometei (nella migliore accezione) ci ergeremo in ribellione?

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PECCATO O PER FORTUNA (pubblicato su “Parole in rete”, settembre 2022)

L’importante è che non  sia importante: in tv frivolezze, battibecchi dove l’inutile e apparente conflitto è dibattuto con falsa serietà o fra atteggiamenti, muscoli e abbigliamenti sexy; dibattiti che non dibattono proprio nulla, ma forniscono agli occhi e alle orecchie del pubblico solo piccole questioni, porzioni di interrogativi di scarsa importanza, perfetti per distogliere l’attenzione dai problemi veri. Di fronte alla scelta del canale tv tutti ci sentiamo liberi di credere, azionando il pollice, di esserlo anche nella vita, mentre siamo potentemente ipnotizzati dalle proposte che passivamente riceviamo: di stili di vita, di modelli di personaggi da imitare, di mode che poi pedissequamente seguiremo, allargando e accorciando qualche cucitura di gonne o pantaloni… piccole cose, certo, ma non mancheremo anche a quelle di adeguarci.

I valori sociali che ci vengono proposti saranno con buona probabilità di bassa qualità: predomineranno l’importanza del denaro, l’individualismo, il menefreghismo. Non saranno mai presentate teorie economiche in dissonanza con quelle utili ai grandi capitali né con le basi stesse del sistema economico in cui viviamo immersi: il neoliberismo che pervade tutto.

Anche le teorie scientifiche sono piegate al funzionamento del sistema, quando si affacciano sullo schermo, ma che importa…non appena al reality show seguirà il momento dell’informazione il brain-washing ci pulirà il cervello e riceveremo su ogni canale le stesse informazioni, le stesse opinioni, omologate, sebbene camuffate da qualche finta divergenza, cui seguiranno, ancora, spettacoli e show di pura superficialità.

La manipolazione è pienamente in atto, ma noi neanche ce ne accorgiamo: non vogliamo accorgerci. Del resto, l’informazione che ci forniscono è verosimile – non vera -, è costruita bene, con efficacia psicologica, è ripetuta in modo uguale seppure con piccole variazioni di forma, tanto per non rendere stucchevole e quindi palese l’ingannevolezza di una ripetitività insolente. Il dito schiaccia, lo sguardo gira tra un canale e l’altro. Le belle parole risuonano: democrazia, libertà, uguaglianza, legalità, progresso… noi le percepiamo e ce ne beiamo… e rinunciamo a pensare. Le belle parole usate semplificano, sistematizzano, generalizzano e mettono definitivamente in pensione la nostra capacità di ragionamento.

Ora, in campagna elettorale, si è aggiunta qualche parola in più: (in disordine) clima, transizione tecnologica, ambiente, salario minimo, sanità… a parte qualche bella parola gli argomenti scendono verso il basso, ignorando i veri problemi del nostro Paese. I vecchiumi dell’altro secolo resistono, come la polarizzazione fra fascismo e antifascismo, il massimo del dibattito riguarda Peppa Pigg con due mamme, il più elevato dei voli pindarici si eleva sul ponte di Messina. La situazione è kafkiana: sembra si parli di un altro mondo, dove aleggiano chimere in grado di tagliare tasse, dove la guerra per incanto non c’è più, le emergenze sono finite, l’inflazione è un brutto ricordo, e il reperimento di materie prime è a facile portata di mano.

Malgrado la presenza capillare di tutti i politici sui social, dove ciascuno di loro può esercitare la propria personale arte di comunicazione, tutta individuale e priva di contraddittorio, rimane la tv lo strumento fondamentale della propaganda politica, soprattutto per la fascia di pubblico più matura: la presenza dentro la casa della tv è ancora vincente, come la relativa condizione di passività con cui il pubblico gode dei servizi televisivi.

Esausto psicologicamente dopo il pagamento dell’ultima esorbitante bolletta, alle prese con la precarietà del lavoro e della vita, spaventato da mille paure, il pubblico non desidera altro che di essere convinto da qualcuno e qualcosa. Peccato che in questa campagna elettorale sia impossibile percepire l’ingrediente essenziale per rendere convincente una campagna elettorale: lo slancio riformatore, la progettualità fondata su idee vere, pensate e vissute con la partecipazione del sentimento.

Peccato o per fortuna?

Pubblicato in ARTICOLI, Parole, narrazioni, illusioni, paure, Senza categoria | Commenti disabilitati su PECCATO O PER FORTUNA (pubblicato su “Parole in rete”, settembre 2022)

QUATTRO CANDELINE (pubblicato su “Parole in rete”, agosto 2022)

Così  Parole in rete compie quattro anni. In questi quattro anni gli strumenti tecnologici hanno ulteriormente pervaso le nostre vite, condizionando l’umanità in modo sempre più incisivo e rapido, consentendo, attraverso di essi, un potente controllo di pensiero, emozioni, modi e azioni delle persone. I bisogni  delle persone, siano essi singoli o gruppi sociali, vengono manipolati e indirizzati, per mezzo dell’informazione riguardante la cosiddetta realtà, di cui viene operata una rappresentazione, una narrazione rispondente alle esigenze dei gruppi di potere. Psicologia e sociologia concorrono alla costruzione della manipolazione: ciò è sempre avvenuto nel corso della storia ma oggi le conquiste della scienza e della tecnologia rendono più inquietanti e pericolosi i mezzi messi a disposizione perché sono in grado di influenzare fortissimamente psiche e comportamenti, di pervadere aspetti individuali, familiari, lavorativi, economici, giuridici… Sulle pagine della nostra pubblicazione abbiamo cercato, in modo certamente non esauriente, di rivelare alcune forme di manipolazione e delle loro insidie , nel tentativo di ampliare la consapevolezza dei nostri lettori nell’individuare l’incidenza delle manipolazioni negli ambiti della cultura, dell’istruzione, dell’informazione.Riteniamo di aver dato una visione coerente.

Ci siamo occupati della dequalificazione della scuola il cui scopo formativo non è certamente quello di fornire una visione d’insieme e di preparare menti aperte, ma piuttosto quello di limitare la comprensione del mondo con la parcellizzazione del sapere (ottobre ’18); abbiamo parlato dei problemi dei giovani attraverso il modellamento delle competenze culturali e la limitazione dello sviluppo cognitivo, dei problemi dei più giovani (novembre ’19); delle problematiche organizzative e di altro genere della scuola, dell’alimentazione delle paura nella scuola (agosto, settembre ’20), della chiusura della pedagogia contemporanea (ottobre ’20). Ci siamo occupati delle relazioni fra cognitività e onde elettromagnetiche (aprile ’19); dell’esposizione dei più  giovani ai dispositivi tecnologici e dei loro connessi disturbi di comportamento (maggio ’19): All’uso manipolatorio della paura è collegato il ruolo servile dei mezzi d’informazione ( settembre 21, aprile 22),abbiamo guardato  alla manipolazione attraverso la parola (novembre 2020), nonché all’uso della lingua sul web (dicembre ’20). Abbiamo trattato temi riguardanti il sistema d’informazione e la paura, un certo uso della lingua e l’alimentazione della paura (febbraio e luglio ’21) , dei condizionamenti che ne derivano, e il controllo della mente per mezzo della paura (agosto ’21). 

Abbiamo parlato della modificazione dell’etica e  di alcuni esperimenti di ingegneria sociale. Ci siamo affacciati  sulla finestra della manipolazione finanziaria e della sovranità monetaria (dicembre ’18); sulle libertà e limitazioni dell’arte e della scienza (febbraio ‘’19).

Siamo tornati più volte sui temi della manipolazione dell’opinione pubblica (giugno ’19),sui pericoli della tecnologia, e sulle strategie per plasmare l’immaginario collettivo (luglio ’19), sull’ideologizzazione della teoria gender (luglio ’19) e sulle sue implicazioni nel mondo della scuola (agosto ’19), sui progetti mondialisti (febbraio ’20).

Ci siamo occupati di casi storici e di fakenews di ieri e di oggi, dei falsi dell’informazione (ottobre e novembre’18, gennaio ’19). Sulle manipolazioni storiche siamo tornati nel luglio ’22 e sulle manipolazioni nella rappresentazione del mondo nel giugno ’22.

Ci siamo interessati alla tendenza a dissolvere la coscienza della normalità e della normatività, della disgregazione, del disorientamento sessuale e della decostruzione dell’identità (gennaio ’20), in relazione anche alla teoria gender. È stato di nostro interesse l’argomento dell’appiattimento della biodiversità, delle tecniche di manipolazione e estinzione genetica programmata di specie animali (luglio ’20). Ci siamo posti dubbi e domande sula cosiddetta pandemia, lasciandosi suggestionare da pestilenze letterarie (aprile ’20), e dalla presenza di malattie in letteratura (aprile ’20); sulle limitazioni del dissenso (novembre  e dicembre ’21); sulle limitazioni di libertà personali in pandemia ( marzo ’21); sui pericoli della tecnologia (gennaio ’22) sulle condizioni di libertà di pensiero e di stampa (maggio ’22).

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A VOLTE RITORNANO (pubblicato su “Parole in rete”, agosto 2022)

Tra poco più di un mese ricomincerà la scuola. È ormai comunemente un luogo dove l’esercizio delle capacità critiche è prevalentemente inibito. Certo, nella nostra scuola non si ripetono ossessivamente a memoria versetti o precetti, ma in ogni caso, come ho già scritto in precedenza è un luogo dove le capacità critiche degli allievi sono scoraggiate e gli stimoli del pensiero creativo, laterale e divergente sono per lo più sottomessi all’apprendimento di pure nozioni. I lockdown hanno dato il colpo di grazia, riportando la scuola a una condizione di disciplina forzata che l’ha trascinata indietro di oltre cinquant’anni : lo stare  fermi in un banco, per di più con la mascherina, per molte ore, ha sminuito la partecipazione a attività di gruppo, ha incentivato la passività. Inoltre ha appiattito l’insegnamento che, nello sforzo di operare inclusioni spesso impossibili, ha via via sempre più negato il valore del merito e ha promosso, suo malgrado, un declino, scaturito anche dalla volontà di realizzare una scuola egualitaria, nonché dall’evidente distacco dell’apprendimento dalla realtà dell’ambiente esterno e soprattutto della natura, e attribuibile inoltre all’esecuzione di compiti noiosi e ripetitivi.

Mi preoccupa fortemente l’insorgere nella scuola e il diffondersi di una nuova malattia infantile (le altre furono cancellate dai vaccini) segnata dalla mancanza di attenzione, da vivacità quasi incontrollabile presente in alcuni allievi, notevole impulsività: è la malattia che oggi si definisce disturbo da deficit di attenzione e iperattività. È evidente a insegnanti e familiari che il numero di questi bambini aumenta esponenzialmente. L’allievo presenta sintomi che vanno da negligenza, disattenzione, difficoltà di ascolto, opposizione alle attività scolastiche, difficoltà di autorganizzazione, riluttanza alla sforzo mentale, facilità di distrazione, ma anche difficoltà a stare seduto, inquietudine fisica più o meno accentuata, incapacità di fermarsi su un gioco, fino all’ eccessivo uso della parola.

La preoccupazione che qui esprimo riguarda la tendenza alla medicalizzazione di questi disturbi. Già negli USA ci sono oltre due milioni di bambini diagnosticati sotto l’etichetta ADHD (Attention Deficit and Hyperactivity Disorder) i quali vengono abbondantemente bombardati con farmaci; in Germania si consumano 13,5 milioni di dosi giornalieri di Ritalin. Si tratta di un farmaco che in Italia era stato ritirato ma ora, sdoganato, so per certo che viene prescritto in alcuni casi diagnosticati nel modo indicato; è una anfetamina sintetica il cui principio attivo è il metilfenidato. È pericolosissimo, crea dipendenza e nel tempo occorre aumentare sempre di più le dosi. Ma altri farmaci simili, altrettanto pericolosi, bussano alle porte dell’infanzia e dell’adolescenza: l’industria farmaceutica  ha forti interessi economici e trae tutto il vantaggio a creare fasce di consumatori tra i più fragili. Occorre dubitare, stare all’erta, avere un atteggiamento critico verso le terapie farmacologiche prescritte ai più giovani, siano esse stimolanti o antidepressive; bisogna temerne gli effetti sul sistema nervoso centrale e periferico, e quelli tossici. Sono farmaci che con nomi storici (come quello citato) o con nomi e facce nuove tentano o ritentano la scalata di bambini e adolescenti, ma i cui principi devono allertare la nostra attenzione di adulti, genitori, insegnanti, esperti, affinché non prenda piede, sulla scia di altri paesi, l’avanzare di terapie che potrebbero, sì, facilitare nel mondo scolastico l’assoggettamento degli allievi difficili, ma che sono in grado di rovinare le creature in crescita.

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CHE FAI TU, LUNA, IN CIEL? (pubblicato su “Parole in rete”, luglio 2022

«Ci sono più cose in terra e in cielo, Orazio, di quante ne possa sognare la tua filosofia», dice Amleto ai suoi amici: come per Amleto spiegare razionalmente l’incontro con il fantasma del padre può essere difficile, lo è per l’uomo conoscere le  leggi della natura e della  realtà, e  forse non può essere supportata pienamente dalla ragione la conoscenza dell’universo.

Tanto meno quella della Luna.

Il cielo stellato ci incanta, ci tiene con il naso all’insù, scatena le emozioni e spalanca le porte al romanticismo. Bene lo sanno i poeti.

Sono trascorsi  53 anni da quando  abbiamo assistito in televisione all’allunaggio e se allora guardammo verso l’astro luminoso interrogandolo con amore, sono seguiti decenni di dubbi e disillusioni. Una domanda avrei voluto poter rivolgere agli astronauti, eroi dello sbarco sulla Luna, al loro ritorno sulla terra: avete visto le stelle? Com’erano le stelle, osservate dalla Luna? 

Anni dopo vidi l’intervista ai tre astronauti che si erano presentati in pubblico di fronte ai rappresentanti della stampa di tutto il mondo,  il 16 settembre ’69 : non avevano né un atteggiamento trionfale né lo sguardo fiero, ma piuttosto l’aria di cani bastonati, una profonda tristezza emanava dai loro occhi. Un giornalista rivolse loro la stessa domanda che avrei voluto porre anch’io. E qui ebbi la prima delusione: gli astronauti vagavano con lo sguardo, messi ko dalla domanda , cui era evidente che non sapevano rispondere. Sembravano dei babbioni. Poi cercarono di mascherare l’impreparazione e di rispondere, cercandosi uno con l’altro con lo sguardo, sebbene con evidente incertezza, omettendo di grattarsi la zucca come Stanlio, ma con identico atteggiamento. Stelle? Quali stelle? Dissero che dalla Luna non si vedevano stelle. Nessuno aveva visto neppure una stella.  

Nella stessa intervista alla domanda di un giornalista riguardante il significato del primo allunaggio su un corpo celeste, nessuno dei tre astronauti risponde; cala un lungo lungo lungo silenzio imbarazzante, nessuno dei tre guarda né l’interlocutore né il pubblico.Fu allora, quando guardai quel video,  che mi fu chiaro, leggendo nel complesso il linguaggio del corpo di Armstrong, Aldrin e Collins, che tutto era stato una menzogna, e che ciascuno di loro se ne vergognava profondamente.Dopo solo un anno dall’impresa epocale i tre eroi cui tutto il mondo volgeva lo sguardo, diedero le dimissioni.

Mi aveva anche molto colpita un servizio del giornalista investigativo Bart Winfield Sibrel (il documentario si intitola «Astronauts gone wild») che aveva , in anni successivi, tallonato i tre astronauti, ormai ritiratisi a vita privata, per chiedere loro di giurare sulla Bibbia di essere veramente stati sulla Luna (lo spergiuro è in America reato punibile con il carcere). Tutti e tre fuggono infastiditi e rifiutano; uno dei tre molla un cazzotto al fastidiosissimo Sibrel.

Ma torniamo un po’ indietro.

Una campagna di informazione e di vera e propria propaganda avevano anticipato da mesi – ma che dico, da anni – l’evento cui gli uomini di tutta la Terra stavano in quel momento assistendo. Per gli Stati Uniti era la notte fra il 20 e il 21 luglio 1969: h. 16,17 per gli Usa l’allunaggio, per l’Italia h.22,17; h.22,56 quando Armstrong posò il piede sulla Luna, in Italia h.4,56.

Ricordo l’emozione.

L’evento era stato preceduto da un’infinità di trasmissioni televisive, interviste, previsioni, dichiarazioni, ma anche da invenzioni  di storie e fumetti, per adulti e bambini: soprattutto i ragazzi, più di noi ragazze (una Cristoforetti era  ancora molto lontana) , si interessavano ai disegni tecnici, agli album che li incantavano con le descrizioni di razzi, motori, particolari e dettagli su materiali di costruzione, di tute spaziali, guanti, caschi… Sebbene probabilmente in misura assai più ridotta in Italia che negli Stai Uniti, l’aspettativa era comunque molto alta e una profonda, tenace, e indiscutibile fiducia che la conquista della Luna da parte dell’uomo potesse avvenire, pervadeva in modo generalizzato praticamente tutti: si era vissuta la fase del pieno boom economico e, malgrado alcuni segni di crisi, la fiducia nelle capacità dell’uomo e nel futuro erano proporzionali alle conquiste economiche attuate,  come lo erano verso la vita politica e  la reale possibilità di sviluppo democratico delle nazioni. 

La “colpa” iniziale di tutto andrebbe attribuita a Kennedy (per cui a quel tempo personalmente stravedevo, avendo per lui una vera cotta infantile, in cui però comprendevo anche sua moglie): fu lui a lanciare la prima pietra quando nel 1961 annunciò al mondo che gli Stati Uniti sarebbero riusciti sbarcare sulla Luna. Era una dichiarazione azzardata, dal momento che nessun uomo era stato mai mandato nemmeno in orbita, ma tant’è, grazie al Presidente la corsa alla Luna aveva avuto inizio agli occhi di tutto il mondo. Dopo la dichiarazione gli statunitensi smisero di competere solo con l’Unione Sovietica, e entrarono in competizione soprattutto con se stessi, artefici – e probabilmente in ultimo vittime, della loro stessa propaganda. In un famoso discorso al Parlamento Kennedy chiese i fondi per la corsa allo spazio, lanciando la sfida del secolo. Successivamente in un altro importante discorso pubblico chiese all’Unione Sovietica di collaborare alla conquista alla Luna, operando insieme in una sfida comune, con la congiunzione dei loro sforzi. La risposta di Kruscioff fu assai poco incoraggiante e negò che l’Unione Sovietica avesse in progetto di inviare cosmonauti «in una imprese senza adeguata protezione».

Poi per la Nasa ebbe inizio la lunga sequela di fallimenti e ne capitarono di tutti i colori prima ancora che un solo Apollo fosse lanciato nello spazio: i progetti in fase di collaudo fallivano uno dietro l’altro, finché avvenne la tragedia di Apollo 1, in cui i tre astronauti furono bruciati vivi nella capsula che avrebbe dovuto lanciarli nello spazio, mentre si trovava ancora a terra. È interessante conoscere che ben due rapporti della Nasa, in tempi successivi, il rapporto  del generale Philips, direttore del Progetto Apollo e il rapporto Baron furono estremamente critici. A parte i costi, che avevano superato ogni previsione, una serie infinita di malfunzionamenti e di disgrazie avevano condotto l’impresa verso il fallimento: vi erano problemi con l’incremento del peso della struttura. Non funzionavano il servizio di propulsione, il sistema elettrico, i serbatoi del modulo di comando (che venne distrutto in un collaudo), non funzionava il controllo ambientale, malfunzionante era il modulo del razzo Saturno, non riuscirono a risolvere i problemi con il 2° Stadio del razzo Saturno, che infine esplose, anche i razzi vettori erano esplosi pochi giorni prima della tragedia di Apollo 1, vi erano fessure e crepe nei serbatoi del carburante, vi erano perdite di carburante,  il Lem era stato progettato con cavi troppo fragili che si rompevano. Insomma, per i responsabili della Nasa era chiaro che il progetto galleggiava in acque paludose, ma forse non galleggiava affatto e la navicella spaziale rimaneva ancorata da mille problemi come una barca in un bosco. Il tempo però passava e lo scadere del decennio previsto per portare a termine l’impresa secondo le promesse volgeva al termine. 

Date queste condizioni oggettive (che però per lo più il grande pubblico non conosceva) non fu difficile supporre che l’allunaggio fosse la più grande frottola del secolo che fosse stata organizzata in modo molto efficiente in uno studio cinematografico. Il padre della teoria del complotto lunare (Moon Hoax) fu Bill Kaysing, un ex dipendente della Rocketdyne, la società che aveva costruito per la Nasa i motori utilizzati nel progetto Apollo, il quale dichiarò nel libro «Whenever went to the Moon», 1976 («Non siamo mai andati sulla luna») che la Nasa con il governo degli Stati Uniti si erano inventati una narrazione accettabile e credibile per non fare la figura dei gonzi.

Esistono molte prove che gli accadimenti  siano andati proprio così: prove riguardanti il fatto che il modulo lunare non aveva lasciato impronta  sul terreno (a differenza dei piedi); il fatto che nei filmati compaiano ombre provenienti da fonti di luci diverse (proiettori) mentre la unica fonte di luce sulla Luna dovrebbe essere il Sole;  il fatto che la camminata al rallentatore degli astronauti sia stata ottenuta con cavi e tiranti (come in un circo) di cui, ahimè si intravedono i riflessi di luce; la presenza sulle immagini di inspiegabili segni di crocette, uguali a quelle che usavano i fotografi per stabilire dove migliorare le foto, il che fa pensare  a modificazioni successive allo scatto; il leggero sventolamento della bandiera americana, che avrebbe dovuto essere perfettamente ferma in assenza di aria.  Seguono altre prove, ma quella che personalmente trovo più convincente riguarda le fasce di Van Allen: due fasce, che potremmo immaginare come due ciambelle, che avvolgono la terra  e sono formate da un’alta concentrazione di particelle cariche di elettroni e protoni, e sono fortissimamente radioattive. Come è possibile che l‘uomo abbia superato le fasce di Van Allen, se di fatto ciò rimane impossibile? All’inizio delle sperimentazioni del progetto Apollo la Nasa manifestava enormi preoccupazioni per questo problema, ma da un certo momento in poi si cominciò a minimizzare del tutto ciò che di fatto non era scientificamente minimizzabile, anzi, a non parlarne più del tutto. In seguito però si è tornati a parlare delle fasce di Van Allen come di un problema insormontabile. Sembra il gioco delle tre carte.

Allora proviamo anche noi a prenderne una, di carta. Estraiamo dal mazzo di Tarocchi la carta della Luna. Una carta priva di forme umane. Dall’alto la Luna osserva quanto avviene sulla Terra con occhi severi, socchiusi; un granchio sta uscendo da acque paludose; un cane e un lupo rivolgono lo sguardo alla luna, ululando; due torri aprono il varco verso una sorta di fine del mondo. Da una parte, quella che non vediamo, si nasconde il mondo della realtà, da questa parte, quella illustrata nel diciottesimo Arcano, sta il mondo dell’inconscio, dei sogni, dei sentimenti, cui la carta è legata. Ma è anche considerata la carta delle grandi illusioni.Forse come quella vissuta più di cinquanta anni fa. Mentre lei, la luna, è sempre la stessa. Chiusa nel suo silenzio. Potessimo chiedere a lei…

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa luna?

Pubblicato in ARTICOLI, Parole, narrazioni, illusioni, paure, Senza categoria | Commenti disabilitati su CHE FAI TU, LUNA, IN CIEL? (pubblicato su “Parole in rete”, luglio 2022

LIBERTÀ DI PENSIERO, LIBERTÀ DI STAMPA (pubblicato su “Parole in rete”, giugno 2022)

Se fin dall’inizio delle nostre pubblicazioni di Parole in rete non avessimo scelto di evitare l’uso di immagini (sempre così invadenti rispetto ai testi!) questa volta l’immagine tratta dai documenti di Reporters Sans Frontières sarebbe davvero stata efficacemente parlante: Italia al cinquantottesimo posto! Di che?

RSF è un’organizzazione internazionale che ha come obiettivo la difesa  dell’informazione. Tutti gli anni stabilisce e stila la classificazione mondiale della libertà di stampa in 180 Paesi.

L’Italia è scesa dal 41° al 58° posto della classifica, ha ulteriormente perduto terreno di libertà. Prima di noi, ai primi posti, compaiono non solo inossidabili Paesi del Nord d’Europa, come Norvegia, Danimarca e Svezia, che occupano i primi tre posti e hanno nella loro storia un consolidato processo di democrazia attiva che ha loro permesso di brillare in molti settori, ma anche altre Nazioni, di assai più  recente avvicinamento allo status di paesi realmente democratici, con substrati culturali assai meno interessanti di quello che noi attribuiamo alla nostra amata Italia.

Ma quali sono, secondo Reporters Sans Frontières, le ragioni della nostra retrocessione? La libertà di stampa  da noi in «continua a essere trattenuta da organizzazioni criminali, particolarmente al Sud del Paese, come anche da gruppi che usano violenza e che hanno visto un significativo aumento durante la pandemia». Quanto al contesto politico, RSF afferma che i giornalisti italiani nel loro insieme lavorano in un clima di libertà (quantomeno apparente, io aggiungerei), ma cadono volentieri «nella tentazione di autocensurarsi, per conformarsi alle linee politiche dell’organizzazione editoriale».

Il quadro legale, secondo RSF, soffre di una certa paralisi che impedisce o rallenta l’approvazione di disegni di legge idonei a preservare e migliorare la libertà giornalistica. D’altronde,  il pericolo di diffamazione scoraggia scelte che richiederebbero una certa audacia. Anche il contesto economico non aiuta, a causa del processo di precarizzazione della professione, che necessariamente limitano l’esercizio, il vigore e soprattutto l’autonomia del giornalista.

La mancanza di coraggio si è ampiamente manifestata negli ultimi anni, nella narrazione della pandemia e, oggi, nella narrazione della guerra in Ucraina, dove non vi è proprio nessuna possibilità, in seno ai mainstream, di esprimere opinioni e riflessioni che si dissocino dalla versione ufficiale sostenuta dal governo. Impossibile per i giornalisti dipendenti  o collegati con i media mainstream esprimere dubbi, perplessità, tentare ragionamenti finalizzati a nuove aperture della mente nei confronti dei problemi, degli eventi in corso, impossibile persino offrirsi in ruoli di conciliazione fra parti opposte. Vietato interrogarsi, vietato avere un’intelligente posizione di studio e di ricerca, vietato usare forme di pensiero laterale, vietato persino tentare di disegnare la complessità dei fenomeni: la narrazione odierna degli accadimenti è uniformemente armata, porta la stessa divisa, disconosce sia il dialogo sia l’ascolto. Qualunque comunicatore, o giornalista, o filosofo abbia tentato di illustrare un ragionamento in sede di un mainstream non ha avuto la possibilità di portarlo a termine, ha dovuto lottare con interruzioni continue ed è stato seguito da dileggi e sarcasmo.

Se la libertà scarseggia nei media tradizionali e sulla carta stampata (sempre più asservita a logiche di potere e di mercato) si è affermato invece il nuovo sistema di produzione e di distribuzione dell’informazione attraverso Internet, dove la libertà è molto più ampia, ma che è assoggettata ai motori di ricerca e ai social media, sottoposta al loro giudizio e alla loro ben conosciuta capacità di censurare. È vero che la Rete rappresenta, rispetto alla produzione,  il massimo dell’apertura, ma è anche vero che la distribuzione dell’informazione è  – ancora una volta! – in mano a pochi, cosa che incide profondamente, sia in via teorica che di fatto, sulla reale libertà di informazione. Vero è che la libertà di espressione espressa attraverso la Rete non trova paragone  nei mezzi tradizionali. Non dimentichiamo che la convergenza del pensiero unico intorno a una norma e il suo annidarsi nei media, contribuisce a rinforzare la repressione di opinioni difformi: ha sempre preluso, nella storia, a forme di dittatura.

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HIC SUNT LEONES (pubblicato su “Parole in rete”, giugno 2022

L’uomo ha sempre tentato di immaginare il mondo, di disegnarlo e di riprodurlo su carta, o inciderlo su pergamena o pelle o legno. Le mappe antiche riportavano un disegno, frutto in parte di impegno immaginativo e in parte di conoscenza esperienziale. Dove mancava in ogni modo conoscenza diretta si interveniva colmando spazi sconosciuti con personaggi mitologici, elementi biblici  e  esotiche infarciture; là dove non si poteva proprio introdurre nulla proveniente da leggenda, fantasia e mito si risolveva con una scritta che avrebbe dovuto far tacere ogni ulteriore  curiosità : «Hic sunt leones», o peggio: «Hic sunt dracones».

Quando noi osserviamo oggi le mappe storiche stentiamo a una semplice osservazione a capirci qualcosa. Le difficoltà sono oggettive. Prendiamo per esempio una delle prime mappe stilate nel cuore del Mediterraneo, a sua volta cuore del mondo. Siamo in Sicilia, a Palermo,  dove alla corte normanna del regno di Ruggero II, che rappresentò un punto apicale di convivenza di genti, di culture e di fedi diverse, viveva e lavorava Al – Idrisi, che completò la sua mappa  su lastra d’argento nel 1154. Certo, il centro del mondo rappresentato non poteva che essere il regno di Ruggero, ma…. la mappa è rispetto a quelle che oggi siamo abituati a guardare, rivoltata sottosopra. Il Sud è posizionato in alto, il Nord in basso.

Non è l’unica mappa conosciuta a essere orientata così, ma è sempre un piccolo shock osservarla.

A un certo punto della storia, almeno fino al Cinquecento, carte nautiche e mappe prendono strade che rispondono a necessità diverse, sebbene complementari: da una parte  la mentalità concreta dei navigatori e dei mercanti che viaggiano per mare pretende carte nautiche  precise e affidabili; dall’altra il mondo della cultura ha bisogno sia di immaginare sia di educare, soprattutto in senso religioso. I cartografi legati alla cultura clericale non possono fare a meno, nel disegnare le loro mappe, di riferirsi a concetti divini, a entità sovrannaturali; papi, re, signori non resistono alla tentazione della funzione pedagogica, così infarciscono le mappe di concetti astronomici e geografici, come le direzioni cardinali, o inerenti flora e fauna, con piante e animali;  tutti si sentono autorizzati a inzuppare nelle citazioni , siano esse mitologiche, bibliche, o appartenenti alla cultura tradizionale. Spesso i mari e le terre sconosciute divengono proiezioni di sogni: sogni di ricchezza, di spezie e rarità, di erbe e animali fantastici.  Questi tipi di mappa diventano  preziosi documenti da conservare nei templi, nelle chiese, nei castelli, nei palazzi vescovili: sorta di enciclopedie ante litteram, in cui fantasia e realtà si mescolano, fuor di metafora, su un unico piano descrittivo. Erano, in buona sostanza, narrazioni.

Perfettamente inutili per chi viaggiava per mare, che cercava mappe affidabili al timone.

Con questo scopo nasce una delle mappe maggiormente conosciute, così ben ben conosciute che… sono quelle che usiamo ancora oggi. Relegate le cianfrusaglie nelle mappe custodite nei monasteri, in una sorta di parallelismo funzionale, altri cartografi lavoravano ai portolani. E al portolano spesso il marinaio affidava la vita: angoli di navigazione, rotte, porti, coste e  punti di attracco, insidie dei fondali.

La mappa di Mercatore  (pseudonimo del fiammingo Gerhard de Kremer) era stata tracciata con lo scopo principale di agevolare le rotte delle navi: infatti è un tracciato rispettoso degli angoli fra i segmenti che uniscono le linee orizzontali e quelle verticali, vale a dire paralleli e meridiani. Il marinaio che misuri sulla carta l’angolo della rotta e lo rispetti al timone è certo di arrivare alla propria meta. Malgrado il pregio marinaresco questo tipo di mappa ha tuttavia un difetto evidente di altro genere: distorce la proporzioni fra  le superfici dei continenti e le terre geografiche. 

Una sfera, si sa, non è srotolatile su un foglio bidimensionale, bisogna immaginare di impacchettare in un foglio la sfera e srotolarla su un cilindro. Poi ci sono altre esigenze: le distanze fra due luoghi in realtà e sulla carta dovrebbero essere corrispondenti; anche le superfici delle zone dovrebbero essere proporzionali alla realtà, inoltre le forme dovrebbero essere correttamente rappresentate: tutte necessità che non si possono soddisfare contemporaneamente e in egual misura.

Noi tutti usiamo comunemente, ancora oggi, la mappa di Mercatore: è ancora quella che vediamo nelle scuole e nelle biblioteche, che colora le pagine dei nostri atlanti e rotea sui mappamondi, che tanto ci facevano sognare da bambini.. Soddisfa l’isogonia ma distorce le grandezze e deforma le superfici a mano a mano che ci si avvicina ai Poli e ci si allontana dall’Equatore. A proposito dell’Equatore: da cinquecento anni circa si delibera la scelta di disegnarlo spostandolo più in basso: in conseguenza di ciò le aree dell’Emisfero Sud risultano rimpicciolite (si presentano in uno spazio più piccolo); quelle dell’Emisfero Nord viceversa sono ingrandite. Sud America, Africa, India appaiono più piccoli di quanto siano in realtà; Groenlandia, Cina, Stati Uniti, Russia ci appaiono giganti.

Così, nelle carte che noi abitualmente usiamo (e sono sempre mappe di Mercatore, con piccoli aggiustamenti), vediamo ad esempio la Groenlandia molto più grande dell’Africa, mentre quest’ultima è nella realtà quattordici volte più grande dell’altra. Inoltre la proiezione provoca un’immagine molto molto espansa in vicinanza dei Poli e un rimpicciolimento delle aree delle zone equatoriali.  Al centro della mappa campeggia la vecchia Europa, politicamente dominante sul mondo al tempo della prima stesura della mappa  (1569) e regina delle sue colonie.

Se noi pensiamo che i mappamondi  o le carte geografiche che normalmente usiamo, e che abitualmente sono appese alle pareti delle nostre aule scolastiche, siano un rappresentazione oggettiva del mondo, ci sbagliamo. Non è semplicemente irrealistico mettere ancora oggi l’Occidente al centro del planisfero, o mostrare un piccolo sputacchio di Somalia al confronto dell’Italia ( 637.657 chilometri quadrati la prima, 302.073 chilometri quadrati la seconda): è un atto politico con cui ci piace consolidare l’idea di un mondo  in cui l’Occidente si muove ancora, oggi più che mai, in modo imperialistico – almeno e non solo in senso culturale. Oggi conosciamo bene i difetti rappresentativi di quella mappa, e se ad essa sono seguiti nuovi e più corretti modi di rappresentare, tuttavia essi non sono stati universalmente adottati. Qualcuno certamente se ne stupirà e stenterà a crederlo. Immediatamente citerà ad esempio Google Maps e la visione dall’alto ottenuta con il satellite. Invito tuttavia queste persone a verificare: per sua stessa ammissione Google Maps usa i fondamenti della carta Mercatore.

Avete mai pensato  che per esempio in passato l’atto di colonizzare una India sminuita nelle sue dimensioni territoriali possa essere sembrata moralmente meno deprecabile? Forse le dimensioni subalterne portano in qualche modo a giustificare la subalternità culturale e economica che i Paesi privilegiati intendono imporre a altri Paesi. Che i conquistatori si sentano meno colpevoli?

Certo, la permanente volontà di continuare a usare la carta Mercatore la dice lunga.

Perché non scegliere in alternativa  la carta di Peters? Redatta da Arno Peters e pubblicata nel 1973 rappresenta il mondo nelle giuste proporzioni. Peters ha suddiviso il mondo in 100 parti orizzontali e 100 verticali; nella sua versione originaria 1 centimetro quadrato corrisponde a 63.550 chilometri quadrati. Peters aveva un obiettivo ideale: donare al mondo (forse sarebbe il caso di dire restituire al mondo) una mappa giusta, egualitaria, capace di restituire dignità a quei paesi che la perdevano nella rappresentazione di Mercatore e ai popoli che abitavano le terre penalizzate da un disegno concettualmente distorto e dunque sminuite  nella considerazione  dei lettori/ fruitori. Sostanzialmente la logica di Peters era anticoloniale.

Eppure a circa 40 anni di distanza la piccola ma importante rivoluzione di Peters è una rivoluzione fallita: la cartografia contemporanea rimane arroccata a una rappresentazione del mondo di più di quattrocento anni fa, ribadendo in questo modo una scelta ideologica. Se Europa e Stati Uniti continuano a campeggiare sui mappamondi e sulle carte geografiche appese sulle pareti delle nostre scuole, sugli atlanti e i mappamondi di casa, suggerendo inconsciamente, ma in modo stabile e duraturo, che possa essere legittimo imporsi ideologicamente (e non solo) al resto del mondo (quello che si vuole  rendere più piccolo), propagandando in modo silente ma quanto mai efficace che alcuni popoli, in primo piano, siano spontaneamente portati ad assumere le redini  e ad arrogarsi la propria supremazia, suggerisce che le mappe possono essere strumenti molto pericolosi. Il mondo così rappresentato è il reale mondo dei dragoni.

Forse faremmo meglio a usare la dicitura «Hic sunt leones»: sapremmo dove metterla.

Pubblicato in ARTICOLI, Parole, narrazioni, illusioni, paure, Senza categoria | Commenti disabilitati su HIC SUNT LEONES (pubblicato su “Parole in rete”, giugno 2022

FACCIAMO GLI INDIANI? (pubblicato su “Parole in rete”, aprile 2022

Che la mitraglia sia strumento di guerra si sa, e gli effetti li constatiamo ampiamente, da quando la vediamo in uso metaforico su ogni schermo, all’opera per orientare contemporaneamente e uniformemente il messaggio di tutti i mainstream  italiani, europei e statunitensi alle prese con la questione ucraina. È stata fatta tabula rasa affinché non si potesse sparare il benché minimo colpo di pensiero diverso dal pensiero unico universalmente proposto: qualunque giornalista abbia provato a sparare qualche pallino di pensiero (anche piccolissimo, per carità), sollevando qualche parola di dubbio, è già stato cacciato. Come in una vecchia pellicola di film western l’unica visione dei fatti  proposta non mette in dubbio che gli unici cattivi non possano essere che gli indiani. Il film è mandato in onda contemporaneamente su tutte le reti, quasi con le stesse parole, immagini simili e identici richiami agli aspetti deteriori dell’emotività,  così che la realtà fruibile nell’informazione non possa essere che una. 

Anche quando da bambini giocavamo con cugini e amichetti ai “cowboys e agli indiani” io ero l’unica che voleva stare dalla parte dei perdenti e preferivo arco e faretra a cavalli e pistole: oggi, da vecchia, non sono molto cambiata, e come allora mi chiedo se la narrazione la si conti giusta. Constato che la mossa propinata dai cowboys, oggi come allora, è risistemarela storia, per farla dimenticare, naturalmente.

Così oggi la visione filoamericana delle vicende attuali ha un’amnesia provvidenziale nei confronti degli impegni presi a suo tempo da Stati Uniti nei confronti di Mosca. Si era nel 1990, febbraio, quando James Baker, Segretario di Stato in colloquio con Gorbaciov usò (per tre volte, come il canto del gallo) l’espressione «not one inch eastward»: non un pollice in direzione est. L’impegno reciproco fra paesi occidentali e Mosca era che la Germania fosse l’unico Paese dell’ex patto di Varsavia a entrare nella NATO. Ma la storia andò poi diversamente. Infatti dal 1999 al 2004 è terminato l’ingresso del primo pacchetto di paesi:  Bulgaria, Estonia Lettonia, Lituania, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Ungheria. Poi sono entrate Albania e Croazia; nel 2017 Montenegro, nel 2020 Macedonia del Nord.

Negli archivi della National Security sono presenti una trentina di documenti risalenti fino al 1990, i quali riportano la trascrizione di conversazioni durante le quali furono date ai leader sovietici rassicurazioni contro l’espansione della NATO  da parte di Baker, Bush, Genscher, Kohl, Gates. Mitterand, Thatcher, Hurd, Major, Werner (sono reperibili sul sito nsarchive.gwv.edu). Il 6 marzo 1991 i rappresentanti di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, firmarono, in seguito a un colloquio definito “ 2 più 4”, un documento  in cui di affermava sostanzialmente la necessità di tracciare un confine, coincidente con il fiume Older fra Germania e Polonia,  oltre il quale la NATO non avrebbe mai dovuto spingersi in direzione est. Nello stesso documento di dichiarava l’inopportunità di concedere alla Polonia (che l’aveva richiesta) l’adesione alla NATO: non era possibile «concedere alla Polonia o a altre Nazioni dell’Europa Centrale la possibilità di aderirvi».  Nello stesso documento si faceva riferimento esplicito alla «promessa ufficialmente fatta al’Unione Sovietica che la NATO non doveva espandersi e non si sarebbe espansa verso est «né formalmente né informalmente».

Nel 2014 Kissinger affermava sul Washington Post: «L’Ucraina deve sopravvivere e prosperare… non deve entrare nella NATO». 

Malgrado tutti gli accordi precedenti, alla richiesta dell’Ucraina di diventare membro della Nato, il vertice di Bruxelles nel 2021  ha deciso che  sarebbe stata accettata come membro e ha avviato il Piano d’azione per l’adesione.

C’è di più. Due giorni fa (8 aprile 2022) abbiamo ascoltato: «Faremo il possibile per supportare l’Ucraina, per fare tutti i passi necessari”, ha detto la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, in visita a Kiev. «Sono qui oggi anche per parlare con il primo ministro Šmihal e con il presidente Zelensky anche in merito alla possibilità di annessione all’Ue. Non c’è solo l’Unione europea, ma anche gli Stati Uniti, il G7, il Canada e il Regno Unito. Faremo il possibile per supportarvi. Tutto il mondo vi supporterà in questa lotta esistenziale».  

Ma Von Der Leyen non era a Kiev solo per fornire il messaggio edulcorante, ma per una ben più importante missione. Infatti portava con sé un questionario che ha consegnato nella mani di Volodymy Zelenski per valutare le condizioni di Kiev circa l’adesione dell’Ucraina alla Unione Europea (domanda di adesione presentata  il 27 febbraio, tre giorni dopo lo  scoppio della guerra). Anche sulla faccenda del questionario la Von Der Leyen ha rassicurato che, malgrado solitamente ci vogliano anni per accettare un’adesione, in questo caso lei stessa si sarebbe impegnata perché fosse fatto «il prima possibile».

Che cosa accadrà dopo l’ingresso nella UE dell’Ucraina, Paese in guerra?

Non dimentichiamo che il Patto Atlantico, di cui la NATO è l’Organizzazione Internazionale, stabilisce all’articolo 5: «Le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti, e di conseguenza convengono che se un tale attacco si producesse, ciascuna di esse, nell’esercizio del diritto di legittima difesa, individuale o collettiva, riconosciuto dall’ari. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell’Atlantico settentrionale. Ogni attacco armato di questo genere e tutte le misure prese in conseguenza di esso saranno immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza. Queste misure termineranno allorché il Consiglio di Sicurezza avrà preso le misure necessarie per ristabilire e mantenere la pace e la sicurezza internazionali».

Quanti di noi si rendono conto del futuro che ci aspetta?

A proposito di indiani,  diceva una preghiera Comanche: 

«Oh, grande spirito, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, e il coraggio di cambiare le cose che posso cambiare!»

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Pubblicato in ARTICOLI, Parole, narrazioni, illusioni, paure, Senza categoria | Commenti disabilitati su FACCIAMO GLI INDIANI? (pubblicato su “Parole in rete”, aprile 2022

GENERAZIONE DI CORPO E ANIMA. TRA DANTE E ARISTOTELE (pubblicato su “Parole in rete, marzo 2022)

Nel mio libro Sulle tracce della Dea che Nuova Ipsa Editore pubblicò nel 2018 mi sono fermata a raccontare, in parte con toni scherzosi, il processo di generazione umana secondo la concezione di Aristotele. In quel saggio, nel seguire le tracce lasciate dalle più antiche  divinità femminili fino a noi, ho esaminato molti passi di disgregazione e degradamento della grande dea primeva, da cui ha avuto origine l’umanità, fino all’avvilimento progressivo del ruolo femminile sia in senso sacrale sia in senso sociale.

Nel processo generativo Aristotele attribuisce al seme maschile la funzione di agente attivo, alla donna e al suo apparato riproduttivo un ruolo passivo: essa si limita a fornire la materia per formare la nuova vita; il maschio, avente invece virtù formativa, agisce sul sangue uterino della femmina, tramutandolo in essere vivente. La donna è semplice fornitrice del materiale, riveste in pratica (è noto paragone) il ruolo della creta fra le mani del vasaio. 

Questa storica concezione della generazione che vedeva l’uomo come unico riproduttore di vita (l’uomo è Padre) non lascia invece spazio all’attività della madre che, non possedendo ruolo attivo, resta semplice materia: è solo merito del seme virile il trasformare la materia da potenza in atto. 

Questa drastica relegazione del contributo femminile a pura funzione materiale ha avuto conseguenze incommensurabili nella storia dell’umanità e ha inciso profondamente per secoli nel definire la significativa assenza di peso (e di diritti) della figura femminile nella società. L’ombra della teoria aristotelica ci perseguita ancora oggi.

Così è sempre un gran dispiacere personale avvicinarmi alle pagine di Dante in cui l’amato autore riprende le teorie aristoteliche, aprendo in tal modo una ferita nell’amore per la sua figura e per la sua poesia. Ma tant’è: Dante è anche questo. Stazio si staglia all’improvviso di fronte a Dante e al suo accompagnatore nella quinta cornice del Purgatorio, fra coloro che si sono macchiati del peccato di prodigalità., si presenta come Stazio e dice di essere  autore della Tebaide e della Achilleide (rimasta incompiuta a causa della morte dell’autore). Aggiunge che l’ispirazione poetica gli venne dall’Eneide.  Allora l’accompagnatore di Dante svela di essere proprio lui Virgilio.  Più avanti, nel Canto XXV,  Stazio espone la teoria della generazione, riprendendo la teoria aristotelica: il corpo umano viene formato dalla fusione del sangue attivo dell’uomo e di quello passivo della donna. Il sangue maschile, sotto forma di sperma,   infatti, «scende dov’è più bello / tacer che dire», cioè «in natural vasello». Poi continua: «Ivi s’accoglie l’uno e l’altro insieme, / l’uno disposto a patire, e l’altro a fare / per lo perfetto loco onde si preme; / e, giunto lui, comincia a operare / coagulando prima, e poi avviva / ciò che per sua matera fe’ constare».

È questa fusione  (coagulo) a determinare nel feto l‘anima vegetativa, simile a quella delle piante ma che nell’umano continua a svilupparsi producendo gli organi di senso e estendendosi in ogni parte del corpo , andando a formare l’anima sensitiva: («…già si move e sente, / come fungo marino»). Poi, appena è formato il cervello, Dio infonde l’anima razionale, che va a costituire una indissolubile unità con l’anima vegetativa e quella sensitiva, come il raggio di sole unito all’umore della vite produce il vino. Quando poi l’uomo giunge al termine della vita («Quando Lachesis non ha più del lino…»– Lachesi è la parca che fila lo stame della vita) l’anima esce dal corpo, portando con sé l’umano e il divino, vale a dire le facoltà intellettive con quelle sensitive, ma mentre le facoltà sensitive rimangono inoperose, quelle intellettive si acuiscono, proprio perché libere da corporeità. Finalmente sciolta dal corpo l’anima può seguire la via verso cui Dio la manda.

Pubblicato in ARTICOLI, Dante intrigante, Senza categoria | Commenti disabilitati su GENERAZIONE DI CORPO E ANIMA. TRA DANTE E ARISTOTELE (pubblicato su “Parole in rete, marzo 2022)

ANIMALI E FORME DI CORRUZIONE IN DANTE (pubblicato su “Parole in rete”, febbraio 2022)

Fin dalla prima Cantica della Commedia campeggiano le figure degli animali, che poi si distribuiranno in varie forme, di cui alcune mostruose, lungo tutto il percorso del Poema. Sbarrano il percorso del Poeta nella Commedia le notissime tre fiere, che si oppongono al suo cammino una dopo l’altra: lonza, leone, lupa.

La fiera rimanda a tempi preistorici in cui l’uomo doveva contro di essa combattere per conquistare spazio di vita e cibo, e soprattutto difendere la propria vita fisica: appartiene  dunque, dal punto di vista della storia dell’umanità, a un preistorico piano materiale. Quando l’uomo non ebbe più necessità di cacciare le fiere per difendere la propria corporeità trasferì la memoria della sua antica tappa evolutiva in forme ritualizzate, fra cui ci vengono subito in mente gli spettacoli delle venationes nella Roma antica. Nell’uso rituale degli animali feroci non dobbiamo dimenticare che alle fiere negli anfiteatri romani venivano dati spettacolarmente in pasto sacrificale alcuni condannati a morte; fra questi una speciale preferenza sembrò andare, a un certo punto della storia, ai cristiani.

Dunque nella prima Cantica si oppone a Dante e al suo percorso evolutivo il nemico materiale, forse più in generale un piano materiale, di cui le fiere sono rappresentazione allegorica.

Più incerta è per noi l’identificazione della lonza, ma non per Dante (né per il suo maestro Brunetto Latini), frequentatori dei bestiari; la lonza  in ogni modo  dovrebbe rappresentare la lince, che Dante nel corso della sua vita ebbe modo di vedere non solo in forma cartacea, ma anche all’interno di una gabbia dove era rinchiusa. La tradizione interpretativa classica vede i commentatori di Dante per lo più d’accordo sul fatto che l’animale di cui abbiamo parlato, la lonza, rappresenti la lussuria, il leone la superbia, la lupa la cupidigia (o avarizia) non solo di beni materiali ma anche di riconoscimenti e onori.

Una interessantissima interpretazione ci viene offerta da Giovanni Pascoli, che si addentra nelle «tre disposizioni cattive» rappresentate dalle tre fiere, punite all’Inferno nello stesso ordine in cui le tre bestie feroci si presentano; ci spiega che il riferimento di Dante va a Cicerone che divide la malizia in vis e fraus. Ma è Luigi Valli, studioso dell’opera di Giovanni Pascoli su Dante, a approfondire la spiegazione: la lonza, primo animale incontrato dal Poeta, rappresenta l’incontinenza o corruzione dell’appetito, ma «la corruzione dell’appetito», dice «diventa facilmente corruzione della volontà, e poi corruzione dell’intelletto» (Luigi Valli, La chiave della Divina Commedia, Luni Editrice 2021). La corruzione della volontà si presenta sotto forma di leone (bestialità, malizia accompagnata da forza); poi la corruzione dell’intelletto si presenta come lupa (malizia con frode).

Ogni fiera sparisce, ma è inglobata in quella che segue: «Il leone contiene la lonza e la lupa contiene il leone, perché la corruzione della volontà implica quella dell’appetito e la corruzione dell’intelletto quella della volontà e dell’appetito» (Valli, L’allegoria di Dante secondo Giovanni Pascoli, Bologna, 1922).

Il peccato più lieve, dunque, sarebbe l’incontinenza o amore del falso bene: l’incontinenza infatti può soltanto corrompere l’appetito (è appetito corrotto), ma diventa bestialità, o corruzione di appetito e di volontà, sotto forma di leone; infine la volontà diventa malizia (o ingiustizia) aggiungendosi anche la corruzione dell’intelletto, in forma di lupa.

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UN PO’ DI ZUCCHERO NEL CAFFÈ? BUON ANNO

Noi sappiamo che il Covid 19 era un disastro previsto. E era anche annunciato da molti documenti redatti da persone e gruppi che non nascondevano di conoscere quanto sarebbe avvenuto. Già nel settembre 2019 Fauci pubblicava uno studio in cui presentava l’ipotesi di una pandemia pericolosa. Anche l’Oms, sulla base – si diceva – della diffusione di una malattia a carattere epidemico presagiva scenari pandemici. Il World Economic Forum e la Bill and Melinda Gates Foundation organizzarono insieme  Event 201, simulazione di una pandemia globale dovuta a un coronavirus trasmesso all’uomo dai pipistrelli, che  si tenne al Johns Hopkins Center for Health Securiity. Come è ovvio in seguito negarono che ci fossero coincidenze fra la pandemia che si era scatenata nella realtà e quella simulata… Ora siamo arrivati al 2022 e credo possano rimanere pochi dubbi sull’efficacia offerta dal Covid 19, dall’inizio della pandemia a oggi, nel consentire di aumentare, con la scusa dello stato di eccezionalità, il controllo politico della popolazione, nel diminuire la privacy e nel realizzare lo spostamento della democrazia  verso una direzione più autoritaria: lo stato di emergenza sanitaria continua a spalancare le porte al controllo e alla sorveglianza. Da pochi giorni in Italia si è arrivati a un nuovo punto, che ha ulteriormente ristretto la possibilità dei singoli di operare scelte per la propria salute, con l’obbligo della vaccinazione di fasce di popolazione secondo criteri di età. Finora l’escalationvaccinale aveva investito soprattutto funzioni e ruoli lavorativi: da ora la linea di taglio dividerà i giovani dai vecchi (e conterà ben poco non sentirsi tali). La nuova disposizione si mangerà un’altra fetta di libertà dei cittadini, e la resistenza sarà sempre più lieve. Mentre ciascuno si predispone (più o meno) alla propria n-dose di vaccino  che continua a essere sperimentale, ci chiediamo che cosa ci riserverà questo 2022 appena iniziato. Perché non seguire anche noi di Parole in rete il gioco delle previsioni per il periodo che verrà? Non saremo noi ad esprimerle, secondo la nostra intuizione e immaginazione: ci affideremo al pensiero e alle parole di eminenti personaggi, che non hanno lesinato né negli ultimi anni né negli ultimi mesi, l’esternazione della loro concezione del mondo.

Prevalgono senz’altro personaggi legati al mondo informatico, sempre vincente e destinato a stravincere. Penso innanzi tutto a Raymod Kurzweil, informatico, inventore e pioniere in molti aspetti dell’informatica, ingegnere capo della Google; in passato profetizzò la diffusione del wifi, o la diffusione delle transazioni finanziarie al computer… più recentemente la sua previsione riguarda un momento del futuro in cui i progressi tecnologici si susseguiranno uno all’altro in modo talmente veloce che avranno un effetto «disarticolante» sull’organizzazione sociale degli umani: quel momento sarà il punto che segnerà la fine di una storia dell’uomo e l’inizio di un’altra, completamente diversa. Ecco che gli uomini saranno potenziati da Intelligenze artificiali: essi, uomini e macchine insieme, diverranno le forze senzienti della terra; le Intelligenze artificiali diverranno capaci di ridisegnare se stesse e il progresso tecnologico avrà sviluppo esponenziale (non lineare). Si realizzerà una fusione (di cui Kurzweil non vede che l’aspetto positivo) tra intelligenza umana e intelligenza artificiale, fra uomo e macchina, che consentirà un enorme sviluppo dell’intelligenza umana. 

Il momento in cui l’anima umana si unirà allo strumento tecnologico viene da lui definito «singolarità». Il processo di transumanesimo come superamento delle «limitazioni biologiche» dell’uomo è in atto ed è, secondo lo scienziato, un processo del tutto positivo. Quanti di noi sono altrettanto disponibili a crederlo? Non posso che lottare con le mie resistenze personali, sebbene venga colta da parecchi dubbi; mi chiedo quanta parte di transumano ci sia in noi. Dopo tutto ci sottoponiamo da una vita all’inoculamento di  vaccini, prendiamo integratori e medicine, siamo stati alleggeriti da appendici, cistifellee, formazioni sgradite di vario genere cresciute indesideratamente nel nostro corpo, usiamo spirali e altri mezzi anticoncezionali, indossiamo gli occhiali, qualcuno, ahimè, anche l’apparecchio acustico, senza contare gli impianti dentari, i by-pass, gli stent inseriti nelle coronarie, protesi di vario genere sparse sul territorio del corpo umano:  possiamo dire di essere del tutto umani? Ci vuole un bel coraggio!

Un altro personaggio si affaccia sulla strada del transumanesimo: il magnate Elon Musk, che lavora tuttora al perfezionamento di un progetto di impianto di un chip nel cervello umano: il Neuralink. L’ambizione è quella di arrivare alla «cognizione sovrumana». Naturalmente il progetto desta molti dubbi, sebbene Musk punti al miglioramento del ragionamento umano ma anche di quello della salute. Il Neuralink sarebbe una interfaccia fra cervello umano e computer: un microchip degno delle narrazioni fantascientifiche (ma qui del tutto reale) che andrebbe impiantato nel cervello umano. Non sono finora stati palesati sperimentazioni sull’uomo, solo su una maialina di nome Gertrude. Auguri a Gertrude.

«Welcome to 2030» è il titolo di un intervento pronunciato da Ida Auken, ex ministro dell’Ambiente danese al penultimo World Economic Forum. È un discorso strutturato come una lettera proveniente dal futuro ma è, come dice l’autrice, «uno scenario che mostra dove siamo diretti». Il sogno di Ida, utopico per lei, distopico e terrorizzante per noi, inizia così: «Non possiedo nulla. Non ho un’auto. Non ho una casa….». La poveretta, secondo la nostra visione- s’intende, dice di vivere in una città dove l’abitazione personale «è in uso a altri ogniqualvolta ne abbiano bisogno»  Nel suo folle scenario la sciagurata non possiede neppure una pentola per cucinare, ma gli utensili di cucina vanno noleggiati e vengono consegnati alla sua porta in pochi minuti quando ne ha bisogno. Immaginate: voi venite a trovarmi in una casa X (non posso dire casa mia perché non lo sarebbe); io vi propongo un caffè; voi accettate. A questo punto immagino di dover fare l’ordinazione di noleggio di una caffettiera, magari anche del caffè e dello zucchero, se lo prendete dolce… e qui mi areno:  solo Totò potrebbe farcela. Va detto che nel corso della lettera la scriteriata Ida ammette qualche fastidio per la mancanza di privacy «non solo in tutte le azioni, ma addirittura nel pensiero e nei sogni». No comment.

La lettera ha avuto, come si può immaginare, grande risonanza. Una curiosità: il documento è stato depennato, è sparito dai documenti pubblicati sul sito del WEF, dove rimasto disponibile per molto tempo. La chicca è comunque disponibile su molti siti. Fra le previsioni di cui abbiamo parlato fin qui è certamente la più odiosa, perché si infiltra pericolosamente nelle nostre piccole certezze quotidiane, creando un profondo sconforto che, vi assicuro, aumenterà se leggerete tutto il documento originale.

Per consolarsi non ci rimane che il cibo. Sì… Ma… forse… E non tanto perché lo spettro della ciccia ci perseguita e nemmeno per quello degli insetti, che ci inseguono pretendendo di entrare nella nostra bocca: c’è di peggio. Una certa sensazionalità  ha suscitato l’intervento di uno scienziato svedese al Summit Gastronomico svedese, quando i giornalisti hanno cominciato a far circolare la parola cannibalismo. Devo essere sincera: mi sento di dover smentire l’interpretazione sensazionalistica che alcuni colleghi giornalisti hanno proposto, un po’ dovunque, delle parole di Magnus Süderlund, professore al Dipartimento di Marketing e Strategia alla Stockholm School of Economics; ho avuto modo di avvalermi di una corretta traduzione dallo svedese dell’intervento del ricercatore: in realtà le sue parole sono molto moderate e asettiche. Nell’intervista in questione Süderlund afferma di essere interessato a ricercare metodi non tradizionali di approvvigionamento del cibo: tra essi, la carne umana. Il professore dice di essere interessato a indagare l’attitudine, l’aspetto psicologico del mangiare carne umana. Ammette che ci sono un sacco di tabù da rompere. «Che cos’è che rende il cannibalismo un tabù e fa reagire le persone con disgusto al mangiare carne umana?», domanda l’intervistatrice.«I corpi devono essere morti», risponde lo scienziato, ma ammetto di non capire né dal tono della voce né dall’espressione facciale se la risposta comporti un quid di ironia; spiega in ogni caso che dopo la morte le persone vicine allo scomparso desiderano onorare «un corpo morto». Vi è un’ultima ragione, ed è conservativa: la gente non vuole mangiare cose che non conosce. L’intervistatrice fa riferimento all’alimentazione con insetti: «molto meno popolare di quanto viene raccontata», almeno in occidente. Ribadita la necessità di ricercare in tutte le direzioni, quando si tratta di trovare risposte per la sostenibilità e l’ambiente, ci conforta un pensiero fondamentale di Süderlund, quando dice che «(l’atteggiamento dei consumatori) rende molto difficile la strada per il business di chi vuole lanciarsi nel commercio di carne umana». Meno male che la scarsa appetibilità della carne umana per gli affaristi (scusate il gioco di parole) ci preserverà, almeno per un po’.

Bene, dunque facciamo il punto sulle previsioni sull’anno e sul futuro a venire:

* saremo sottoposti a in gran numero alla somministrazione (in parte forzata) di un vaccino del tutto sperimentale i cui risultati sono attesi per la fine del 2023;

* Saremo ibridati con le macchine ;

* Non avremo più una casa (e, peggio ancora, io non potrò offrirvi il caffè);

* Ci attende un microchip sotto pelle;

* Mangeremo insetti (e forse qualcos’altro).

Buon anno!

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DANTE E LA MADRE TERRA

Walter Arensberg, collezionista d’arte del ‘900 di origine statunitense,mecenate, poeta e studioso, pubblica nel 1921 a New York The Cryptography of Dante, un testo la cui dedica è rivolta a Bella «la madre perduta e infine ritrovata della Divina Commedia». Bella (Bella degli Abati) era il nome della madre di Dante, e in lei l’autore del testo crittografico individua l’identificazione con Beatrice: è la prima volta che avviene nella storia della critica letteraria su Dante. Precedentemente alcuni commentatori avevano individuato nella figura di Beatrice alcune caratteristiche materne; qualcuno era giunto ad affermare che Dante aveva attribuito a Beatrice alcune caratteristiche che egli ricordava di sua madre, morta molto presto; inoltre erano state avanzate alcune interpretazioni di tipo freudiano su Beatrice, ma niente di più: Arensberg va oltre e afferma  che l’identificazione di Bella con Beatrice sia per Dante del tutto intenzionale. 

Arensberg fonda la sua teoria sul reperimento di un gran numero di criptogrammi che rivelano insospettati simbolismi. Afferma l’Autore: «I crittogrammi sono le prove del significato nascosto della Commedia». Le prove includono, secondo lo studioso, il simbolismo di un universo antropomorfico, nel quale Beatrice, da identificarsi con Bella, viene concepita come incarnazione della Madre Divina, universale, mentre Dante stesso è concepito come incarnazione del Figlio Divino, universale.

Ma che cos’è un crittogramma? «Una deliberata sistemazione di parole, lettere, numeri, altri segni idonei a nascondere un significato diverso da quello apparente», ci risponde l’autore stesso. Nella Divina Commedia è possibile trovare acrostici, mesostici, telestici, sequenze nascoste, anagrammi, raggruppamenti irregolari di lettere, segni cifrati, dispositivi cabalistici, che Arensberg esamina con profusione e attenzione.

Nel suo libro teorizza che nella Divina Commedia la geografia dell’Inferno sia basata su un preciso parallelismo fra la struttura della terra e la struttura del corpo femminile; si sofferma a riflettere sul concetto di terra come madre terra, comune a tanti popoli e culture in ogni epoca: la terra madre di vita che brulica sopra di essa. Corollario del concetto di terra come madre è quello di tomba (o Inferno – cita i due nomi come intercambiabili), o di qualunque altra cosa si supponga esistere oltre la morte nell’interiorità della terra, concepita come tomba, dalla quale l’uomo emerge attraverso la nascita e alla quale l’uomo ritorna nella morte.

Dice Arensberg: «Nei miti nei quali la morte è simbolizzata dalla tomba della terra, l’ingresso del defunto nella morte della tomba è costantemente simbolizzata come un atto sessuale. Esso rappresenta la riunione del figlio con la madre in un atto di incesto… Il simbolismo dell’Inferno come tomba, o l’ingresso dell’anima nell’Oltretomba, in quanto unione sessuale di madre e figlio, fa parte della dottrina cristiana della resurrezione». Individua poi nel suo libro moltissimi parallelismi fra la struttura della terra e la struttura del corpo femminile, soffermandosi su di essi.

Non ci stupisce che The Cryptography of Dante  abbia alla sua pubblicazione costituito un caso letterario e che sia stato accolto come un vero scandalo. Fu definito dai critici dell’epoca «un attacco scioccante» all’opera dantesca; molti videro nel libro un testo profondamente freudiano, sebbene l’autore, nelle ultime pagine del volume affermi: «Dissento da un’interpretazione freudiana… nella mia interpretazione della Divina Commedia come sogno io oppongo alla visione freudiana dei sogni come simbolizzazione della vita sessuale nei suoi aspetti letterari,  la mia visione che la vita sessuale appaia nei sogni essa stessa come simbolo di qualcos’altro –  in realtà come simbolo del conflitto personificato di intelletto, emozione e volontà dello stesso sognatore come individuo».

The Cryptography  rimane un testo potente, difficile, pieno di suggestioni interessantissime: è possibile, e forse preferibile vista la difficoltà, leggere il testo in cartaceo, in copia fotostatica.

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DISSENSI E NONSENSI di Letizia Gariglio

Non è sufficiente che i paradossi siano sotto gli occhi di tutti: non basta, molti non se ne accorgono nemmeno. E mai, proprio mai, i paradossi vengono contemplati  dai media ufficiali: solo la Rete, mentre ancora perdura una parvenza di libertà, è in grado di illuminarci con qualche chiarificazione.

Fra le molte notizie che il web ci propone alcune, davvero  serie, mi hanno negli ultimi tempi colpito più di altre. Le riunisco in questo articolo, in modo solo apparentemente disparato, come in un calderone, dove, come nel grembo di un’antica dea della conoscenza da cui tutto nasce, mi auguro che si sostengano l’una con  l’altra, assumendo, nel loro insieme  la forza feconda e rinnovatrice delle idee.

Due sono i filosofi italiani che sono intervenuti in modo diretto, circostanziato e attento sulle problematiche che solleva il Green pass: Massimo Cacciari e Giorgio Agamben. Già nello scorso luglio i due intellettuali, insieme, hanno redatto una lettera  nella quale si soffermano sul processo di discriminazione dei cittadini italiani, fra i quali una categoria è divenuta «di  serie B», secondo la loro definizione. Avvertono i due filosofi nel loro testo congiunto che : «Ogni regime dispotico ha sempre operato attraverso pratiche di discriminazione, all’inizio magari contenute e poi dilaganti». La loro preoccupazione è corroborata dal linguaggio politico di stampo fascista ormai dilagante, di cui riprendo qui l’esempio da loro riportato: «Li purgheremo con il Green pass» (suTwitter). La preoccupazione sulla pratica discriminatoria si accentua dal momento che è resa legge: «è qualcosa che la  coscienza democratica non può accettare e contro cui deve subito reagire».

In seguito alla redazione della lettera, in ottobre, Giorgio Agamben ha pronunciato in senato un discorso, evidenziando le contraddittorietà del Decreto Legge 44 del 2021, con il quale il Governo si è sollevato da ogni responsabilità per i danni prodotti da vaccino. Agamben ha notato come ciò significhi che lo Stato non vuole assumersi responsabilità e come tuttavia cerchi con ogni mezzo di spingere i cittadini a vaccinarsi, persino privandoli della possibilità di lavorare. Nel suo discorso rivela l’insidiosità dell’esibizione del Green pass per accedere a un ristorante o a un museo (e soprattutto al lavoro!). Commisura i provvedimenti cui i cittadini sono sottoposti alle misure di controllo del passato Stato sovietico in cui i cittadini, pur dovendo esibire il lasciapassare per spostarsi da un paese all’altra, non erano sottoposti a misure restrittive tanto severe come quelle che subiscono gli italiani oggi. Agamben paragona poi  l’analogia giuridica fra il fenomeno che discriminava ariani e non ariani durante il fascismo in Italia al fenomeno odierno che discrimina possessori e non possessori di Green pass. Il filosofo è evidentemente preoccupato dal processo di trasformazione insidiosa delle istituzioni, che sta avvenendo senza un cambiamento della Costituzione, mentre «gli stessi governi non si stancano di ricordarci come la sicurezza e l’emergenza son sono fenomeni transitori ma costituiscono una nuova forma di governabilità».

Due notizie riguardano atteggiamenti dissenzienti delle nostre forze dell’Ordine. Una risale alla fine dell’estate ma ha recentemente ricevuto nuovo impulso. Il 21 agosto l’Associazione sindacale Carabinieri, Unarma, ha presentato una «Diffida e messa in mora a non procedere alle limitazioni di cui al D.L.N. 105 del 6 /08/2021 nei confronti delle mense sui posti di lavoro per grave violazione del principio di legalità (art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale: trattamento illegittimo dei dati personali e sensibili – violazione degli articoli 16 e 32 della Costituzione e dell’articolo 2 della Costituzione -violazione dell’art. 15 CEDU con riferimento alla risoluzione n. 2361 (2021) del Consiglio d’Europa – violazione della risoluzione n. 953 (2021) del Parlamento Europeo. Diffida a eliminare ogni limitazione alla libertà personale. La diffida è stata inviata al Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, al Ministero della Difesa, al Presidente del Consiglio dei Ministri, Garante della Privacy e alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Come è evidente il documento è durissimo; successivamente la linea del sindacato dei Carabinieri è stata evidenziata in un ulteriore documento di ottobre: la lettera su obbligo Green Pass. Il Sindacato ha riferito quelli che ha definito “paradossi”:  ad esempio i non possessori di Green Pass sono in grado di svolgere il loro lavoro in tutto l’arco della giornata congiuntamente con i possessori Green Pass, ma non è loro consentito di accedere alla mense. O ancora: nella realtà i possessori di Green Pass non sono mai soggetti a verifica del loro stato attuale di contagio (a differenza dei non possessori i quali sono sottoposti a tampone (pur sapendo che anche  vaccinati possono ammalarsi). Inoltre desta preoccupazione la chiarissima negazione della legge sul trattamento dei dati del lavoratore nel momento in cui è proprio il datore di lavoro a richiedere l’esibizione del certificato all’ingresso al posto di lavoro.  Subito dopo Unarma  (27 agosto) anche SIPPE (Sindacato Polizia Penitenziaria) ha avanzato una analoga diffida, poiché, dice il Presidente Alessandro De Pasquale, «il Green Pass finirebbe per costituire un’imposizione surrettizia e indiretta di obbligo vaccinale ….ne conseguirebbe la violazione della libertà personale».

Un’altra notizia interessante riguarda Nunzia Schillirò, giovane poliziotta catanese, vice questore che ha diretto per quattro anni  la 4a sezione della squadra mobile di Roma, distinguendosi in indagini su reati alle donne, ai minori e alle fasce più vulnerabili; ha coordinato progetti contro il fenomeno della violenza di genere e contro il bullismo nella scuola; ha dato importante contributo personale per la risoluzione di casi di violenza noti al pubblico e per il suo impegno ha vinto numerosi premi. È una donna dalla forte personalità. Ma adesso non piace più. I suoi meriti professionali non valgono più nulla da quando è salita sul palco della manifestazione No Green pass del 25 settembre, dove ha preso la parola «da semplice cittadina», come ha specificato:«Sono qui per dissentire con il lasciapassare verde», ha detto dal palco «che è assolutamente incompatibile con la nostra Costituzione. Nessun diritto può essere subordinato a un certificato verde».

Detto, fatto. In men che non si dica è stata sospesa dal servizio e dallo stipendio. Ora la Schillirò presiede l’organizzazione di Venere vincerà, manifestazioneprevista per domenica 14 novembre a Firenze, un corteo di donne, unite nella volontà di dare un messaggio di forza dell’elemento femminile, basata sul risveglio dei sentimenti: «Dobbiamo liberare le donne e tutto il Paese da questo regime di sudditanza in cui stiamo vivendo». E a proposito del proprio dissenso dice: «Abbiamo iniziato con le etichette, le etichette sono sempre preoccupanti: quando io vengo additata come tanti altri come una No Green pass o una No vax, sembra quasi che vada in giro a minacciare la gente, a dire che non si devono fare il vaccino o il green pass. Invece la mia protesta è una protesta legale: è dissenso».

Un’ulteriore  informazione che desidero infilare nel calderone riguarda Vera Sharav, ebrea nata nel 1937 in Romania e sopravvissuta all’Olocausto da bambina; è attivista in campo della medicina e ha condotto numerose battaglie contro alcune pratiche biomediche arbitrarie e includenti sperimentazioni sugli umani. Una intervista in inglese della Sharav (rintracciabile in web presso diverse fonti) ha innescato una lunga fila di polemiche, che ha voluto opporre alla Sharav la senatrice a vita Segre: la prima ha assunto posizioni molto critiche nei confronti della gestione sanitaria internazionale della pandemia oggi; la seconda invece non ha mancato di fornire la propria pedissequa concordanza con le idee del governo italiano e si mostra del tutto scandalizzata che qualcuno (la Sharav, appunto) possa paragonare  la realizzazione della dittatura nazifascista con il nostro contemporaneo periodo politico, in cui, afferma Vera, si sta realizzando «il piano eugenetico di Rockfeller, Gates, Schwab e altri».

Quali somiglianze trova Sharav oggi con il periodo nazista? Spiega come siano racchiuse in alcuni punti, che cercherò di riassumere. La propaganda nazista usava la paura delle epidemie infettive «per demonizzare gli ebrei» e nel periodo nazifascista «le politiche sanitarie coercitive violavano i diritti civile e umani individuali». Il popolo tedesco, mentre gli ebrei venivano esclusi dalle attività normali (scuola, cultura, viaggi…) e mentre venivano confiscati i loro beni erano offuscati dalla paura. Dunque: uno stato di paura facilita la strada della discrimininazione. E infatti, afferma: «la paura ha impedito al popolo tedesco di fare la cosa giusta». La seconda, terribile somiglianza, riguarda i medici che si allontanarono allora dal loro obbligo professionale e dal giuramento di Ippocrate: l’establishment ebbe un ruolo centrale nei genocidi di massa. Prima vennero eliminati i neonati e i bambini handicappati sotto i tre anni, poi fu la volta dei malati di mente, seguiti dagli anziani nelle case di riposo. Il progetto di Hitler si denominava “T4”, e aveva lo scopo di sollevare lo stato dal peso economico che queste persone comportavano. Su queste categorie vennero sperimentate dai medici le tecniche nocive che poi vennero applicate nei campi di concentramento. Hitler, dice la Sharav, realizzò i genocidi con la cooperazione e il sostegno dei banchieri di Wall Street e delle corporazioni che fornirono il materiale chimico, industriale e tecnologico per realizzare il progetto, ma i medici ebbero un ruolo centrale. E erano ancora i medici a scegliere gli schiavi detenuti da inviare nelle fabbriche o nelle miniere, o in alternativa alle camere a gas. A tal proposito (responsabilità dei medici) Vera Sharav fa un puntuale riferimento, per quanto riguarda la situazione odierna, all’esperienza Covid negli Stati Uniti. Dice: «La pandemia del Covid 19 ha messo a nudo politiche sanitarie motivate da motivazioni eugenetiche nell’Europa Occidentale e negli Stati Uniti. Questa è una terrificante ripetizione di “T4”». Spiega che negli USA ospedali e case di riposo hanno ricevuto l’ordine di «non trattare gli anziani malati di Covid nelle case di riposo», conducendoli in questo modo verso la morte sicura. E qui inserisco una mia personale annotazione, rammentando che in Italia, invece, si è preferito trattare i malati di Covid introducendoli nelle case di riposo, accanto a anziani  con gli acciacchi dell’età ma ancora liberi da Covid, fornendo così una “soluzione all’italiana”.

Si rammarica, la Sharav, che i medici e gli scienziati che esprimono opinioni differenti dal diktat ufficiale siano trattati come eretici. Alla domanda «Perché tutto questo sta accadendo?», Vera risponde: «Leggete “Il grande reset” di Klaus Schwab… si tratta di ridurre la popolazione; l’obiettivo finale è il pieno esercizio del potere e il controllo», e aggiunge:«stanno introducendo il Green Pass per ottenere una società in cui si applica l’apartheid: una classe privilegiata, l’altra disprezzata e discriminata». Dice: «Le élite pensano di essere superuomini, e che noi siamo subumani… il potere è come una droga: non riconoscono la specie umana come tale. Una volta avviato questo sistema a due livelli non sarete in grado di impedire un olocausto globale. E possono farlo a distanza: click, click».

Conclude citando Klaus Schwab: «La pandemia rappresenta una rara e stretta finestra di opportunità per reinventare e resettare il nostro mondo. Niente ci riporterà mai al senso di normalità ormai distrutto che operava prima della crisi, perché la pandemia di coronavirus segna una svolta fondamentale per il nostro destino globale. La quarta rivoluzione industriale porterà alla fusione delle nostre identità fisiche, digitali, biologiche»: perfetta previsione della fase storica del transumanesimo.

Chissà se dal calderone uscirà qualche domanda…

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OGGI NIETZSCHE MI HA SPIEGATO IL COVID di Letizia Gariglio

Capire Nietzsche, che pretesa! Leggerlo e rileggerlo, illudendosi di capire, forse. Eppure talvolta si apre uno squarcio e sulla scena si accendono le luci. Così, all’improvviso.

La degenerazione della specie umana è stata prevista da Nietzsche, che ne ha delineato le caratteristiche antropologiche e sociali. Alcune sono davvero simili, forse uguali, a quelle dell’uomo contemporaneo. Così, se vogliamo capire l’attualità, rivolgiamoci al filosofo tedesco, che ci racconta nel Prologo a Così parlò Zarathustra quello che lui definisce «l’ultimo uomo».

L’ultimo uomo è l’uomo che ha raggiunto l’ultimo stadio della decadenza: è un uomo che cerca innanzi tutto, sopra ogni cosa, il proprio benessere. 

Dopo decennale preparazione in ritiro sui monti, Zarathustra torna in città, per annunciare alla folla, incedendo come un danzatore,  l’avvento del superuomo, o oltreuomo  Ma la folla non potrebbe essere più indifferente alle sue parole, è sorda al suo richiamo a superare l’uomo, a divenire superuomo: l’uomo così com’è , vuole solo «retrocedere  verso la bestia»: «Una volta», dice Zarathustra, «eravate scimmie e ancora adesso l’uomo è più scimmia di qualsiasi scimmia».  

Parla agli uomini del corpo e dell’anima: «Una volta l’anima guardava il corpo con dispregio, e questo dispregio era la cosa essenziale: essa lo voleva magro, orribile, affamato…l’anima si lusingava di emanciparsi dal corpo e dalla terra». Nietzsche tuttavia condanna questa condizione, di ascetismo o falso ascetismo, perché in sé l’anima non vale più del corpo, e quel tipo di anima diveniva martoriata come il corpo «orribile, affamata». 

Non è questa tuttavia la pecca dell’ultimo uomo: è, al contrario l’attenzione eccessiva per il proprio corpo, il proprio benessere, la ricerca della felicità, che si esprime nella comodità della vita. 

L’ultimo uomo è sazio, ben nutrito di becchime per tacchini, e il raggiungimento della soddisfazione del corpo fa sì che non abbia nessuna necessità di oltrepassare questa situazione; non aspira a un livello superiore di esistenza. «Si ha il piacerino per il giorno e il piacerino per la notte, ma sempre avendo riguardo alla salute. -Abbiamo scoperto la felicità, dicono gli ultimi uomini, e ammiccano». Ricusano la durezza della vita: «Hanno abbandonato le contrade dove la vita era aspra: hanno bisogno di calore»..

Così, l’ultimo uomo vive senza farsi troppe domande circa le eventuali pastoie che lo ingabbiano nel suo stato di cattività, di cui non vuole essere cosciente, e il desiderio di cambiamento è spento: importanti sono la sicurezza e l’agio. Tra un ammiccamento e l’altro, conduce la sua vita senza impegno, accontentandosi del piano puramente materiale.  È un uomo «incapace di disprezzare se stesso», ed è pericoloso anche per la terra: «La terra… vi saltellerà l’ultimo uomo che tutto rimpicciolisce. La sua razza è indistruttibile come quella della pulce; l’ultimo uomo vive più a lungo degli altri».

Ma c’è un aspetto preoccupantemente visionario del filosofo: l’eccessiva attenzione per la salute, una maniacale attenzione alla salute. La malattia è considerata dall’ultimo uomo il peccato mortale, e per preservarla egli si aggira circospetto e diffidente: «Ammalarsi è peccaminoso ai loro occhi: si procede con cautela».

È la stesso, isterico interesse che si percepisce oggi attorno a noi, dove l’obiettivo fondamentale di molti uomini è quello della sopravvivenza, e l’uomo, pur di perseguire la salvaguardia del proprio corpo, è disposto a rinunciare a quasi tutte le richieste dell’anima e dello spirito: la cultura, l’arte, l’amicizia, la convivialtà, perfino gli affetti.

Così la vita si riduce a una sorta di non-vita, al puro piano materialistico. Così, al tempo del Covid, la salute non può essere il risultato di uno stato naturale, che scaturisca dall’equilibrio di vita fisica e emotiva: deve invece essere il risultato di una medicalizzazione imposta dall’esterno, i cui tempi e modi sono parimenti imposti dall’esterno, insieme a somministrazioni di farmaci e certificati. Nessuna autonomia viene data all’uomo di oggi dal potere politico-sanitario, circa la determinazione individuale delle proprie condizioni e le scelte sulla propria salute. La determinazione viene imposta da fuori e l’uomo di oggi, come l’ultimo uomo di Nietzsche, si sottopone per lo più senza ribellioni, pur di essere uguale agli altri (pena la perdita del lavoro e il proprio posto nella società).

Come l’ultimo uomo anche noi arriviamo ad accettare, non sempre inconsapevolmente, un po’ di veleno pur di continuare a far parte del gregge. È nel gregge che l’ultimo uomo pascola felice, perché il suo maggior desiderio è essere e sentirsi uguale agli altri: « Niente pastore e un sol gregge!. Tutti vogliono  la stessa cosa. Tutti uguali. Chi la pensa diversamente va da sé al manicomio».

Persino la morte è una morte medicata, perché una giusta dose di veleno solleva dalla sofferenza e permette di morire piacevolmente: «Un po’ di veleno, di tanto in tanto:  procura piacevoli sogni. E una buona dose di veleno, alla fine, per morire piacevolmente».

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ANCORA VIVO E GIÀ ALL’INFERNO. BONIFACIO VIII di Letizia Gariglio

«Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura/ …»: mi sono già lungamente soffermata sul fatto che Dante considerava il momento di inizio del suo viaggio come protagonista della Commedia il punto mediano della sua vita personale: nato il  2 giugno 1265, all’età di trentacinque anni riteneva di poter vivere fino a settant’anni. Non fu così, perché. Dante morì nel 1321, vent’anni dopo. Nell’articolo Quattro pianeti per un viaggiatore, pubblicato su Parole in rete nel maggio 2021, ho spiegato come quello dell’inizio del viaggio fosse per Firenze l’anno 1300 ab Incarnatione, tuttavia per noi e i nostri parametri temporali attuali quell’anno è chiamato 1301.  1300 rappresenta un decimo di un semiciclo della Precessione degli Equinozi, della durata, secondo Dante, di 13000 anni. La durata completa del ciclo, di 26000 anni, definita dagli antichi Anno Platonico o Grande Anno si discosta di soli 40 anni dai calcoli degli astronomi odierni. Il semiciclo, o periodo di 13000 anni, era considerato importantissimo dai popoli antichi (che conoscevano benissimo il fenomeno della precessione) perché segnava con la sua cadenza un punto di volta, il punto mediano nel raggiungimento, negli eventi universali, di un ciclo del mondo. Il punto mediano era considerato una sorta di  centro dei tempi, un punto di equilibrio, nel quale si possono conciliare contrasti e opposizioni.  Le porzioni decimali erano oggetto di particolare attenzione.

Ma vi è un ulteriore significato nell’anno 1300, avente valenza nettamente polemica con il Papa del tempo di Dante,  Bonifacio VIII. Il Papa aveva decretato  l’anno 1300 come anno del Giubileo, ed esso si chiudeva il 31 dicembre 1300. Roma e il Papato non solo  differivano da Firenze nella conta degli anni, ma differivano anche per il fatto che il Papato contava dalla nascita di Gesù, a Nativitate (25 dicembre) , e Firenze contava ab Incarnatione (25 marzo). Ciò significa che tra la chiusura del Giubileo dell’anno 1300 e l’inizio dell’anno fiorentino 1300 trascorrevano  tre mesi: diveniva impossibile per i fiorentini avere una porzione del proprio anno 1300 all’interno dell’anno romano del Giubileo.

Dante riteneva Bonifacio VIII degno di essere condannato all’Inferno fra i simoniaci: concordava con tutte le accuse rivolte dai Colonna a quel Papa, con quelle dei francescani spirituali, quelle del re di Francia, vale a dire che la sua elezione al soglio papale fosse stata del tutto illegittima e fosse a monte basata sulla fraudolenza esercitata dal Caetani nei confronti di Celestino V, spinto da lui ad abdicare e subito dopo tradito con la cattura e la prigionia. Quando Bonifacio diede disposizione di rinchiudere Celestino, si narra che questi disse al nuovo Papa: «Otterrai il Papato come una volpe, regnerai come un leone, morirai come un cane».

L’odio di Dante verso Bonifacio VIII nacque fin dalla elezione, poiché il Papa, secondo le aspettative, avrebbe dovuto mettere pace fra guelfi Neri e Bianchi in Firenze, invece da subito si dichiarò favorevole ai Neri: Dante lo riteneva responsabile della rovina di Firenze e della propria condanna a vivere in esilio. Riuscì a sbatterlo all’Inferno prima che morisse. Usò uno stratagemma letterario, fingendo che il Papa Nicolò III, conficcato a testa in giù nella bolgia dei simoniaci, immaginasse che stesse giungendo Bonifacio che avrebbe preso il suo posto, mentre egli sarebbe precipitato più giù in fondo al pozzo con altri papi già caduti in quel luogo. «Se’ tu già così ritto, / se’ tu già così ritto, Bonifacio?», domanda Nicolò e aggiunge: «…non temesti tòrre a ‘nganno / la bella donna,e poi di farne strazio?», e la bella donna è la Chiesa. Poi Virgilio suggerisce a Dante di dire: «son son colui che credi».

Sistemato Bonifacio all’Inferno con l’inganno letterario, Dante torna a lui nel canto XXVII, dove il Poeta fa pronunciare a Guido da Montefeltro, duca di Urbino, la definizione riguardante Bonifacio: «lo principe de’ novi Farisei».

Ma se qualcuno vuole apprezzare la grottesca teatralità del personaggio è a Dario Fo che si deve rivolgere.

Chi di noi rammenta il capolavoro  Mistero Buffo del nostro Nobel per la Letteratura, Dario Fo? La mia generazione ha avuto la fortuna di assistere alle rappresentazioni di Mistero Buffo più volte e in circostanze diverse: Fo lo recitava in teatro, nelle sale e nei cortili delle scuole, delle Università e dei Politecnici, sulle piazze e all’interno delle fabbriche. Aveva cominciato a strutturare quello spettacolo dal 1963, e nel ’69 andò in scena a Milano, sulla base di un canovaccio attorno al quale molto improvvisava, tenendo inchiodati gli spettatori. Una volta iniziò la rappresentazione alle 21,30 e ale 2, 30 stava ancora in scena: fu la Rame a chiedere personalmente al pubblico di essere gentile e andare via – aveva paura, disse, «che gli venisse un coccolone».  Il grande guitto aveva reinventato la giullarata, forma di teatro popolare raccontata da un solo attore. Il titolo, Mistero Buffo, rimanda al titolo di una commedia del 1917 di Vladimir Majakovskij, in cui le vicende della rivoluzione sono trasposte su un piano biblico: anche nel Mistero Buffo di Fo i monologhi orbitano su episodi di argomento biblico, reinterpretato nella chiave dell’Autore. Ricevette il Nobel nel 1977 e motivava l’Accademia di Svezia: «…se qualcuno merita l’epiteto di giullare, nel vero senso della parola, questo è lui. Il misto di risa e serietà è il suo strumento per risvegliare le coscienze sugli abusi e le ingiustizie della vita sociale».

Tra i misteri uno dei più esilaranti è quello riguardante Bonifacio VIII: è ancora possibile trovare alcune registrazioni in Rete. Ricordo che la scena iniziava con una piccola prefazione, dove Fo mimava la sottrazione del soglio pontifico da parte di  Bonifacio a Celestino V, sotto forma di un gioco di bambini, poi Bonifacio prendeva la scena, cantava un canto paraliturgico di tradizione catalana, mentre si preparava con tutti i paramenti sacri per una processione; Fo mimava le azioni del Papa vanesio, ma contemporaneamente da solo rappresentava il primo, il secondo, il terzo corista (con le diverse partiture vocali), quando interveniva il quarto corista, stonato, il pubblico già non si tratteneva più; poi Bonifacio lo rimbrottava, e contemporaneamente mimava gli oggetti, il pesantissimo mantelon pieno di pietre preziose, ma anche la mitria, i guanti, in un crescendo di effetti mimici (sempre cantando tutte le parti del coro). Memorabile pezzo di teatro!

In quel periodo ricco di fermenti teatrali e di esperienze  indimenticabili un giorno con amici teatranti, con cui condividevo appassionanti ricerche e sperimentazioni, andammo a trovare Fo a Milano, nel suo teatro-capannone. Ci introducemmo silenziosi, per non disturbare le prove in corso. Ma Dario Fo interruppe le prove per accoglierci con una festosa e calorosa accoglienza: il Gigante ci fece sentire meritevoli della sua attenzione, quasi noi fossimo degni colleghi. 

Non ricordo che cosa stesse provando, ma mi piace tanto immaginare che fosse il mistero di Bonifacio VIII.

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“IL GRANDE FRATELLO VI GUARDA” di Letizia Gariglio

(articolo pubblicato nel settembre 2021 su Parole in rete)

Ancora una volta torno a 1984 di George Orwell. Perdonatemi, ma non riesco a fare a meno di vedere tante somiglianze con aspetti delle odierne situazioni.

«La guerra è pace; la libertà è schiavitù; l’ignoranza è forza»: sono le parole leggibili sulla facciata del palazzo alto trecento metri che nel libro di Orwell ospita il Ministero della Verità, o Miniver, il cui compito è creare menzogne, che insieme con  gli altri tre ministeri,  Minipax, ministero per la Pace, che però si occupa della guerra, Miniabb , ministero dell’Abbondanza , in realtà responsabile della penuria dei beni,  e Miniamor, ministero dell’Amore, il cui compito è praticare la tortura, compongono l’apparato completo del partito dittatoriale. Compito del Partito al potere è attuare con un’attenta e esaurientissima opera di falsificazione, la rimozione degli eventi accaduti, delle fonti e delle testimonianze indesiderabili, contrari ai dettami del partito, cui tutti, invece, si devono uniformare. La progressiva riduzione del linguaggio facilita la riduzione del pensiero, pertanto la neolingua voluta dal regime ha lo scopo di eliminare parole che possano esprimere concetti:  «Lo scopo principale a cui tende la neolingua è quello di restringere al massimo la sfera d’azione del pensiero….Alla fine non ci saranno parole con cui esprimere». Dunque: la riduzione progressiva, lo spegnimento della coscienza si realizza con la contrazione linguistica. Come non pensare ad alcuni deliranti programmi televisivi, dove in luogo di idee, pensieri e parole si ostentano deliberatamente muscoli, culi e tutte, e in cui la comunicazione dei partecipanti si realizza con una serie di mugugni e varie emissioni gutturali, possibilmente conditi con un accento dialettale scelto fra quelli che sanno parlare alla pancia: alta qualità linguistica per un pubblico esigente! 

Nella dittatura orwelliana  l’informazione, compresa quella storica, viene costantemente falsificata: «Chi controlla il passato controlla il futuro»: privi di memoria storica i cittadini credono a ciò che viene proposto, con un controllo totale da parte del potere.

Lo stravolgimento dei fatti, anche relativamente al presente, ci appare in Orwell tremendamente spudorato, a cominciare dal nome dei ministeri stessi. Ma è tanto diversa la nostra realtà? I gruppi elitari che conducono i giochi odierni ammantano di romanticismo alcuni concetti, rendendoli linguisticamente benevoli e positivi. Perché, ad esempio, dovremmo temere un Nuovo Ordine Mondiale? Ordine è pur sempre una bella parola, che conduce lontano dal caos. Così molti non si soffermano a chiedersi di più, accettando una prospettiva che nella realtà di realizzerà ( si sta realizzando) con un grande reset finanziario, fondato sulla diminuzione dei popoli, su raffinate forme di controllo, sempre più efficienti, dei cittadini: grazie ad esso le risorse economiche e finanziarie si accentreranno sempre di più presso un numero ristrettissimo di ricchi, sul progressivo prosciugamento delle libertà democratiche e dei diritti civili. Intanto i popoli perderanno sempre di più le loro identità nazionali, insieme ai gruppi etnici che perderanno sempre più le loro caratteristiche culturali e religiose. «Una sovranità sovranazionale esercitata da una elite intellettuale e da banchieri mondiali è senza dubbio da preferirsi senza esitazioni alla tradizionale autodeterminazione delle nazioni», diceva Rockefeller a Baden Baden già nel 1991.

A ben guardare io non intravedo grandi differenze fra il ruolo servile e totalmente omologato dei nostri mainstream di oggi dal lavoro del Miniver. La realtà, come l’immaginazione del grande scrittore, lavora per imporre un pensiero unico, per mezzo di servizi e video farlocchi, mentre agli uomini di cultura è riservata una sprezzante censura, in grado di delegittimare persino il valore di grandi figure, il cui unico reato è quello di esprimersi in modo diverso dal pensiero unico che si vuole imporre.

Non pensate che nel nostro paese si propini un’informazione spudoratamente falsificata di dati, statistiche, tabelle, notizie, mentre tutta la vita politica è ormai del tutto allineata ai complessivi disegni del potere ?Come non pensare alla complessiva e delirante gestione dell’informazione sulla pandemia, dove grandi uomini, premi Nobel, eminenti studiosi sono stati messi a tacere perché non allineati?

Il banchiere Attali, eminenza grigia di più sgargianti cardinali, presidenti francesi – da Mitterand a Macron, già nel 2009 elogiava le virtù di una «potente crisi dovuta a pandemia», strumento individuato come maggiormente efficace di una crisi posta (solo) su basi economiche, perché in grado di scatenare veramente la paura: «La storia ci insegna che l’umanità si evolve in modo significativo quando ha paura».  È  da notare la parola “evolve”, che potrebbe, come spesso accade nei discordi di questi nemici dell’Uomo, farci intendere tutt’altro. Ma poco più avanti Attali spiegava esaurientemente: «La pandemia che sta iniziando (2009!, si badi bene) potrebbe far scatenare una di quelle paure strutturanti». Osserviamo la parola “strutturanti”: che cosa devono strutturare? Continuo la citazione: «… affinché si mettano in atto meccanismi di prevenzione e controllo… Si dovrà organizzare: una polizia mondiale, un sistema stoccaggio delle risorse, una fiscalità mondiale».

Quando noi pensiamo ai gruppi di potere ai quali giova moltissimo il piano strategico a monte dell’odierna “pandemia” in corso, noi pensiamo subito alle case farmaceutiche (motori scoperti, più evidenti degli interessi economici), ma la realtà è molto più articolata e coinvolge aspetti molto più ampi della globalizzazione. Proviamo a rileggere documenti che hanno ormai età decennale, come gli Scenarios for the Future of Technology and International Development (del 2010). Che cos’è? Apparentemente è uno studio, una ricerca all’interno della quale un gruppo di futurologi immaginano una società globalizzata che vive una situazione (lo scenario, appunto) dopo una pandemia. Io ritengo però che tali scenari non siano frutto di pura immaginazione, quanto piuttosto delle indicazioni, delle istruzioni, o linee-guida sul modo in cui dovranno essere guidati gli accadimenti allo scopo di riformare le situazioni e gli equilibri economici, politici e sociali, in funzione degli interessi dei gruppi, di potere, ovviamente. 

Nella relazione della Rockefeller Foundation (documento citato) si idea il ruolo della tecnologia «nel campo emergente della prospettiva a favore della povertà», dove davvero, a mio parere, bisogna leggere letteralmente “a favore della povertà” e non, come qualcuno sarebbe tentato di fare, “dei poveri”. Sotto l’apparente obiettivo  di ampliare il pensiero «su opportunità e ostacoli» per mezzo di narrazioni, in realtà gli scenarios sono preannunci, pronostici, predizioni di eventi che si faranno accadere.

Nei suddetti scenarios il primo step immaginato  di comportamento della popolazione dopo effetti eclatanti causati da shock importanti viene denominato Lock step, in cui si ha occasione di attuare un controllo governativo molto più stringente, con una leadership piuttosto autoritaria. Si dice che le condizioni post shock possono accelerare lo sviluppo avanzato di nuove tecnologie: nel documento viene citata la risonanza magnetica che diviene regola negli aeroporti, e in aree pubbliche, utile a rivelare «comportamenti anomali con intenti antisociali»; vengono suggeriti strumenti diagnostici per rilevare malattietrasmissibili;  attenzione viene data alla necessità della sorveglianza del traffico Internet. Insomma, ci troviamo di fronte a strumenti tecnici utili ai gruppi dominanti per riuscire agevolmente a controllare, tracciare, schedare in modo diffuso e capillare i singoli individui.

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DANTE FRA GLI ESOTERISTI. di Letizia Gariglio

(articolo pubblicato nel mese di agosto su Parole in rete)

Breve excursus fra gli esoteristi interpreti di Dante. Il primo fu Gabriele Rossetti, padre dell’artista preraffaellita Dante Gabriel, carbonaro, probabilmente rosacroce, esiliato, negli ultimi anni del 1800 dedicò molto studio all’opera di Dante e pubblicò alcuni volumi in cui  si soffermò sullo spirito antipapale che animava, in Italia, letterati e letteratura, e che si sviluppò nel periodo in cui vissero sia Dante che Petrarca e Boccaccio. Il gruppo di oppositori di cui anche Dante faceva parte diedero vita al Dolce Stil Novo; per evitare accuse di eresia  in un periodo in cui la Chiesa era agguerritissima, adoperavano un linguaggio segreto. Dante desiderava fortemente un rinnovamento della Chiesa e del Papato ed era stato iniziato alla setta dei Fedeli d’Amore, usava il loro linguaggio, cosiddetto della Gaia Scienza; sulla scorta di una antica tradizione che già si era espressa attraverso i poeti provenzali i Fedeli d’Amore si ricollegarono alla conoscenza della filosofia pitagorica. Rossetti comprese che nella Divina Commedia la filosofia platonica e pitagorica  era travestita da teologia cattolica (per evitare  accuse di eresia da parte dell’Inquisizione), ma che in realtà il poema conteneva un patrimonio (nascosto ma reso leggibile se in se è in possesso della chiave di lettura), della sapienza degli antichi misteri.

Quanto a Pascoli, i dantisti non se lo filavano, eppure i suoi studi danteschi erano iniziati subito la laurea  e proseguirono tutta la vita. Quando annunciò ai suoi colleghi letterati di aver trovato  «la chiave per entrare nel mistero di Dante» più d’uno accolse la notizia con un sorrisetto di scherno misto a penosa accettazione, una tollerante alzatina  di spalle, un interrogativo fra sopracciglia. Perché? Erano invidiosi, semplicemente. E poi c’era qualcos’altro: il notevole disturbo creato dalla  relazione piuttosto stretta con i contenuti degli insegnamenti massonici e il carattere peculiarmente esoterico e mistico iniziatico di quanto l’autore aveva scoperto, elementi durissimi da digerire per il mondo accademico. Così, ciascuno dei tre volumi che Giovanni Pascoli scrisse su Dante,  Minerva oscura, Sotto il velame, La mirabile visione, ebbe scarsi incoraggiamenti, ottenne per dirla con eufemismo pochi riconoscimenti da parte della cultura ufficiale e suscitò una indifferenza così tenace da lasciarci increduli ancora oggi. Eppure l’autore non abbandonò la propria ricerca della  conferma dell’unità strutturale della Commedia, fino alla fine della sua vita. Ancora oggi gli studiosi ufficiali di Dante cercano di arginare e frenare la mole di scomode scoperte di Pascoli, incapaci come sono di affrontarle, passando attraverso quella «porticciola del gran tempio mistico», che invece il grande letterato e poeta aveva aperto, rendendosi quasi scandalosamente disponibile a una lettura interpretativa sciamanica  del testo dantesco. Deluso anche da colui che era stato suo maestro, Giosuè Carducci, cui doveva la bocciatura a un importante concorso nazionale dedicato agli studi danteschi ( fu Carducci stesso a stendere il giudizio negativo), scrisse che i suoi studi erano stati «derisi e depressi», «oltraggiati e calunniati». I dantisti in cattedra ancora oggi fingono fin dove possibile di ignorare i libri di Pascoli su Dante, considerati come un’imbarazzante anomalia nel panorama della sua arte.

Riprese l’interpretazione di Pascoli un suo discepolo, Luigi Valli, che ebbe il pregio di svelare con una mole ricchissima di studi,  analizzando nei particolari in ogni testo il gergo iniziatico del  dolce stil novo, dove prepondera l’Amore e l’importanza delle figure femminili, tutte rappresentanti l’ intelligenza trascendente; quanto alla Commedia fornì uno schema, Lo schema segreto del poema sacro, in cui, canto dopo canto, analizzò tutti gli apparati simbolici e allegorici della Divina Commedia. È contenuto invece  nel volume La struttura morale dell’universo dantesco, e in particolare nel saggio (Il supercattolicismo di Dante) l’esposizione del pensiero di Valli in tal senso, condensato nella frase : «La teoria segreta di Dante rappresenta in realtà un meraviglioso, un titanico tentativo di dare una forma di supecattolicismo». E spiega in che cosa consiste la sua visione certamente non perfettamente ortodossa dal punto di vista della Chiesa , ma che si ispira direttamente alla purezza delle origini del Cristianesimo.

Guénon è forse il più conosciuto fra gli studiosi favorevoli ad analizzare i caratteri esoterici dell’opera di Dante. A partire dalle parole dello stesso Dante, «O coi ch’avete gli intelletti sani / Mirate la dottrina che s’asconde / Sotto il velame delli versi strani », (Inferno, IX, 61-63), Guénon si sofferma a esaminare il lato esoterico dell’opera dell’Autore, certo che egli sia appartenuto ad una organizzazione  iniziatica; afferma l’autore: «La metafisica pura non è né pagana né cristiana, è universale; i misteri antichi non erano paganesimo, ma vi si sovrapponevano». ( René Guénon, L’esoterismo di Dante, capitolo I).È particolarmente interessante lo studio di Guénon sulla suddivisione di Dante dei tre mondi (Infermo, Purgatorio, Paradiso), che contiene secondo l’autore molte similitudini con la teoria indù dei tre guna: tre diverse condizioni attraverso cui l’animo umano deve passare per evolversi, ma che vedono abitualmente la preponderanza di uno di essi in ciascun essere umano.

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CORONATI E SCORNATI di Letizia Gariglio

(articolo pubblicato nel luglio 2021 su Parole in rete)

Gli imperatori venivano consacrati tali per mezzo di una cerimonia sacra in cui la sacralità era rappresentata dall’oggetto della corona. Questa parola , corona, è la parola che più abbiamo ascoltato negli ultimi due anni in un tutt’uno con quell’altra antipatica parola, virus, cui è stata permanentemente e insistentemente associata.

Sì, lo sappiamo che il coronavirus si chiama così perché al microscopio elettronico ha la forma dell’oggetto regale, con i suoi numerosi virioni infettivi che si protendono come punte  di una bella corona. Sono punte pericolose, con le quali il virus riesce ad attaccarsi alle cellule dell’organismo che ha scelto di infettare nei suoi diversi apparati, respiratorio, gastrointestinale… Con le sue punte regali il corona si è attaccato alla nostra società e l’ha profondamente infettata, lasciando strascichi veramente long, costringendoci a una convalescenza che sembra non avere termine e probabilmente non avrà davvero termine.

Mi pare lecito avere qualche dubbio, malgrado le nostre elementari cognizioni scientifiche, su eventuali intenzioni di utilizzare una parola e un simbolo tanto potente, la corona,  per rendere altrettanto potente la malattia che ne porta il nome. La realtà materiale, in questo caso rappresentata  dalla malattia dalle caratteristiche di per sé oscure e profane, si riveste così di santità, di sacralità. Noi sappiamo che niente ha valore in sé: esso dipende dal giudizio che a una determinata cosa viene dato dalla molteplicità degli individui o da singoli individui. Si può attribuire grande valore a qualcosa che si desidera attrarre o allontanare da sé: in ogni caso quella specifica cosa acquisirà un certo valore di mercificazione. Più quella cosa sarà investita di potere, più varrà sul piano sociale e nella gestione della compravendita o del baratto. L’oggetto potrà rivestire un interesse positivo o negativo, avremo con quella cosa una relazione positiva o negativa, e ci adopereremo di conseguenza nello sforzo per averla o allontanarla da noi, a seconda del valore che percepiremo. Quanto siamo disposti a barattare per allontanare il corona, o la paura che ne abbiamo?

Ci hanno pensato i mezzi di comunicazione ufficiali, i mainstream, ad alimentare in noi una percezione più che importante intorno alla regale epidemia. Finalizzata alla realizzazione del Grande Reset economico, finanziario e sociale di cui i gruppi di potere non fanno alcun mistero (basta leggerne i documenti), il corona ha agito scatenando la paura. Ma diciamo meglio, lo storytelling del corona, cioè la  la sua narrazione, ha agito scatenando la paura: una narrazione infarcita di terrore, condita di numeri apocalittici, martellata a più non posso, inframmezzata da continue affermazioni del tipo “nulla sarà più come prima”, basata sullo sfruttamento di emozioni negative, subdolamente usata per creare sensi di colpa.

È grazie alla paura che abbiamo accettato condizioni come il lockdown (leggi confinamento), il distanziamento sociale (leggi isolamento), il coprifuoco (che non hanno nemmeno cercato di addolcire con l’inglese). 

Come si dice in inglese scornati?

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LUME V’È DATO A BENE E A MALIZIA di Letizia Gariglio

La cosmologia dantesca propone una visione morale del mondo, dove Dio è motore e creatore del tutto. Anche i cieli e le stelle hanno a loro volta caratteristiche e particolari influenze, agendo sul piano causale: il moto dei pianeti, infatti, non è espressione di pure leggi meccaniche, ma agisce esso stesso in modo intelligente nei confronti della Terra e dei terrestri. Nella concezione aristotelica/tolemaica che  Dante segue, la Terra e l’uomo sono al centro dell’universo. La Terra si divide in due emisferi: quello a Sud dalle masse di acque oceaniche, mentre quello a Nord è costituito dalle terre emerse in cui l’uomo vive.

Insieme ai cieli furono creati gli angeli, alcuni dei quali, capeggiati a Lucifero, si ribellarono; in seguito all’atto di rivolta contro Dio, Lucifero si trova all’Inferno, posto conficcato a testa in giù (in posizione fisica e morale), con capo e tronco in emisfero Sud e gambe in emisfero Nord. Si formò così nella terra una voragine a imbuto rovesciato, che creò l’Inferno e, per  controbilanciamento, si erse dalle terre emerse il Purgatorio, che parte con base ampia e finisce via via restringendosi verso l’alto. Fuori dalla terra, in cielo, è situato il Paradiso: a esso il Poeta accederà passando per nove cieli (o stelle o pianeti) che ruotano in modo concentrico. Dante ci dice quali sono le influenze che, secondo gli insegnamenti tolemaici, ciascun pianeta esercita sulle creature viventi sulla Terra, determinate dalle specifiche intelligenze legate ai singoli cieli .

Nell’ordine dell’universo le creature superiori riconoscono il valore del Creatore, che è fine ultimo cui l’ordine stabilito tende. Grazie a questo ordine tutte le specie naturali ricevono una inclinazione, che varia a seconda del destino che è stato loro assegnato, a seconda del grado di vicinanza delle anime  con Dio; in conseguenza di ciò ciascuna di loro si muove verso mete diverse (per lo gran mare dell’essere).  (Paradiso, I, 106/117):  «Qui veggion l’alte creature l’orma / dell’etterno valore, il qual è fine / al quale è fatta la toccata norma. / Nell’ordine ch’io dico sono accline / tutte nature, per diverse sorti / più al principio loro e men vicine; /onde si muovono a diversi porti / per lo gran mare dell’essere, e ciascuna  / con istinto a lei dato che la porti». L’ordine, tuttavia, non riguarda solo le creature prive di intelligenza (razionale), ma anche quelle che hanno “intelletto e amore”.

Prosegue poi Dante spiegandoci che la potenza dell’inclinazione conduce verso l’Empireo, dove siamo condotti in virtù di questo istinto naturale impresso; ma, aggiunge che talvolta la materia «è sorda» e la creatura si allontana dal percorso segnato dall’inclinazione e «s’atterra torta dal falso piacere»: ciò accade se si rivolge dunque verso la materialità.

Sulla questione dell’influenza degli astri Dante si era già affacciato in Purgatorio(XVI, 65 – 81), definendo con precisione la relazione fra  influsso degli astri e libero arbitrio. Nella Cantica Dante domanda a Marco Lombardo: la corruzione del mondo dipende dalle influenze celesti o dalla volontà umana? Lombardo spiega che se si attribuissero al moto dei cieli gli eventi terreni, sarebbe distrutto il libero arbitrio: i cieli danno l’impulso, ma gli uomini possiedono la ragione, che illumina sul bene e sul male; è vero che la volontà fatica a combattere con l’istinto, ma poi «vince tutto». Dunque, il destino dell’uomo non dipende da stelle o astri perché nell’uomo c’è la parte spirituale, l’Anima spirituale, che Dante definisce mente. Ecco i versi di Dante: «Voi che che vivete ogne cagion recate / pur suso al cielo, pur come se tutto / movesse seco di necessitate. / Se così fosse, in voi fora distrutto / libero arbitrio, e non fora giustizia /per ben letizia, e per male aver lutto. / Lo cielo i vostri movimenti inizia; / non dico tutti, ma posto ch ‘i’ ‘l dica, / lume v’è dato a bene e a malizia, / e libero voler; che, se fatica / nelle prime battaglie col ciel dura, / poi vince tutto, se ben si notrica. / A maggior forza e a miglior natura / liberi soggiacete; e quella cria / la mente in voi, che ‘l ciel non ha in sua cura /».

Voi uomini, dice il Poeta, pur rimanendo liberi, soggiacete a una forza  più grande : quella forza è Dio, e se vi allontanate da Lui, la causa va cercata in voi stessi. Paragona l’anima umana a una bambina “semplicetta”che si dirige verso ciò che la trastulla: solo con il tempo si indirizzerà al retto cammino. È grazie alla legge che è possibile stabilire un freno alla condotta umana, con l’aiuto  di una autorità regia che sappia, con i dovuti freni,  condurre l’umanità verso mete spirituali. 

Dunque, in conclusione,  la parte spirituale dell’uomo non dipende dagli astri perché in lui alberga la mente: la libertà si acquisisce con l’esercizio della volontà e la disciplina alla rinuncia al vizio e alle gratificazioni materiali: concetto oggi sempre più difficile da digerire.

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STELLE, STELLE, STELLE di Letizia Gariglio

(articolo pubblicato nel mese di giugno su Parole in rete)

Se non fossimo sufficientemente convinti dell’importanza che Dante attribuiva alle stelle, andiamo con lui in Purgatorio, alla chiusura del Canto XIV  (Purgatorio, 148 -151), dove Virgilio pronuncia le seguenti parole: «Chiamavi ‘l cielo e ‘ntorno vi si gira, / mostrandovi le sue bellezze etterne, e l’occhio vostro pur a terra mira; / onde vi batte chi tutto discerne».». Qui la guida di Dante rimprovera coloro che guardano verso il basso, «onde vi batte chi tutto discerne», vale a dire: Dio vi punisce per questo guardare verso terra, verso il basso. La terra, il “basso” rappresentano in senso letterale e in senso metaforico la materialità e il “cielo” sta non solo per il luogo di Dio, ma anche, e qui esplicitamente, come il luogo delle “bellezze eterne”, cioè gli astri. L’invito a rivolgere l’attenzione conoscitiva agli astri non potrebbe essere, da parte dell’astrologo Dante, più esplicita.

Non a caso una generale punizione colpisce nell’ Inferno tutti i dannati, indipendentemente dal peccato che li ha condotti in quel luogo e dalla legge di contrappasso cui sono sottoposti: ognuno di loro è privato del conforto del cielo e della visione degli astri.

Ho già detto dei riferimenti chiari che Dante riserva nella Commedia alle stelle, fornendoci, in questo modo, i parametri esatti per per calcolare i tempi del suo viaggio fra Inferno, Purgatorio e Paradiso: il viaggiatore Dante nel suo viaggio deve necessariamente rispettare la regola che gli concede di trascorrere soltanto ventiquattro ore nel Regno dell’Inferno. Così nell’Inferno (VII, 97 – 99) leggiamo: « Or discendiamo ormai a maggior pièta; / già ogni stella cade che saliva / quand’io mi mossi, e’l troppo star si vieta». Tutte le stelle che erano salite, dopo che lui si era mosso (rispetto al meridiano di Gerusalemme) ora stanno discendendo: dovevano essere dunque trascorse dodici ore da quando Virgilio si era mosso in soccorso di Dante personaggio: si suppone pertanto che si trovassero verso la mezzanotte tra il 25 e il 26 marzo.

Poco dopo (Inferno, XI, 112 – 114) Virgilio conferma ancora la sua sollecitazione a Dante, con i versi, già visti nell’articolo precedente, che contengono il riferimento alla Costellazione dei Pesci, ultima costellazione dello Zodiaco, la dodicesima, ed essendo attribuito in astrologia tolemaica a ciascun Segno uno spazio di 30°, corrispondenti a uno spazio temporale di due ore, è evidente che sono trascorse ventiquattro ore da quando il viaggio dantesco è iniziato in Ariete (in Inferno, XX, 125 – 129).

Sul riferimento alla Luna ci siamo già precedentemente fermati; pongo ora attenzione ancora alla Luna (Inferno, XXIX, 10 – 11), quando Virgilio dice: «E già la Luna è sotto i nostri piedi: / lo tempo è poco ormai che n’è concesso, / e altro è da veder che tu non vedi ». La Luna è sotto ai nostri piedi, perché si trovano agli antipodi di Gerusalemme, luogo considerato il culmine dell’Emisfero Nord, secondo la convenzione cui si attiene il Poeta, dunque la Luna culmina nell’Emisfero Sud, il che equivale a dire che nell’Emisfero Nord culmina il Sole (in fase di plenilunio Sole e Luna si trovano in opposizione). Dante dunque ci fa comprendere la posizione del Sole per opposizione alla Luna.

Andiamo ora in Purgatorio, dove c’è un altro importante riferimento al Sole (Purgatorio, IV, 52 – 57): «A seder ci ponemmo ivi ambedui / volti a levante ond’eravam saliti, / ché suole a riguardar giovare altrui». Virgilio e Dante hanno salito il monte con fatica, si mettono a sedere, e volgono lo sguardo verso Oriente (atto considerato di buon auspicio nell’antichità), ma l’Oriente in questo caso è anche la direzione da cui sono giunti; alzando gli occhi verso il Sole si rendono conto con stupore che i suoi raggi provengono da sinistra. Infatti essi si trovano sotto il Tropico del Capricorno. E infatti Dante continua: «Li occhi prima drizzai ai bassi liti ; / poscia li alzai al sole, ed ammirava / che da sinistra n’eravam feriti».

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QUATTRO PIANETI PER UN VIAGGIATORE di Letizia Gariglio

(articolo pubblicato nel maggio 2021 su Parole in rete)

L’interesse che ha suscitato l’articolo del n. 34 Il viaggio di Dante o mete esotiche?–  nel quale mostravo chiaramente di preferire il primo – e che conteneva alcuni riferimenti ad aspetti astrologici della Divina Commedia, mi ha gradevolmente indotta a proseguire nell’interesse per l’argomento. Ho così deciso di aprire un cassetto su Parole in rete, che chiamerò Dante intrigante. Mi è stato domandato di approfondire un po’ (ma senza esagerazione, si sono raccomandati gli amici) la questione dell’inizio del viaggio di Dante fra i tre Mondi. Preciso da subito che buona parte delle mie modeste conoscenze si fondano sul sapere di un autore nostro contemporaneo, astrologo tolemaico dantesco (per sua stessa definizione), il Prof. Giovangualberto Ceri e su alcune fonti classiche, alcuni libri di astrologia antica e medievale che ho la fortuna di possedere, mentre invece “passano” per autori diversi i riferimenti alle Tavole di Profazio.

Nel porre considerazioni sulle date della Commedia innanzi tutto bisogna cercare di capire a quale Calendario si faccia riferimento. Al tempo di Dante, infatti, non era uno solo ad essere in uso. Sulla penisola italica era diffuso in diverse aree il Calendario a Nativitate, che poneva convenzionalmente la nascita di Gesù il 25 dicembre e in quel giorno aveva inizio l’anno. In altre zone, tra cui Firenze, era in uso un Calendario ab Incarnatione, che poneva la data di inizio anno il 25 marzo. Era una data considerata importantissima perché in essa era stata data a Maria l’annunciazione della gravidanza: da quel momento in poi Gesù si considerava “presente”, già incarnato.  Il 25 marzo era anche l’antica data in cui era fissato l’Equinozio di primavera, che dai tempi di Giulio Cesare  veniva a sua volta considerato il principio dell’anno astronomico. Oltre a questi due stili calendariali ce n’erano altri, che al momento, per necessità di semplificazione,  non prendiamo in considerazione.

Il problema si complica tuttavia se consideriamo che non era solo lo stile calendariale a differenziarsi, ma vi erano discrepanze anche sul conteggio del numero degli anni. Nemmeno qui mi addentro alla questione, che probabilmente non può interessare il lettore dell’articolo, ma arrivo immediatamente alla sintesi, citando le parole  di Renzo Guerci che nel suo saggio “Nel mezzo del cammin di nostra vita ” 1301-2001: settecento anni dal viaggio dantesco (Sotto il velame, III) scrive : «… possiamo dire che quando a Roma fu il 1° Gennaio del 1300 a Pisa era il 1° Gennaio del 1299 e a Firenze addirittura il 1° Gennaio del 1298, poi Pisa entrò nel nuovo secolo il 25 Marzo del 1300, mentre Firenze ebbe il suo anno secolare in quello che noi oggi chiamiamo 1301».

Se noi consideriamo tutti i riferimenti che nella Commedia ci dà sui tempi del viaggio traiamo la conclusione che ci si trova nell’anno 1301 del Calendario attuale , ma che per Dante e Firenze quello era l’anno 1300: il 25 marzo non solo apriva il nuovo anno, ma  anche il nuovo secolo.

I fatti astrologici a sostegno della data 1301 (espresso con il calendario odierno, ma 1300 per i Fiorentini d’allora) sono le seguenti. Sono quattro gli astri segnalati da Dante a scandire lo scorrere del tempo, ed è notevole la particolare attenzione di Dante per le stelle. Nella Divina CommediaInfernoPurgatorio e Paradiso si concludono tutti con la parola stelle, ad affermare  l’importanza del simbolismo astrologico. «E quindi uscimmo a riveder le stelle», così si conclude 

l’ Inferno, per affermare l’uscita dallo stato infernale e il ritorno a quello umano, nel quale è possibile ricevere e godere dell’influsso delle stelle. «Puro e disposto a salire alle stelle»: il Purgatorio si conclude così, aprendo la possibilità di accedere a stati spirituali superiori, attraverso la redenzione ottenuta per mezzo della sofferenza; anche il  Paradiso si conclude con la parola stelle: «l’amor che move il sole e l’altre stelle» per indicare Dio, l’amore che fa muovere il desiderio e la volontà di Dante, nonché il sole e le altre stelle.

Quanto ai quattro pianeti che fissano lo scorrere del tempo, all’inizio della Commedia (Inferno, I, 37-43): «Temp’era dal principio del mattino, / e ‘l sol montava ’n su con quelle stelle / ch’eran con lui quando l’amor divino / mosse di prima quelle cose belle …»: è il Sole ad avanzare da protagonista del cielo, quando si trovava nel segno dell’Ariete al momento della creazione divina. Dunque Dante, personaggio della Commedia, si trovava nel segno dell’Ariete.

Poi l’attenzione va alla Luna (Inferno, XX, 125 – 129):  «Ma viene ormai; ché già tiene ‘l confine / d’ammendue li emisferi e tocca l’onda / sotto Sobilia Caino e le spine; e già iernotte fu la luna tonda: / bene ten dei ricordar, ché non ti nocque alcuna volta per la selva fonda». Caino e le spine è una perifrasi  scelta per indicare la Luna: una leggenda poneva Caino a portare, sulla Luna,  un gran fascio di spine, per espiare il peccato dell’uccisione del fratello. La leggenda era conosciuta in gran parte del territorio italico, e non solo: particolarmente bella quella conservata da Giuseppe Pitré, ma persino Shakespeare  nell’atto V di  Sogno di una notte di mezza estate , riferendosi alla leggenda, fa dire al personaggio Chiaro di Luna: «…Ho da dirvi una cosa, avvertirvi che questa lanterna è la luna, che io sono l’uomo nella luna , che questo fascio di spini è il mio fascio di spine e che questo cane è il mio cane».  Ma torno a Dante: la Luna già tocca il confine fra emisfero australe e boreale, e tocca l’onda, tuffandosi in mare presso Siviglia. Le parole «e già iernotte fu la luna tonda», come dicevo nell’articolo precedente, indicano la luna piena fra il 24 e il 25 marzo 1301 (del nostro calendario) o del 1300 (espresso con il calendario fiorentino). Quella luna aiutò nel viaggio il Poeta.

Terzo paletto astrale: Venere (Purgatorio, I, 19 -21): «Lo bel pianeta che d’amar conforta / faceva tutto rider l’oriente, / velando i Pesci, ch’erano in sua scorta. / I’ mi volsi a man destra, e puosi mente  / all’altro polo, e vidi quattro stelle / non viste mai fuor ch’alla prima gente». Venere, in quel momento del viaggio, fa rifulgere l’Oriente, è posta nella costellazione dei Pesci, costellazione immediatamente precedente quella d’Ariete, segno in cui si trova il Sole, come detto poco sopra. È in posizione occidentale rispetto al Sole (elongazione 43° 49’), tale da apparire molto luminosa.

Scrive G. Ceri (Il segreto astrologico nella Divina Commedia): «…fu proprio l’occidentalità di Venere lucentissima al mattino, umida e debolmente calda secondo una sua propria natura e modo, ad agevolare Dante nell’imparare l’arte di amare».

L’ultimo pianeta, che compare dopo sette giorni dall’inizio del viaggio, venerdì 31/03 dell’anno di cui abbiamo chiarito la numerazione, è Saturno. È collocato nel segno del Leone, in congiunzione con la stella fissa che oggi chiamiamo Regolo. Dante personaggio si trova in Paradiso (Paradiso, XXI, 13/15) e dice: «Noi sem levati al settimo splendore, / che sotto il petto del Leone ardente / raggia mo misto giù del suo valore». E queste ultime parole confermano ulteriormente le date dell’anno fiorentino 1300 (1301 nel nostro computo) perché è solo in quel periodo che Saturno si congiunse al Leone.

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IL VIAGGIO: DANTE O METE ESOTICHE? di Letizia Gariglio

(articolo pubblicato nell’aprile 2021 su Parole in rete)

Oggi se il calcolo della Pasqua non è troppo complicato non è però neppure semplicissimo. Festa religiosa cattolica, la sua data di cadenza viene stabilita dalla Chiesa in base ad alcuni parametri fondamentali. Sappiamo infatti che non cade ogni anno nello stesso giorno del calendario. Si festeggia sempre di domenica, che viene considerato il giorno settimanale della resurrezione di Gesù. La canonizzazione del calcolo ebbe luogo presso il Concilio di Nicea nell’anno 323 d.C., quando si stabilì che cadesse nella domenica successiva alla prima luna piena dopo il 21 marzo, data dell’Equinozio di primavera: quest’anno l’abbiamo festeggiata il 4 di aprile. Siamo a settecento anni dalla morte di Dante, il cui viaggio pasquale ha segnato non solo la letteratura italiana, ma la vita degli studenti di tante generazioni. Dante non partì per le Baleari con altre orde di vacanzieri, come le foto di serrate file agli aeroporti pochi giorni fa ci hanno mostrato (con gran disdetta dei reclusi Covid ligi alle regole italiane), ma compì un itinerario che ancora oggi ci stimola con suggerimenti espliciti o impliciti, domande e risposte, sollecitazioni e risonanze. A settecento anni di distanza dalla sua creazione ancora la Commedia ha il  potere di scavare nella nostra interiorità, ci stupisce, ci interroga nei nostri intimi segreti, ci fa battere il cuore, come capita nei viaggi che compiamo fisicamente, quando ci rendiamo sinceramente disponibili all’avventura, sebbene questo sia un modo di viaggiare divenuto per la maggior parte delle persone sempre più raro.

Gli studiosi tradizionali ritengono che il viaggio dantesco inizi e si compia nel 1300, quando il poeta aveva 35 anni. Nella Bibbia sono presenti molti riferimenti alla durata della vita umana (70 anni) e i 35 anni di Dante nel 1300 indicavano il “mezzo del cammin” della sua vita; del resto anche nel Convivio Dante parla del trentacinquesimo anno di vita.  Inoltre all’inizio del poema, quando alle prime luci dell’alba appare la lonza, prima a palesarsi delle tre fiere, «…’l sol montava ’n sù con quelle stelle / che ch’eran con lui quando l’amor divino / mosse di prima quelle cose belle»: le stelle dunque erano con Dio al momento della creazione.  Si riteneva che in quel momento (il momento della creazione) il Sole occupasse il segno zodiacale dell’Ariete, dunque si era verificato da poco l’Equinozio di Primavera.

Sappiamo che il viaggio di Dante si sviluppa in una settimana. Gli studiosi pertanto ritengono di poter stabilire l’arco di tempo in cui, nel 1300, avvenne il passaggio del poeta attraverso Inferno, Purgatorio, Paradiso. Quando noi andavamo a scuola e ci martoriavamo sul testo critico di Natalino Sapegno, ci veniva indicata come data di inizio del viaggio quella dell’8 aprile, Venerdì Santo, e come data di fine quella del 14 aprile. Una alternativa meno probabile riportava invece 25 marzo/31 marzo. Perché il 25 marzo? Era il giorno di inizio dell’anno per il Comune di Firenze, tra il secolo XIII e XIV, e nel 1300 era anche il giorno d’inizio del nuovo secolo. Inoltre era tradizionalmente considerata la data di anniversario della morte del Cristo.

Noi sappiamo che il diavolaccio Malacoda (Inf,, XXI, 112-114) raccontava che il ponte roccioso fra V e VI Bolgia era crollato per frana, in seguito al terremoto che aveva scosso la terra nell’ora della morte di Gesù (posta a mezzogiorno secondo il Vangelo di Luca – ora sesta). Malacoda dice: «Ier, più oltre cinqu’ore che quest’otta / milledugento con sessanta sei / anni compié che qui la via fu rotta»: sono trascorsi dunque 1266 anni e un giorno, meno cinque ore, da quando avvenne quella frana. Dante seguiva la tradizione di porre la morte del Cristo nell’anno 34 dell’Era Volgare (34 + 1266 = 1300). Quando Malacoda parla sono perciò le sette del mattino (del Sabato?), se stiamo alle sue parole: ma non dimentichiamo che Malacoda è menzognero, tanto che mente sullo stato degli altri ponti. Rimane il dubbio: Venerdì 8 aprile 1300 (Venerdì Santo) o  Venerdì 25 marzo, quando cadeva l’anniversario “storico” della morte del Cristo? Non si sa.  

Ma non basta. Altri dubbi si aggiungono, perché Dante nel suo secondo giorno di viaggio viene incitato da Virgilio  a passare dalla IV alla V Bolgia: deve fare in fretta perché la luna sta tramontando. Dice: «E già iernotte fu la luna tonda: / ben ten de’ ricordar, ché non ti nocque / alcuna volta per la selva fonda». E la luna fu tonda il 5 aprile del 1300: fu quella la notte di plenilunio. Ma il 5 aprile non era venerdì. A quella luna tonda sarebbe seguita la Pasqua di Resurrezione nella prima domenica successiva, il 10 aprile. C’è un altro passo a confortare questa tesi. In Purgatorio Forese dice a Dante, ricordandogli antiche esperienze comuni: «“Di quella vita mi volse costui / che mi va innanzi, l’altrier, quando tonda / vi si mostrò la suora di colui”, / e ‘ll sol mostrai…» (Purg. XXIII, 118 – 121). La suora del sol è la luna, che “l’altro ieri” era tonda. Vero è che che la luna fu tonda, sì, il 25 marzo. Ma quello del 1301. L’ipotesi del 25 marzo 1301 è quella cui oggi do credito, ma che non tutti condividono.

Ma tant’è, dal 2020 è stato dichiarato il 25 marzo come giorno dedicato a Dante, il Dantedì. Se non è proprio quello ritenuto esatto da qualcuno per definire l’inizio del viaggio di Dante nell’aldilà,   porti pazienza. 

Dante astrologo è stato molto generoso nel disseminare nel suo testo numerosi indizi, ma l’interpretazione umana continua a essere qua e là imperfetta. In ogni caso il viaggio dantesco inizia tra Equinozio e Pasqua del 1300 e da 700 anni ci trascina nella vertigine dei suoi spostamenti fra i tre Regni, spingendoci alla ricerca di significati non solo letterali, secondo le indicazioni che l’Autore stesso ci dà nel Convivio, ponendo le basi interpretative del lettore per ogni scrittore: il senso letterale, quello allegorico, quello morale e l’anagogico. Ancora oggi le difficoltà linguistiche ci tengono impegnati con il senso letterale, nella fatica di comprendere la narrazione pura e semplice; il testo ci sollecita nel ricercare il significato velato della condizione dell’anima umana;  in quanto contemporanei di un’epoca assai poco sensibile ai valori morali spesso tralasciamo di ricavare ammaestramenti; in quanto al significato anagogico, vale a dire a “ciò che conduce verso l’alto”, “verso ciò che solleva”, come strumento di conoscenza superiore, ci rendiamo disponibili e accoglienti verso il significato spirituale , ma non sappiamo con quali risultati.

Ci conforta il titolo che Dante diede al suo poema: Comedia. Così: puro e semplice sostantivo, senza aggiunta di aggettivi (fu Boccaccio ad aggiungere l’aggettivo “divina” nel suo Trattatello in laude di Dante). Spiegò Dante stesso che il titolo era ben motivato, in una lettera a Cangrande: «… perché, se guardiamo alla materia, essa è nel suo principio orribile e pauroso, nel fine è lieta, gradita, felice…». Nella Commedia l’esperienza del viaggio si configura con modalità fisiche e metafisiche, reali e simboliche. Nella dimensione del viaggio si delineano le contrapposizioni dei concetti di alto e basso, pensati in senso verticale non solo fisico, ma come metafora di spirituale e materiale, di valevole e irrisorio moralmente, con una concezione cosmologica in armonia con quella tolemaica. Dalla “selva oscura” Dante scende nell’oltretomba e a mano a mano che si dirige verso il basso si aggravano le pene infernali, in conformità dei peccati contro Dio. Speculare all’Inferno si erge conicamente un’isola nell’emisfero australe, e salendo le pene diventano sempre più lievi, mentre i peccatori del Purgatorio si preparano per il Paradiso. Ad esso si accede attraverso i Cieli tolemaici, fino a raggiungere l’immateriale Empireo. Il viaggio verticale di Dante è ascesi verso il divino.

Mi chiedo: che cosa ha in mente il viaggiatore odierno che nelle festività pasquali parte per mete più o meno esotiche, oltre a tagliare la corda della routine, cercare il bel tempo, e magari anche il modo di entrare in contatto con altri (cosa che attualmente, in condizioni di semi-segregazione, ci è impedita?) Mi dà l’impressione che la ricerca di Dio possa essere depennata dal suo pacchetto all-inclusive. Ma da certi viaggi mordi-e-fuggi (con organizzazioni e trasporti già pronti) credo si possa escludere anche quella volontà di ricerca di se stessi che nel tempo ha caratterizzato molti viaggiatori, che hanno desiderato viaggiare per conoscersi, mettersi alla prova, staccarsi dall’abitudine, conquistare autonomia. Nel viaggio molti uomini hanno cercato, attraverso il cambiamento, la ristrutturazione di se stessi, la vivificazione delle proprie energie più profonde. Ma affinché questo accada occorre che il viaggio sia intriso di emozioni non solo paesaggistiche, ma anche umane : se non cambia il vissuto emotivo, che viaggio è? Dove sta l’arricchimento, lo sviluppo di una nuova coscienza? Mi resta difficile considerare queste forme di turismi di massa come dei “veri” viaggi. Non escludo che talvolta possano essere delle forme secolarizzate e imbastardite degli antichi pellegrinaggi, ormai privi di sacralità, ma penso che per molti l’importante sia arrivare sul luogo di “consumo” della vacanza e non la vera pratica del viaggio come spostamento.

Dante pone nell’Inferno il più grande viaggiatore del passato, Ulisse, perché si è lasciato tentare dal desiderio di viaggiare per conoscere , senza che il desiderio fosse supportato dal sostegno morale, ma solo dalla volontà di conoscenza.  Dove metterebbe certi turisti?

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MICIDIALI PER IL VIRUS di Letizia Gariglio

(articolo pubblicato nel mese di marzo 2021 su Parole in rete)

Guerre a lungo termine? Conflitti a fuoco? Delitti di mafia? Azioni terroristiche? Finiti, estinti, sradicati, forse. Almeno, così sembra, se stiamo allo spazio mediatico che viene loro concesso dall’informazione mainstream. Solo Covid, nient’altro che Covid, per sempre Covid: nulla di diverso sembra interessare i media radiotelevisivi di grande diffusione. Il tema dominante prende spazio di giorno in giorno, e si direbbe a livello internazionale, sebbene vi siano Paesi in cui se ne parla in modo un po’ più moderato e discreto  rispetto al nostro. Il risultato dell’informazione è sotto gli occhi e le orecchie di tutti, ma pochi sembrano vedere o sentire veramente e docilmente l’opinione pubblica si è rapidamente inginocchiata, senza protesta, a uno status quo per cui in alcuni paesi, e senz’altro nel nostro, si è rinunciato a un principio giuridico fondamentale riguardante lo stato, vale a dire la divisione fra poteri legislativo, giudiziario, esecutivo.

Il Covid 19 sta rappresentando oggi, con l’impatto che ha messo in campo in Italia, la fine di un’era e l’inizio di un’altra nella quale si è ingigantito il dominio del governo su quello del Parlamento: si sono infatti prodotte centinaia di atti, tra decreti, nazionali e regionali, norme, ecc. contenenti disposizioni per le misure d’emergenza, che non sono passate al vaglio del Parlamento. Il nostro Codice di protezione civile, all’articolo 24, che si occupa della Gestione delle emergenze, ammette la deliberazione di uno stato d’emergenza nazionale, le cui (gravissime) motivazioni vengono indicate all’articolo 7 dello stesso Codice: eventi calamitosi sempre di origine naturale o derivanti dall’attività dell’uomo. Ma è la prima volta che lo stato di emergenza viene dichiarato a causa di una epidemia, e di un conseguente rischio sanitario. I vari provvedimenti, succedutisi in questo anno trascorso uno dopo l’altro, hanno visto la creazione di zone di colore diverso e l’inaugurazione di una strategia grazie alla quale la figura del presidente del Consiglio è stata ampiamente valorizzata ,anche perché questa figura governativa si è arrogato il ruolo centralizzato di decisore e di comunicatore delle decisioni. Così, nell’arco di circa un anno, molti diritti costituzionali sono stati, per così dire, sospesi. Recentemente lo stato di emergenza è stato nuovamente prorogato, ma il peso della limitazione comincia a farsi sentire con maggiore forza, a causa del prolungarsi nel tempo di molte forme di restringimento delle facoltà personali, che prevedono la chiusura di molte libertà, come quella di soggiorno, di circolazione a livello nazionale, inter-regionale, o fra comuni. Si aggiungono le coercizioni riguardanti gli spostamenti di merci e persone via aerea, ferroviaria, e così via. Fra tutte le restrizioni si è percepita particolarmente quella della libertà sociale, che ha bloccato assembramenti anche di un numero minimo di persone, le riunioni, la vita associativa, comprendente quella delle attività sportive, artistiche, di divertimento e persino quelle familiari. Dalle limitazioni sociali sono derivati i guai della scuola e della frequenza in aula, nonché il blocco delle attività scolastiche de visu, che di fatto comporta, almeno per alcuni studenti,  la perdita del diritto di istruzione e cultura e l’accesso allo studio.

Io mi domando costantemente se molti freni posti dallo stato di emergenza siano proporzionali e adeguati alla situazione in atto. Molte forme di controllo mi suscitano perplessità, essendo davvero molto invasive della libertà personale, oltre a esercitare una grande compressione sull’economia, impedendo la libertà economica, la libertà al lavoro. Eppure, l’emergenza continua…

Credo sia essenziale che si applichi finalmente all’emergenza la categoria della temporalità limitata, che l’orchestrazione della paura lasci il posto al ripristino dei diritti fondamentali. È ora che la paura del virus sia scalzata dalla paura che l’emergenza si trasformi in normalità, con una sospensione prolungata, sine die, delle garanzie costituzionali; è ora che si faccia strada la paura che il fine possa giustificare i mezzi.

Il problema è tremendamente attuale, ma a quanti cittadini interessa porsi domande sulla compatibilità di misure d’eccezione che, pur essendo prese per tutelare la collettività, vanno a cozzare con la (vera) pratica della democrazia? Chi si domanda perché, per affrontare una situazione difficile, occorra sospendere le garanzie individuali e costituzionali? In quanti siamo a intravedere, nella conduzione di circa un anno delle misure d’emergenza, un  certo disprezzo per la libertà della democrazia parlamentare? Certo, un Parlamento abituato a bisticciare rumorosamente, spesso assenteista, chiassoso, pettegolo e lento come il nostro è una macchina infernale per affrontare un’epidemia (stento a chiamarla pandemia). Ma non possiamo dimenticare che la nostra Costituzione non ha un articolo per regolare lo stato di eccezione, di emergenza. I padri Costituenti non commisero una dimenticanza, semmai una consapevole omissione. Non avevano dimenticato il disastro provocato dall’articolo 48 della Costituzione di Weimar che così recitava: «Il presidente può prendere le misure necessarie al ristabilimento dell’ordine e della sicurezza pubblica […] A tale scopo può sospendere in tutto o in parte l’efficacia dei diritti fondamentali…» Fu quello a permettere la nascita della dittatura nazista.  Che esagerazione!, sarà pronto a commentare qualcuno. È vero, forse non siamo di fronte a una macchinazione così perfetta. Sarà l’eterna italica imperfezione a salvarci? Potremo crogiolarci ancora nella dolce promessa che il nostro proverbiale disordine confusionale possa sollevarci da più grandi pericoli? E allora sguazziamo fra decreti, ordinanze, circolari ministeriali e di enti vari, provvedimenti amministrativi, misure costrittive ma non troppo, limitazioni di libertà di vario colore,  di domiciio, soggiorno, circolazione…molti dei quali contraddittori, e facciamo come siamo abituati a fare:  proviamo a galleggiare nel mare delle incongruenze, speranzosi… tanto prima o poi il virus di noi non ne potrà più.

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LO SHOW DELLA PAURA di Letizia Gariglio

(articolo pubblicato nel febbraio 2021 su Parole in rete)

Gli Stati e le società occidentali degli anni del Novecento, di impronta fordista, si fondavano pressapoco fino agli anni ’70 su un’organizzazione che si manifestava negli aspetti economici come su quelli sociali e politici: il substrato che reggeva l’impianto era costituito dall’industria. Lo Stato era in grado di fornire alcune sicurezze, alcune “protezioni” che si irradiavano dal piano individuale a quello collettivo e viceversa. Era in qualche modo un’organizzazione granitica, che offriva, insieme ai grandiosi difetti del liberismo di epoca industriale anche la certezza di uno Stato per lo più funzionante. Quella certezza formava in qualche modo l’individuo, ne plasmava la psicologia, lo manteneva inserito in un quadro stabilizzante. Inserite in un contesto sociale mutevole in maniera lenta, le persone erano in grado, pur nelle difficoltà, di immaginare un futuro, di porsi delle prospettive, di progettare le proprie esistenze.

Nel giro di pochi anni è iniziata  – e si è compiuta – la disgregazione di quel mondo, di quella certezza, e la precarietà è divenuta in generale la caratteristica dominante dei nostri destini, del lavoro, delle relazioni. Oggi è persino difficile trovare un senso al primo articolo della Costituzione Italiana,  che recita «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Quale lavoro?

Il sentimento di incertezza pervade la vita di molti di noi: dei giovani, per l’impossibilità di costruire progetti, degli anziani, per i rischi che individuano nell’ambiente e nella salute, di molti, che temono conseguenze di immigrazione e diversità… Siamo in piena liquidità (tranne quella del portafogli, che del resto presto con l’eliminazione del contante  non servirà più…), in quella condizione che ci catapulta direttamente nel sentimento oggi dominante: la paura. E, secondo ciò che scriveva Bauman, noi abbiamo paura per il nostro corpo e i nostri beni materiali, per le minacce rivolte alla stabilità nostra e dell’ordinamento sociale in cui ci troviamo inseriti, per il nostro status, la collocazione e il ruolo che ricopriamo all’interno della società.

Impossibilitati ad aggrapparci alla forza della ragione (che meraviglia, l’Illuminismo!) ci sentiamo costantemente incerti nel presente, dunque impossibilitati a proiettare il presente nel futuro, che temiamo più del presente, sovrastati come siamo dalla sensazione che i risultati non dipendano necessariamente dalle nostre azioni, dunque consapevoli di essere fondamentalmente impotenti. Così viviamo in una condizione costante di paura, ed è proprio il ricorso alla paura che i poteri forti attuano per manipolare le coscienze. Tutto il sistema dei media serve ad acuire  la paura, amplificandola con le notizie peggiori, ma più spesso inventandole. Così viviamo sottoposti a   tecniche di manipolazione, basate su una forma di paura che ci viene propinata quotidianamente, lenta, strisciante, corrosiva, capace di avvelenare lentamente e efficacemente emozioni, pensieri e di indebolire via via sicurezza, capacità critica e volontà. 

Quanta diversità ha questo nostro modo di provare paura e quello cui ci ha abituati la Letteratura. Mi limiterò, a titolo esemplificativo, al modo con cui tratta la paura il Padre della nostra lingua. È la paura a occupare i primi versi della Divina Commedia, suscitata dalla selva oscura «selvaggia e aspra e forte»: è l’ignoto a spaventare il Poeta nel «mezzo del cammin» di sua vita, ma alla «selva oscura» Dante sembra affacciarsi all’improvviso, colmando il suo animo di terrore. Ma poco dopo può alzare gli occhi verso il colle e vederne i fianchi  illuminati dai raggi del sole, e così può lasciare spazio dentro di sé alla speranza. Subito dopo saranno le fiere a incutergli paura, ma una nuova via di salvezza si profilerà, nella figura di Virgilio. La paura si ripresenterà nel III Canto davanti alle porte dell’Inferno, dove la possibilità della speranza sembrerà cedere di fronte all’iscrizione « Lasciate ogni speranza voi ch’entrate». Che paura educata, quasi burocratica, con quel suo avvertire chiaro e indiscutubile, con il valore di legge: una legge così poco italiana, oserei dire, priva di postille, note, notarelle e commi, come siamo invece abituati a leggere nell’abitualeincomprensibile burocratese. Insomma, se c’è da avere paura, che cosa c’è di meglio se non capirlo da subito con un chiaro avvertimento? Poi ancora la paura si sporge sulle rive dell’Acheronte, suscitata dall’oscurità infernale, dalla violenza acustica dei suoni, dove paesaggio e personaggi formano tutt’uno, e può dilagare mentre Caronte urla e minaccia.  Il sentimento si ripresenta ancora ad ogni discesa di cerchi infernali, ma si colorisce in modo acceso nel Canto forse più comico, il XXI, nell’incontro con i Diavoli e il rischio della pece.Dopo averli beffati, però, Dante teme la loro vendetta («…la prima paura si fé doppia”) e si sente «arricciar li peli / dalla paura…»; con Virgilio fugge dalla bolgia, scivolando supino lungo il pendio. 

Insomma, è possibile osservare come la paura, nei versi di Dante, sia sempre esplicita, motivata in modo chiaro da una causa percepibile  con la partecipazione di tutti i sensi (vista, udito, tatto…) e distinguibile con precisione: è un moto dell’animo suscitato da cause individuabili e ragionevolmente indicabili.

Ma come è oggi la paura? E come ci comportiamo noi, dipendenti mediatici, drogati di informazione? Ci alimentiamo, certo, delle informazioni, che sono volentieri catastrofiche, ma soprattutto del framing, vale a dire della cornice nella quale ci vengono propinate. Facciamo l’esempio del coronavirus? Ci terrorizzano con i contenuti, ma soprattutto con le immagini di. scafandri, morti viventi nella plastica, mascherine, maschere e caschi, mentre sullo schermo, sulla vetrina delle farmacie, spettralmente si legge «disinfettanti e mascherine terminati». Intanto  sulle poltrone salottiere si contrappongono litigiosamente scienziati veri e finti , alla moda o démodé, tutti piuttosto terrificanti nelle loro previsioni. Il risultato è sempre lo stesso: «non pensare all’elefante», ed ecco che riusciamo a pensare solo a quello. La pressione aumenta ancora e i comunicati più o meno ufficiali si succedono uno all’altro contraddicendosi e creando grande confusione; l’incertezza ci rende dimentichi di avere pur sempre un cervello e ingurgitiamo benevolmente qualunque scorrettezza. Ce lo fa notare il nostro filosofo più importante, Giorgio Agamben, che semplicemente riportando i dati in modo ordinato ci induce a leggerli,  ma a leggerli veramente. E così finalmente chi ha fatto questo sforzo ne constata l’assurdità. Eppure, sulla base di questi dati assurdi intanto abbiamo perduto le libertà costituzionali, abbiamo abdicato alla nostra vita sociale, perché abbiamo permesso che ci sia stata cancellata e…viviamo nella paura, mentre il vero nemico si rende sempre meno riconoscibile, simbolicamente occultato in ambiente a lui simbiotico.  A noi viene a mancare un forte movimento d’animo, come quelli che Dante ci ha ben descritti e che spingono alla fuga, oppure alla lotta: annichilito il nostro coraggio, siamo impediti nel ritrovare fiducia nella vita, nel destino, nell’azione. Solo se la paura è percepita come tale conduce ad affrontare con audacia il passo a venire, per cercare salvezza e se necessario ad attaccare.

Noi, invece, rimaniamo inerti. Il costante stato di ansiosa paura in cui ci costringono a vivere è quello servile mostrato da Hegel nella Fenomenologia dello spirito:  è la condizione di chi rinuncia a ergersi per paura e accetta di subordinarsi a un padrone.

Evviva il virality show!

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SCUSI: CHE ERA È? di Letizia Gariglio

(articolo pubblicato su Parole in rete nel gennaio 2021)

Immaginiamo una persona che dall’alto osservi il Polo Nord. Se la persona avesse la pazienza di restare lì per un intero anno (magari il novello 2021) vedrebbe compiersi una rivoluzione completa della Terra intorno al Sole, in senso antiorario. L’orbita che vedrebbe disegnarsi nel compiersi della rivoluzione noi la chiamiamo eclittica. La terra però non è del tutto “ben ordinata” perché l’asse terrestre, che noi immaginiamo infilzato nei due Poli, non è esattamente perpendicolare all’orbita di rivoluzione, cioè all’eclittica: il piano dell’Equatore infatti è inclinato rispetto all’eclittica di 23°27.Nel giorno  – e nel momento – dell’Equinozio di Primavera e di Autunno il Sole si trova esattamente sopra l’Equatore: le due linee di eclittica e equatore si intersecano coincidendo in due punti. La Terra, poi, compie anche il suo lavoro di rotazione su se stessa nell’arco delle 24 ore, ma la forza di gravitazione di Sole e Luna fanno oscillare l’asse passante per i Poli che traccia nello spazio due coni simmetrici, simili a quelli disegnati da una trottola (nell’arco di 25.900 anni circa).

A causa di questo moto i poli celesti si spostano e la stella che indica il Nord non è sempre la stessa nel corso del tempo: Alpha Draconis, per esempio, era la stella di riferimento 5000 anni fa (la Grande Piramide è ad essa allineata); oggi è la Stella Polare (Polaris); fra circa 14.000 anni è previsto sia Vega. Il risultato dello spostamento dell’asse si definisce Precessione degli Equinozi, fenomeno che vede ogni anno anticipare l’Equinozio di circa 50 secondi (50,37’’). Così «la terra, trottola il cui asse si trova inclinato rispetto all’attrazione solare, si comporta come un giroscopio gigantesco che compia una rivoluzione ogni 25920 anni», scrivono Giorgio De Santillana e Hertha Von Dechend nel saggio sul mito e la struttura del tempo Il mulino di Amleto, testo in cui gli autori intrecciano ricerche e analisi sia sulla questione astronomica sia su quella astrologica relativa alla precessione degli equinozi, descrivendo attraverso i racconti mitologici questa macchina del tempo dotata dei suoi ingranaggi.

 La tradizione astrologica occidentale (immenso serbatoio di conoscenza) si interseca con il sapere astronomico, ma vi sono delle differenze terminologiche che riflettono differenze sostanziali. Infatti nell’astrologia occidentale da circa 2000 anni si adoperano i nomi dei segni zodiacali, ciascuno dei quali per convenzione occupa una porzione di 30° (dei 360°) e si afferma che il segno nel quale ha luogo l’Equinozio di Primavera si chiama Ariete: nella realtà astronomica la costellazione che sorge all’Equinozio di Primavera insieme al Sole è in questa fase storica della terra la costellazione dei Pesci. Anche in futuro, per convenzione, probabilmente l’astrologia lo chiamerà Ariete, anche se ben sappiamo che sarà la costellazione di Aquario a ospitare l’Equinozio di Primavera. La definizione dell’accadimento dell’Equinozio di Primavera sempre in Ariete è stato stabilito circa 2000 anni fa in quello che potremmo ritenere il più importante manuale astrologico del passato, il Tetrabiblos di Claudio Tolemeo, che puntellava al ciclo delle stagioni il ciclo del cielo. Dal principio della storia della terra sappiamo che il punto equinoziale di Primavera si è prima trovato in Toro, poi in Ariete, poi in Pesci e il futuro lo vedrà ospite di Aquario.

A differenza dell’astrologia occidentale l’astrologia indiana, di fondamento vedico, basa i suoi calcoli sulla realtà, in diretto e vero rapporto con le costellazioni, facendo riferimento allo Zodiaco siderale (l’astrologia occidentale usa quello tropico).

La questione è piuttosto rilevante per le eventuali predizioni relative a vite individuali, come è uso redigere all’entrata dell’anno nuovo. Ma qui non ci si vuole mettere in corsa per formulare le previsioni per il 2021 appena iniziato, ma si è molto incuriositi dalle ipotesi di alcuni studiosi di astrologia in attesa dell’Era di Aquario, pronti a profetizzarne l’inizio proprio ora, essendosi verificato il congiungimento di due grandi pianeti, Giove e Saturno, appena avvenuto il 21 dicembre 2020 a 0 gradi di Aquario, secondo i calcoli delle Tavole delle Effemeridi ( nel segno invece del segno di Capricorno secondo lo Zodiaco siderale).

Se i lettori saranno stati incuriositi, come me, dalle mille previsioni reperibili in Rete sul nuovo anno, è possibile si siano trovati a contatto con osservazioni e riflessioni in grado di trascinare persino il grande Leonardo da Vinci nel melting-pot delle analisi astrologiche, che coinvolgono forme diverse di astrologie, ma anche arte, letteratura, pittura… così potremmo partire dall’osservazione del grande dipinto di Leonardo Da Vinci, il Cenacolo, nel tentativo non tanto di dare una risposta alla domanda iniziale( che era è?) quanto  di capire fino a che punto una Era potrebbe essere protagonista del dipinto.

Seguirò ora una linea di analisi del dipinto, proponendo un’interpretazione del quadro in senso astrologico. Nell’ultima Cena è possibile che venga idealmente e praticamente sviluppato lo Zodiaco. Nel dipinto Gesù (che rappresenta il Sole) si trova in posizione centrale ed è circondato dagli Apostoli. Circondato è la parola più appropriata se si pensa di unire idealmente in senso circolare alle spalle dell’osservatore  la linea che nel dipinto si sviluppa su un piano orizzontale (il piano della tavola). Se si osservano gli Apostoli si vede che sono raggruppati in quattro gruppi di tre persone. Un solo Apostolo tiene un mano un sacchetto di monete e ciò renderebbe riconoscibile la figura di Giuda Iscariota ( che tradì Gesù in cambio di denaro). Va detto anche che la posizione di Giuda nel terzetto è centrale e dunque, se accetteremo di cercare una corrispondenza fra Apostoli e segni zodiacali, questa posizione metterà in relazione con un segno cardinale.

Osserviamo ora i piatti disposti sulla tavola, tutti sono vuoti, tranne nei due casi dei piatti di portata: uno contenente pesci, l’altro contenente pane. Le due posizioni starebbero a indicare nel primo caso il segno dei Pesci, nell’altro la Vergine, chiamata anticamente “La Casa del Pane”. I due piatti di portata sono a sei posizioni uno dall’altro, come lo sono Pesci e Vergine, che formano fra loro un angolo di 180° nello Zodiaco (6 X 30°), trovandosi in opposizione fra loro.

Se Pietro (Simon Pietro, il pescatore) rappresenta la costellazione dei Pesci, l’apostolo che lo segue dovrebbe rappresentare nello Zodiaco il segno di Aquario. Dunque il segno di Aquario è rappresentato da Giuda.

Nella rappresentazione di Leonardo l’apostolo Pietro è nell’atto di sporgersi con il proprio corpo oltre Giuda, sormontandolo alle spalle. Che senso avrebbe suggerire che una Era (quella di Aquario), rappresentata da Giuda il traditore, sia traditrice? Come potrebbe tradire un Eone, vale a dire una “parte di tempo” di 25920 anni destinata a scorrere? Tradire il suo compito equivarrebbe all’azione di   non-scorrere. Questa idea ci rimanda ancora a Il mulino di Amleto, ricordandoci del personaggio Amleto, che nel poema shakespeariano è senz’altro il principe di Danimarca, ma fu, molto prima, un personaggio al centro di storie di molteplici tradizioni letterarie, tra cui quella unno-finnica, in cui è il proprietario di un mulino. Il mulino di Amleto è, in ogni storia, dalla Mesopotamia all’America latina, uno sfigato, a cui, a un certo punto del racconto, si scardina la macina del mulino e tutto viene precipitato con gli ingranaggi in fondo al mare. Von Dechend e De Santillana analizzano tantissime  storie di tradizione diverse e ci spiegano che lo scardinamento del  mulino rappresenta lo scardinamento del cosmo. Un disastro immane coinvolge il cielo, la terra e gli uomini, scatenando diluvi e terremoti, devia il corso della storia. Lo sconquasso della terra è dovuto a quello del cielo, dove il mulino rappresenta quel girare e girare zoppicante dell’asse terrestre rispetto all’eclittica.

«Giro giro tondo / casca il mondo / casca la terra / tutti giù per terra», recita una nostra infantile filastrocca, che tuttavia, come tutte le storie di Amleto, conserva la memoria di certi fatti avvenuti nella storia del nostro pianeta. In parole povere ci si trova di fronte a centinaia di miti che raccontano del fenomeno della precessione degli equinozi e di avvenimenti da essa causati (qualcuno ipotizza nel passato la “caduta” dell’asse terrestre).

Prontamente balziamo dalla sedia, ma per risederci subito dopo, costretti come siamo a ributtarci in Rete, dove anche noi ci facciamo pescatori, ma non per travalicare l’Era d’Aquario , su cui non avremmo alcun potere, ma almeno per trovare buone notizie e per spostare l’inizio un po’ più in là. Sono certa che i lettori, come me, lasciato il 2020, non ne vogliano più sapere di difficoltà celesti, perciò, liquidati definitivamente i profeti che desiderano e preconizzano il principio ravvicinato (o appena avvenuto) dell’era d’Aquario, noi diventiamo improvvisamente molto “scientifici” e come non mai diamo tutta la nostra fiducia agli astronomi (in barba agli astrologi), che con distaccata e fredda sicurezza ci dicono che l’Era d’Aquario comincerà nel 2587. Evviva.

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VIVA I BALOCCI di Letizia Gariglio

(articolo pubblicato nel dicembre 2020 su Parole in rete)

L’Italia, rispetto a altri paesi, ha una storia strana: quando ancora non esisteva una nazione aveva , almeno nella sua idealità, una lingua. La lingua italiana si è configurata come tale in alcuni secoli di storia  (pochi secoli), preceduti dall’esistenza di una lingua madre diffusa in tutto il territorio, in cui era confluito il flusso di una cultura e di una civiltà di tipo unitario, quella latina-romana. L’Italia durante l’Impero non costituiva la “periferia dell’Impero” (prendo a prestito un’espressione di Umberto Eco, che la applicò però agli USA),   e fu ordinata secondo principi e fatti di unitarietà di istituzioni giuridiche e politiche se non, almeno nei comportamenti, di costumi. Dunque in un tempo in cui l’Italia non esisteva come stato unitario, ma solo come entità geografica, essa guardava in avanti fondando alcune aspirazioni di unitarietà sulla storia passata, che l’aveva vista cuore pulsante del mondo. Aspirava  innanzi tutto a una nuova unitarietà di lingua, fondando il proprio anelito su basi letterarie e poetiche. Non era un desiderio alla portata di tutti. L’aveva compreso Dante, che delineava l’Italia come quello spazio geografico, quell’area territoriale su cui si sarebbe diffusa una lingua letteraria, un volgare letterario cui avrebbero portato il loro importante apporto i letterati, in primis quelli toscani.

L’Italia, insomma, fu prima creata, immaginata, perseguita dall’immaginazione appassionata di letterati e poeti e solo poi, molto tempo dopo, realizzata su un piano politico. Che dire se tuttora gli italiani hanno scarso senso della nazione? Non era una nazione, non esistevano che stati e staterelli e etnie differenti nelle quali si riconoscevano i popoli (da intendersi al plurale).

Eppure la dotta volontà di alcuni ha fatto sì che  si prefigurassero, si progettassero e si producessero una lingua e  una letteratura, in grado poi di prefigurare, progettare e produrre anche una nazione: ancora oggi giovane, di scarsa storia, di durata per ora inconsistente, se paragonata a quella di altri popoli e altre nazioni dell’area europea. La condivisione della lingua tiene impegnati gli italiani da più di 150 anni accompagnandosi allo sforzo di riconoscersi in una identità di patria.

Lo stato francese, quello britannico, quello spagnolo, quello tedesco furono fondati sulle rispettive monarchie, che crearono le condizioni preliminari sia politiche sia amministrative sia economiche affinché si innescasse un senso di identità dei sudditi (pur con infinite tensioni) in quella cosa che chiamiamo patria. La  condizione per cui lo stato crea la nazione non è applicabile all’Italia. Tuttavia l’Italia esiste da  molti secoli, è esistita, prima di esistere come nazione, come entità culturale e linguistica, in cui sono confluita le varietà delle culture in una sorta di nazione spontanea.

A che punto è oggi questa lingua che fu capace di fungere da principio creatore di questa unità? Per rispondere prendo a prestito le parole di Collodi: 

«Su tutte le piazze si vedevano teatrini di tela, affollati di ragazzi dalla mattina alla sera, e su tutti i muri delle case si leggevano scritte col carbone delle bellissime cose come queste: Viva i balocci! (invece di balocchi): non vogliamo più shole (invece di non vogliamo più scuole): abbasso Larin Metica (invece di l’aritmetica) e altri fiori consimili».

Oggi le piazze (vere) sono vuote, nessun ragazzo si sognerebbe di filarsi il teatrino dei burattini, il carbone è troppo inquinante anche per le stufe e ora chi scrive sui muri si chiama writer, ma lo fa con bombolette; tuttavia non siamo privi del nostro Paese dei Balocchi, dove le cose funzionano come in quello della Cuccagna 24 ore  su 24. I giochi si sono modernizzati:”chi giocava alle noci”, “chi alle piastrelle” oggi si cimenta in forme di gioco on line più raffinato ma altrettanto ipnotico, “chi faceva i salti mortali”, “chi cantava” “chi recitava” “chi mangiava la stoppa accesa” si sono centuplicati insieme a “chi rifaceva il verso della gallina quando ha fatto l’ovo” e a “chi si divertiva a camminare colle mani in testa e con le gambe in aria”.

Sulla piazza virtuale si ripete e si amplifica tutto quanto sperimentò Pinocchio,  con qualche piccolo aggiustamento di forma rispetto al Paese letterario.

In modo nello stesso tempo più vario ma non sempre più raffinato la piazza delle Rete offre ogni mercanzia idonea a stupefarci, non solo, offre nel contempo l’opportunità di essere creatori di incanti dedicati a altri. Peccato che le molte forme di creazione sul web, per quanto originali e divertenti, si accompagnino spesso alla trascuratezza della lingua: ciò vale in generale e ancor più in italiano. La lingua italiana  che si adopera sul web per comunicare è, secondo molti sociologi, la prima vera lingua italiana usata in forma scritta in modo libero, svincolata dai suoi aspetti più colti, da quella lingua cioè che per circa un secolo dopo la formazione dell’unità d’Italia era rimasta inamidato appannaggio delle classi alte (gli altri nella vita quotidiana continuavano a parlare il dialetto).

La lingua del web – credo che ciascuno possa constatarlo e non ci sia bisogno di ulteriori dimostrazioni –  è piuttosto povera, elementare, spesso priva di espressioni connotative, scarsa di livelli espressivi elaborati. Il degrado è esposto all’orecchio e all’occhio di tutti: è reale imbarbarimento. Le costruzioni delle frasi sono approssimative, zoppicanti sia  sotto il profilo grammaticale che quello lessicale. Tutti se ne fregano degli errori ortografici, come se fossero inesistenti e non incidenti sulla comprensione di quanto scritto. Il lessico si riduce a una manciata di parole numerabili, cui rispondono altrettanti concetti, oltre i quali nessuno si azzarda. I tempi verbali, che consentirebbero nel nostro patrimonio linguistico costrutti dinamici e varietà sintattiche, sono scarnificati e ridotti ai tempi della realtà, con netta preferenza per il solo presente (solo indicativo, è ovvio: vade retro, congiuntivo!).

Alla povertà semantica si aggiunge uno sproloquio smisurato nella lingua cosiddetta inglese (ma che risponde anch’essa a un inglese rudimentale)funzionante ai minimi termini, ridotta a fungere in modo scarno e rozzo da lingua franca.

Confesso di non avere ancora capito se quest’uso così sconsiderato dell’inglese (o di che per esso) dipenda dalla volontà di chi lo adopera di apparire ben adattato al mondo globalizzato, in linea con i tempi. Sono sicura però dell’effetto di questo comportamento esterofilo e falsamente cosmopolita: mette noi italiani in una posizione del tutto subalterna, in definitiva ci rende dei sottoposti a una nuova forma, passiva, di colonizzazione.

Non è solo l’impasto mal riuscito con l’inglese a preoccupare, è anche la sciatteria che accompagna l’italiano digitato, che non è né scritto né parlato, ma che si serve di registri linguistici bassi, informali, simili a quelli del parlato, evidenziando però nello scritto le trascuratezze.

Abbondano le tachigrafie, gli acronimi (che personalmente detesto perché perdo concentrazione nella lettura nello sforzo di ricordarmi il significato), abbreviazioni di tutti i generi, gli emoticon, gli emoji, pezzi di frasi in dialetto, scrittura senza spazi, cui si aggiungono (finalmente!) Invenzioni di parole nuove, fino ad arrivare a forme di gramelot o comunque di registri di gruppo. Naturalmente in tutto questo abbiamo già dato addio alle maiuscole, o meglio all’uso tradizionale delle maiuscole, che invece servono futuristicamente a ingrandire la forma delle parole in corrispondenza dei concetti più importanti (Marinetti ne sarebbe estasiato). 

A dire il vero credo che Tomaso Marinetti oggi sarebbe estasiato anche dell’uso che si fa dei segni matematici (+, – X, ecc.) come propugnava nel Manifesto Tecnico della Letteratura, ma ancor più trarrebbe soddisfazione nel vedere ottenuto il risultato che auspicava, quando affermava: «Io vi ho insegnato a odiare le biblioteche i musei, per preparavi a ODIARE L’INTELLIGENZA». O ancora quando diceva e scriveva: « Bisogna distruggere la sintassi». 

Quanto alla punteggiatura in Rete, vincono i punti esclamativi, talvolta in equo accompagnamento agli interrogativi, con cui formano legioni. Pare piacciano tanto i tre puntini  (odiatissimi da me), che nel frattempo, forse per farmi dispetto, si sono allungati ad libitum. Non mancano il turpiloquio, le offese, l’aggressività verbale, malgrado il tentativo del politically correct di annacquare tutto.

Come finirà la nostra lingua? Come finiremo noi italiani?

«[ … ]quando una mattina Pinocchio, svegliandosi ebbe come si suol dire una brutta sorpresa che lo mise proprio di malumore.

E questa sorpresa quale fu?[ … ] fu che Pinocchio, svegliandosi si accorse [ … ] che gli orecchi gli erano cresciuti più di un palmo e vide la sua immagine abbellita di un magnifico paio di orecchi asinini ».

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TALVOLTA UNA MASCHERA DICE PIÙ COSE DI UN VOLTO di Letizia Gariglio

(articolo pubblicato su Parole in rete nel novembre 2020)

«Talvolta una maschera dice più cose di un volto», affermava Oscar Wilde. In questi tempi sul nostro volto applichiamo un finto volto. Lo  scopo non è evitare di essere riconosciuti, nessuno di noi (o quasi) è contento di rinunciare alla propria identità, ciascuno accetta di applicare il diaframma imposto accompagnando al gesto una dose di superstiziosa speranza, diversa per ognuno, di preservare la  salute personale; qualcuno più virtuoso si vanta di voler preservare anche la salute degli altri. Riponiamo nella attuale maschera l’aspettativa che il virus tanto temuto la veda, la riconosca, se ne allontani spaventato. Noi sappiamo in modo scientificamente provato, e dunque in modo razionale, che non può proteggerci più di quanto potrebbe fare una gratella nel ripararci dall’acqua, però una parte di noi, del tutto irrazionale, crede, o finge di credere, che davvero il camuffamento salvaguardi la nostra incolumità. Un fragile, sottile dubbio mi percorre: che anche questa maschera possieda un fondo, un residuo, un’impronta di qualche rituale magico? Forse si propone, come le maschere gorgoniche di valore apotropaico, di spaventare e allontanare le presenze umane o demoniache indesiderate. 

Certamente uno fra gli aspetti più belli della figura umana, quello del sorriso, è definitivamente penalizzato. Konrad Lorenz ci ha spiegato quanto il sorriso sia stato importante nell’evoluzione dell’umanità, con la sua funzione di ritualizzazione  dell’aggressività: si mostrano pur sempre i denti! In ogni caso, anche quando sorridiamo in modo più discreto, attraverso il sorriso comunichiamo qualcosa. E per farlo abbiamo bisogno di molti muscoli, coinvolgiamo le guance, le labbra, per confermare una condizione relazionale, per rivelare uno stato d’animo, per trasmettere ad altri il nostro compiacimento, per offrire disponibilità e cordialità, per incoraggiare, ma anche per ammettere la nostra timidezza, per suggerire un quid di ironia, per introdurre dubbio o imbarazzo. Dietro la mascherina tutto questo va perduto.

C’è un ulteriore aspetto preoccupante, legato alla respirazione, di tipo fisico e insieme spirituale. “Prendendo” aria  alimentiamo il nostro apparato respiratorio, che si connette a quello nervoso, in un tutto organico.Le pratiche yogiche della respirazione profonda hanno lo scopo di favorire una migliore ossigenazione a livello fisico, che produce energia nonché benefici effetti su sistemi diversi, compreso quello linfatico, aiutando a calmare, a eliminare stress e ansia. Chiaramente sul piano puramente fisico la mascherina procura dispnea, dal momento che la protezione si riempie in fretta e trattiene anidride carbonica. Ma ha una valenza negativa anche sul piano spirituale, di fatto bloccando un atto respiratorio pieno. In un’ottica non materialistica, infatti,  il respiro è il tramite fra il piano del corpo fisico e quello, più spirituale, dei corpi sottili. Dare valenza negativa a una corretta respirazione, di fatto impedendola, umilia profondamente la “via dell’armonia”, come ben sanno tutti coloro che attuano pratiche di meditazione con tecniche di respirazione, le quali hanno lo scopo di far assorbire prana e energia vitale: la sorgente principale di prana è l’aria.

A parte ciò dobbiamo ammettere che la “mascherina” riesce benissimo nella sua azione di dividere, distanziare, separare, disgiungere… fino al temuto risultato finale del frammentare, disunire, disgregare. Sento con raccapriccio che questa roba, di cui forse vogliamo sminuire il potere chiamandola “mascherina”, non ci fornisce, malgrado il diminutivo, una qualità ulteriore di espressione, ma ce la toglie: se non nasce come mezzo di nascondimento, certo lo diventa.

Qualcuno (pochini) avverte il pericolo della distanza, che porta inevitabilmente al distacco, alla considerazione dell’altro come soggetto sempre più indesiderabile, qualcosa da tenersi lontano da sé. Molti, sempre più egocentrici, se ne fregano di pensare alcunché e badano alla salvaguardia della propria pelle: andrebbero in giro anche con una maschera da apicultore o magari con un più efficiente modello anti-gas. Chi emana sostanze venefiche? Gli altri, naturalmente, tutti gli altri, compresi – notate la sottigliezza –  i membri della stessa famiglia. 

A parte gli esagerati, gli altri indossano la mascherina in modo negligente, tenendola appesa sul mento come una novella barbetta, spostandola un po’ su e un po’ giù tra naso e bocca. Posseggo un libro dove sono raffigurati in tempo di guerra cavalli e cani dotati di mascherina. Che ne dite? L’idea è da prendersi in considerazione? … magari per gli animali domestici.

Mentre distanziamo, tuttavia, nelle parole si insinua il contagio del “bipensiero” e in modo pandemico si fa strada nelle persone l’accettazione del nuovo significato che si dà al concetto di “distanziamento”, che  si ingigantisce di valore a mano a mano che la parola viene ripetuta, e così si distanzierà sempre di più: a scuola, sul lavoro, nella vita associativa e sportiva, nelle arti e nello spettacolo…chissà perché solo sui bus non si riuscirà a distanziare. Nel distanziamento siamo ampiamente aiutati dalle campagne mediatiche di allarmismo che danno manforte alla diffusione della paura, bloccando le spinte vitali di ciascuno: la spinta vitale vuole coraggio.

Ho letto con attenzione la “Dichiarazione di Great Barrington”, redatta il 4 ottobre 2020 da un gruppo di epidemiologi preoccupati per gli effetti che nel mondo sta producendo il diffuso distanziamento. Il gruppo di studiosi che ha firmato il documento è piuttosto preoccupato  circa gli affetti dannosi che producono i blocchi sulla salute fisica e mentale e consiglia un approccio diverso  alla pandemia di Covid, proponendo di sostituire le misure attuali che vengono prese in generale dai Governi dei diversi Stati, sostituendole da forme di “protezione focalizzata”. Sono convinti che:  “Le attuali politiche di blocco stanno producendo effetti devastanti sulla vita pubblica a breve e lungo periodo”. E ancora: “(La trascuratezza verso altre malattie) porterà negli anni a venire un aumento della mortalità. Saranno i ceti inferiori e i giovani a pagare il prezzo più alto”.  

Intanto si compie la manipolazione per mezzo delle parole: se qualcosa è utile a noi stessi, come per esempio il nuovoconcetto di “distanziamento” in grado di salvarci da rovina e morte, la parola “distanziamento” finirà con il possedere, accanto al vecchio significato di divisione anche quello nuovo di pratica salvifica, e presto noi abbandoneremo la percezione negativa che prima accompagnava la parola, per affiancarla in in primo tempo a una sensazione positiva: verrà poi un momento in cui dimenticheremo la visione vecchia e predominerà solo quella nuova

Intanto i mass-media accreditati ( i mainstream) faranno rimbalzare le parole di cui ci stiamo occupando. A ogni giro di giostra televisivo su morti e feriti (mai i sani) la manipolazione delle parole si rinvigorisce, le parole si distorcono dal loro significato originario, finiscono con il nutrirsi del significato opposto.

Se parole  come “condivisione”, “relazione”, “congiungimento” acquisiranno valore sempre più negativo, allora forse qualcuno sta facendo un lavoro accurato nel manipolare la nostra psiche.

Ma siccome nel bipensiero (su cui mi sono dilungata in un articolo precedente), possono coesistere due realtà in piena contrapposizione fra loro, ecco che possiamo gettarci sul web, dove grazie alla “neolingua” le nostre condivisionisaranno gradite, soprattutto da perfetti sconosciuti cui abbiamo tributato la nostra amicizia. E così finalmente potremo virtualmente socializzare, lasciando trionfare il nostro (vero) narcisismo.

Pubblicato in ARTICOLI, Senza categoria, Tra malattie reali virtuali letterarie. Tra manipolazione e necessità della natura | Commenti disabilitati su TALVOLTA UNA MASCHERA DICE PIÙ COSE DI UN VOLTO di Letizia Gariglio

LA SCUOLA E LO ZEN di Letizia Gariglio

Quando ho cominciato a scrivere questo articolo sulla scuola dopo aver  dato il nome al file ho riso un sacco per il refuso: c’era scritto “La suola e lo zen”. E subito ha aleggiato su di me l’aura di Gianni Rodari: mi è piaciuto questo scherzo, che mi ha subito fatto venire in mente gli insegnamenti del grande pedagogista, oltre che grande scrittore. Mi faceva piacere inserire questa “suola” nel panorama degli errori creativi che Rodari esamina in un capitolo della sua “Grammatica della fantasia”. Raccoglierò l’invito, da allieva cresciutella, a diventare “turista della fantasia” come nel caso della sua “Lamponia”, oppure, nello specifico caso, lo considererò un invito personale a divenire ciabattina della fantasia: mi ci proverò. Che belli, i tempi in cui imparavamo da Rodari a essere insegnanti sperimentatori dell’immaginazione e nello stesso tempo dell’educazione linguistica, perché era attraverso le parole che ci avvicinavamo a quel modo di fare scuola in cui si “inventava”, si “creava”. Creavano gli insegnanti, immersi in una sorta di eccitazione post-sessantottina in cui trasferivano i propri ideali applicandoli alla scuola, creavano bambini e ragazzi, cui veniva dato uno spazio e un tempo per cogliere in profondità le risonanze delle parole.

Insieme, allievi e insegnanti “giocavano” a recepire a e a produrre quelle “onde di superficie e di profondità” in grado di innescare reazioni a catena, coinvolgendo “suoni e immagini, analogie e ricordi, significati e sogni, in un movimento che interessa l’esperienza e la memoria, la fantasia e l’inconscio …”.  Oggi, pare che l’inconscio qualcuno voglia per forza riempircelo di brutture, di paure, tenendoci in una condizione pressoché costante di allerta, con un uso continuo di parole legate alle paure e alle imposizioni: cuore e mente colme di paura non esercitano la “grammatica della fantasia”, e forse è proprio questo lo scopo che si vuole ottenere.

Rammento una storia Zen, la numero 1 fra le “101 storie Zen” pubblicate da Adelphi. Si intitola “La tazza di tè”:  guarda, come ogni storia Zen, alla natura dell’uomo, disprezzando formalismi e stereotipi che allontanano dalla ricerca del proprio “io”. La riporto:

“Nan-in, un maestro giapponese dell’era Meiji (1868-1912) ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen.

“Nan-in servì il tè. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare.

Il professore guardò traboccare il tè, poi non riuscì più a contenersi. «È ricolma. Non ce n’entra più».

«Come questa tazza», disse Nan-in  «tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza?»

Ecco, la storia rappresenta bene la situazione della nostra mente quando noi costantemente ingurgitiamo  pensieri, regole (il tè) che riempiono la nostra mente con ragionamenti di tipo chiuso, idee  già percorse da altri, predigerite e fornite a bella posta, concetti già ampiamente sperimentati e proprio per questo destinati a non produrre nulla di nuovo. Ripetere schemi precostituiti può aiutare a rendere gli allievi  liberi di promuovere nuovi punti di vista, aiuta ad affrontare un argomento o una problematica con prospettiva nuova? Li addestra alla libertà di pensiero?

La pedagogia del Novecento, animata da grandi ideali, aveva pensato di rendere il processo di insegnamento/apprendimento un processo creativo, essendosi appropriata, attraverso gli studi sulla creatività, del concetto di “pensiero divergente”, a fianco di quello logico-deduttivo. Aveva pensato di poter spingere gli allievi a pensare in modo libero, dando loro il tempo di esplorare con la mente, di elaborare operazioni inconsce, di seguire sensazioni, impressioni per giungere a un risultato. Aveva creato la condizione perché ciò avvenisse, creando ambienti didattici interattivi, sereni, il più possibile adatti alla circolazione di idee libere da pregiudizi, il meno censori possibile per sbloccare pensieri e comportamenti, per creare interesse, aprendo blocchi percettivi, emotivi e culturali.

Oggi che cosa propone la pedagogia contemporanea? Mi sembra di intravedere un gran daffare nel realizzare  chiusure (anche fisiche), impedimento del movimento, dello scambio, della collaborazione di gruppo, vedo il proponimento di regole su regole, la rinuncia (o l’imposizione a rinunciare) persino all’espressione facciale…La “nostra” scuola ha strenuamente lottato per insegnare agli allievi a prepararsi il tè con scelte di foglioline e di procedure  personali, ma pare che “questa” scuola abbia come obiettivo quello di riempire le testoline di tè già bell’e pronto.  E quando mai sentiamo parlare di didattica?

Allora, che la grammatica della fantasia ci venga in aiuto:

« C’era una volta un ciabattino alle prese con un paio di scarpe…»

Qualcuno vuole continuare con me?

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A SCUOLA. LE PAROLE PER ALIMENTARE LA PAURA di Letizia Gariglio

(articolo pubblicato nel mese di settembre sulla rivista on line Parole in rete)

Si afferma da ogni parte la necessità di muoversi (poco) e di operare “in sicurezza”. Le ragioni scientifiche  sono sotto l’occhio di tutti, insistono i nostri politici. Così, se non vediamo è perché non abbiamo guardato bene e dunque meritiamo profondi e diffusi sensi di colpa. Entriamo in un meccanismo grazie al quale il senso di colpa, come si sa, va a inficiare l’autostima, disponendoci a un migliore accoglimento dell’accettazione di regole culturali, date dall’autorità.

È per ragioni di “sicurezza” se oggi i nostri bambini di sei anni si sono affacciati a una scuola che, sommersa in una marea di regole, li coercisce e li ingabbia dentro mascherine e in spazi meticolosamente delimitati, che tassativamente li dividono fra loro, facendo in modo che le bolle personali di ciascuno non possano in alcun modo tangersi e che ognuno, soggiogato da regole impositive scrupolose quanto pedanti, sia chiuso in un metro quadrato che mai ci è apparso tanto piccolo. Mi  chiedo quanti fra gli adulti, genitori e docenti, provino qualche moto di ribellione, nel caso siano loro avanzati rimasugli di velleità pedagogiche. È evidente che oggi i principi pedagogici espressi nell’arco di tutto il Novecento sono stati dimenticati, diventando nel giro di qualche mese démodé come abiti smessi: non solo, ma paiono suscitare in alcuni un senso epidermico evidente di fastidio, al pari di malsane ubbie rivoluzionarie  Finalmente si torna alla disciplina!, dicono alcune occhiate di soddisfazione, che non è difficile cogliere in giro.

Messa da parte l’attenzione ai valori della scuola come istituzione fondamentale nella società democratica, sembrano essere rimasti in pochi quelli che nella scuola desidererebbero oggi alimentare oggi i valori di libertà, di sperimentazione, l’apprezzamento del “fare”, la ricerca di motivazioni profonde e di interessi, la socializzazione, l’antiautoritarismo, l’espressività. 

Ho nominato parole che non contano più, scomparse in un battito di ciglia con l’avanzare delle crisi sanitaria che stiamo vivendo. Parole che la politica della paura ha messo in quarantena definitiva, che temo essere senza ritorno. Trasformati i capi istituto, gli insegnanti e i genitori in psicopoliziotti di memoria orwelliana, vediamo un mondo di adulti che hanno consegnato le loro menti e la loro capacità di pensiero al potere economico e politico che ha deciso di utilizzare pienamente la crisi in proprio favore e  ha trasformato in delatori quei pochi che ancora osano avanzare qualche dubbio.  Quel che conta è far circolare anche nella scuola le parole appartenenti all’asse che serve a mettere paura: virus, pandemia, sicurezza, infettare, disinfettare, stare lontani, pericolo, contagio, rispetto delle regole, stare seduti al banco, nessun gioco di contatto, no lavoro di gruppo, ubbidire, ubbidire, non muoversi, mascherina, non muoversi, mascherina, mascherina… perché, come diceva Austin nella teoria degli atti linguistici, il linguaggio è senz’altro un modo di agire, con il linguaggio si compiono azioni e dunque si indirizzano comportamenti sia individuali sia collettivi.

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CERCASI EROE, NO PERDITEMPO di Letizia Gariglio

(articolo pubblicato nel mese di agosto sulla rivista on line Parole in rete)

Dunque, in tutta questa brutta faccenda gli unici ad avere buona ragione per stare tranquilli potrebbero essere i gestori dei Bed &Breakfast, anche se loro non lo sanno.Nella caotica e spesso tragica situazione di tante piccole imprese italiane, impegnate nel disperato tentativo di sopravvivere dopo il lock-down, alle strutture di B&B forse non capiterà di accogliere folle di turisti, e nemmeno gruppi numerosi, ma se gli andrà bene potranno ospitare masnade di studenti di tutte le età. Almeno, secondo le intenzioni dei nostri politici.

La campanella sta per suonare, il 14 settembre, perciò manca solo un mesetto prima del ritorno degli studenti nelle classi. Ok, ma quali classi?

È ormai appurato che le istituzioni scolastiche non avranno la completa disponibilità degli spazi, o almeno non di tutti gli spazi necessari per la didattica in presenza e rispondenti alla nuove necessità anti-Covid, che vedranno tutto il personale scolastico aggirarsi fra le aule con il metro in tasca. I diversi istituti metteranno in campo alcune scelte per sopravvivere , in base agli ordini e gradi di scuole, alle esigenze degli sudenti, delle famiglie, secondo le proposte dei docenti, le disponibilità reali, le offerte e le opportunità; forse in parte le lezioni continueranno a svolgersi on line con gli studenti collegati da casa. Intanto si cercano spazi alternativi e aggiuntivi alle aule scolastiche: musei, cinema, centri congressi, auditorium, hotel, appartamenti di sponsor e Bed & Breakfast. Se spazi di questo genere possano poi rispondere ai bisogni didattici… fa parte della realtà: intanto però culliamoci fra queste soluzioni “all’italiana”, così drammaticamente finte, incredibili, tutta apparenza e niente sostanza.

Intanto le aule non ci sono. Ci si aspetta dai capi di istituto chissà quali creative soluzioni. Che cosa si dovranno “inventare” e come faranno a “reinventare” i posti più strani per renderli idonei alle lezioni, tra l’altro rispettando leggi di un certo peso, come quelle che regolano i sistemi anti-incendio o anti-infortunistici. Si prospettano soluzioni “antiche”, che risalgono a tempi in cui le scuole erano appesantite da sovrappopolazione scolastica: turni fra mattino e pomeriggio. Non è improbabile una riduzione delle ore scolastiche a quaranta minuti e nemmeno un’apertura degli edifici scolastici -e delle lezioni  -anticipata e una chiusura posticipata, nel tardo pomeriggio Ma naturalmente  tutti i cambiamenti d’orario comportano altri problemi alle famiglie e ai trasporti, soprattutto per gli studenti che viaggiano.

Com’è prevedibile  per distrarre l’opinione pubblica da preoccupazioni e timori di disfacimento si lasciano agitare al vento alcuni specchietti per le allodole, lasciando brillare certe assurdità, come quella del braccialetto luminoso con il quale diviene possibile controllare il distanziamento, quando esso si riduca a meno di un metro tra uno studente e l’altro. Oppure quest’altra: un bel semaforo  si illuminerà di rosso quando il bar della scuola raggiungerà la massima capienza. Già immaginiamo i pargoli del Nido reclamare in pausa  il sacrosanto caffè. Peccato che tra una scemenza e l’altra non si senta mai, e sottolineo mai, una parola sulla didattica. Però non preoccupiamoci: andrà tutto bene! Sebbene una cattedra su due sia scoperta a settembre si ritornerà sui banchi. Già, ma quai banchi?

Per  risolvere  le montagne di problemi che attanagliano la scuola (non solo quelli organizzativi) dovrebbe giungere un eroe classico (o un bel gruppo di eroi!): no, no, non mi riferivo agli uomini politici che la scena in questi giorni ci propone. Mi riferivo proprio alla figura dell’eroe: uomo che pur avendo perduto l’aspetto e la qualità della divinità, pur essendo caduto nella condizione comune al genere umano, sia in grado di ricorrere a uno straordinario atto di coraggio, consapevole del proprio sacrificio  di sé allo scopo di proteggere il bene comune. Non mi stupirei se ancora una volta le donne e gli uomini della scuola potessero mostrare le loro caratteristiche sovrumane, ritrovando dentro di sé, grazie a un atto eroico, le risorse umane e le abilità necessarie per preservare la scuola e gli allievi, riuscendo, con atto quasi miracoloso, a risuscitare l’armonia, facendola scaturire dal guazzabuglio, dal caos, donandola a una scuola sfiduciata, depressa e in stato regressivo.

Non dimentichiamo però che non sempre l’eroe classico è vincente: nei miti che conosciamo la vittoria non è l’unico metro di valutazione dell’atto eroico e dell’eccellenza umana. L’eroe rappresentava, e rappresenta,  il simbolo del ritrovamento di una condizione morale più elevata, estrae da se stesso come da una miniera la voglia di combattere contro draghi, leoni, scorpioni, mostri che inseriscono continuamente nelle nostre esistenze paura, morte, dolore e ingiustizia.Noi sappiamo come nei mesi trascorsi la sovragestione del potere abbia fatto di tutto per indebolirci attraverso la penetrazione della  costante  paura nelle nostre vite (oserei dire: come un vaccino).

Sì, solo degli eroi potrebbero organizzare un eroico combattimento per dare senso alla scuola e alla sua esistenza. E sappiamo da tutti i miti che se l’eroe non resiste, se l’eroe muore nel combattimento con il drago, qualcosa paga con il proprio annientamento.

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RESTYLING DEL GENE O ARMI TECNOLOGICHE? di Letizia Gariglio

(articolo pubblicato nel mese di luglio sulla rivista on line “Parole in rete”)

Qualche mese fa alcuni giornali hanno dato titoli poderosamente entusiastici ad articoli che, pur riservando nel corso della stesura qualche dubbio, fondamentalmente esaltavano le scoperta dell’ingegneria genetica per rendere  sterile il genere femminile della zanzare della malaria, le “Anopheles Gambiae”, e distruggere la specie così nel giro di poche generazioni: si calcola che ciò possa avvenire nel giro di undici generazioni, tenuto conto che ci vogliono dai venti ai trenta giorni per il passaggio da uovo ad adulto, e che nella norma la generazione di femmine è assai più abbondante degli esemplari di genere maschile.Le femmine normalmente vivono da due settimane a un mese.

Il progetto di gene drive attuato sulle zanzare, sia detto per i lettori più sospettosi e per quelli più genuinamente fiduciosi, è finanziato dalla fondazione “Bill e Melinda Gates”. Potrebbe intitolarsi: “Solo maschi, prego”.

E come si fa? Si inserisce nel DNA delle zanzare un gene in grado di rendere sterili le femmine . Risultato finale: eliminazione della riproduzione delle zanzare – eliminazione del problema malaria.

Secondo il giudizio di alcuni si otterrebbe così un duplice risultato attraverso l’hakeraggio realizzato nei confronti della legge di natura. Ma… ci sono alcuni “ma”. La storia ci ha insegnato che non sempre le applicazioni della tecnologia hanno fini nobili. Non a caso L’Agenzia del Dipartimento della Difesa USA, il cui scopo istituzionale è conseguire lo sviluppo di tecnologie a fini militari, ha investito centinaia di milioni di dollari per sperimentare tecniche di manipolazione

 e estinzione genetica: non solo delle zanzare, si intende! E a quanto pare la stesa istituzione è la maggiore finanziatrice della ricerca sul gene drive.

Non è l’estinzione delle Anopheles, dunque,  a preoccupare l’opinione pubblica mondiale, ma alcuni altri aspetti. Intanto, si sa, noi umani, compresi gli scienziati,  facciamo grandi pasticci non intenzionali, inoltre ci si domanda quali conseguenze può comportare la rottura, del tutto intenzionale, dei cicli naturali. Più in generale, non sappiamo come possono comportarsi e reagire gli organismi modificati una volta liberati nell’ambiente e nell’ecosistema, e nemmeno in relazione agli umani. La modificazione ottenuta potrebbe “saltare” da una specie ad un’altra? Ci si domanda in quale misura l’alterazione dei geni (supponiamo di innocui insetti) potrebbe ottenere come risultato la presenza di vere e proprie armi, con disastrosi impatti sulla natura e sulla salute.

Oltre ai dubbi sui rischi, ancora più forti sono i dubbi che alcuni gruppi di potere vogliano esercitare la propria imperativa incidenza anche sulle forme di vita, appiattendo la biodiversità del pianeta, esercitando il proprio dominio in forma di riduzione, restringimento, guidata dall’arbitrio dell’uomo (sul quale in verità mi sento di porre molte riserve), in definitiva in contrasto con la capacità di organizzazione intelligente degli esseri viventi.

Preoccupati per la eventuale fuga da laboratori di organismi geneticamente modificati e controllati, forse in grado di innescare reazioni a catena, preoccupati per la possibilità di errori che le sperimentazioni possono aprire, con effetti genetici non desiderabili, preoccupati e dubbiosi circa i livelli tecnici, culturali, ecologici ed etici che i tecnologi possono possedere o non possedere, essendo più o meno legati a interessi personali e a quelli di gruppi di potere, molte associazioni oggi sostengono la necessità di una moratoria, vale a dire richiedono una sospensione delle sperimentazioni sul “gene drive” e contro la liberazione di organismi creati con questa tecnica.

Noi siamo allineati su queste posizioni.

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TRA VIRUS E CONIGLIETTI di Letizia Gariglio

(articolo pubblicato su “Parole in rete”nel mese giugno 2020)

Mi si stringe il cuore nel rileggere il racconto “Il coniglio velenoso”di Calvino, nel “Marcovaldo”, il cui involontario protagonista , un povero coniglietto, apparentemente inoffensivo, è in realtà malatissimo, perché vittima di spericolate sperimentazioni di laboratorio, tanto da essere divenuto “velenoso”. Coniglio in gabbia, destinato a morte certa : “era un coniglio bianco di pelo lungo e piumoso con un triangolino rosa di naso, gli occhi sbigottiti, le orecchie quai implumi sulla schiena”, estraneo al mondo della natura quasi quanto il protagonista umano, quel Marcovaldo antieroico e fallimentare che conosce solo  –  anche lui – una gabbia, quella della città. Con quel coniglio ossuto sotto l’apparenza del manto peloso Marcovaldo si identifica e offre un pezzo di carota avanzata a questa creatura così stordita che quando gli viene aperta la gabbia  se ne sta ferma, lasciandosi poi infilare, senza reazione,  all’interno del giubbotto. Nell’uomo si sommano sentimenti contrastanti: desiderio di carne arrostita e tenerezza per l’animale. Chissà quale prevarrà.

L’infelice destino del piccolo mammifero non termina qui e si snoda sui tetti, fra gli abbaini degli abitanti più poveri della città (siamo nel dopoguerra), perché la bestiola, pur essendo nata prigioniera  e quindi non possedendo grandi aneliti di libertà, non ha però alcuna intenzione , una volta liberata, di farsi riacchiappare per rientrare in una casa in fricassea. Malgrado abbia conosciuto fino ad allora solo la prigionia e il dolore, questo coniglio ha una storia, un insieme di tratti di carattere che ne fanno un personaggio, una personalità che nel racconto lascia un’impronta, un segno, un ricordo; malgrado sia stato sottoposto a continue sevizie da parte degli umani in un laboratorio non ha perduto la sua essenza: potremmo trasformarlo in un personaggio sulla scena, potremmo disegnarlo, siamo in grado di immaginarlo.

Quanta differenza con altri elementi (forse) provenuti di recente da altri laboratori scientifici: submicroscopici parassiti obbligati delle cellule, prodotti di degradazione costretti alla nemesi di agenti patogeni. Eppure, anche qui, non abbiamo rinunciato a immaginare e a raffigurare: una bella sfera apparentemente armoniosa, con protuberanze dall’aspetto spinoso. È così che si è presentato il virus sull’uscio delle nostre case, senza chiedere il permesso di entrare.

La letteratura si è provata molte volte a immaginarlo, inserendolo dentro le proprie storie. Qualche volta gli ha dato nome suggestivi, che oggi suscitano la nostra particolare preoccupazione, per l’associazione immediata che sollevano in noi, grazie ai dati della cronaca.

“Wuhan 400” si chiamava il virus mortale in un romanzo di Dean Koontz, definito cross gender dal suo stesso autore, pubblicato nell’insospettabile 1981 con il titolo “The eyes of darkness”, (il libro è edito in italiano da Fanucci editore con il titolo “Abisso”).  È la storia del rapimento di un bambino, unico sopravvissuto a un’epidemia  mortale, e della strenua ricerca della madre che non crede alla sua morte. L’aspetto che oggi lo rende interessante è il riferimento a un virus in grado di uccidere, creato in laboratorio per divenire una potente arma biologica. È “curioso”, quasi premonitore, si potrebbe dire, che il virus nel romanzo porti il nome di “Wuhan 400”, sia stato elaborato in Cina, da dove oggi (2020), nella realtà,  il virus Covid 19 si è diffuso in tutto il mondo, proprio da  Wuhan,  città nella quale esiste un laboratorio di sperimentazione chimica. Il romanzo adombra pericolose manipolazioni che “passano” fra Cina e Stati Uniti. Nella realtà odierna molti media hanno sollevato dubbi sull’eventuale volontarietà di creazione e diffusione del virus: dubbi a cui nessuno può dare risposte, né conferme né sicure esclusioni. Scriveva nel romanzo l’autore: “…Uno scienziato cinese, Li Chen, è passato dalla parte degli Stati Uniti, portando con sé un dischetto delle più importanti e pericolose nuovi armi biologiche sviluppate dalla Cina negli ultimi dieci anni. Chiamano il materiale Wuhan 400 perché è stato sviluppato nei loro laboratori RDNA al di fuori della città di Wuhan, ed è stato il quattrocentesimo ceppo virale di microrganismi artificiali creato in quel centro di ricerca”.

Che “Abisso” sia da annoverare fra i romanzi visionari capaci di virtù premonitrici e profetiche? Certamente la letteratura non è nuova in quest’arte.

In ogni caso, io continuo a preferire il coniglietto di Calvino, per cui nutro molti sentimenti di pietà e  compassione, che nessun virus riesce in me a suscitare. Da che cosa dipende questa disparità di sentimenti? mi chiedo. Certamente dall’idea che il coniglio possa pensare, comunicare e… soffrire. Al contrario, la viva avversione per il virus è legata all’idea che non so attribuirgli una personalità, né sentimenti, né emozioni. Eppure quale trattamento gli uomini hanno attribuito a quel coniglietto e a un numero imprecisato di animali sottoposti a sperimentazione scientifica? Fino a che punto è arrivato il nostro imbarbarimento? Certo, il disequilibrato rapporto fra umani e non umani  e la nostra discriminazione nei loro confronti si basa sulla disparità di forze fra uomini e animali.

Voglio essere sincera. Ammetto che non mi dispiacerebbe un dispiegamento di forze contro certi virus.

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GLI ALTRI PUZZANO SEMPRE DI PIÙ di Letizia Gariglio

(articolo pubblicato nel mese di maggio 2020 su “Parole in rete”)

Quando all’umanità fa comodo non si vergogna di impiegarli anche in guerra. Erodoto ci racconta che gli scorpioni venivano riversati sulle truppe romane dalle popolazioni mesopotamiche. Già i Sumeri impiegavano i cavalli in battaglia e verso essi i conquistadores spagnoli ebbero un grande debito. I piccioni, si sa, svolgevano la funzione successivamente assunta dalle onde radio. Gli elefanti servirono l’India fin dal IV secolo, furono i protagonisti delle guerre Puniche e Annibale grazie a loro  attraversò le Alpi e giunse in Italia. Gli Arabi preferivano i cammelli per guerreggiare. I muli, amati dai nostri Alpini,  da sempre furono abituati a trasportare merci e armi degli eserciti sui ripidi versanti delle montagne. I cani erano impiegati nella guardia degli accampamenti. Si narra che nell’ultima guerra gli scienziati nazisti volessero nuovamente allagare l’Agro Pontino, perché le zanzare fermassero gli Alleati in avanzata vero il Nord della nostra penisola. Si sa che Roosevelt stesso non fosse contrario all’idea di sganciare bombe con migliaia di pipistrelli sui cieli  giapponesi, per disturbare i voli del nemico. E questo non è che un elenco non solo incompleto, ma appena accennato degli animali adoperati a fini bellici.

Chissà se è venuto il momento, per tutti gli animali, di ribellarsi, di ripagarci della stessa moneta?

Pare che il 75% delle nuove patologie umane sia di origine zoologica. Il salto di specie può non riguardare solo gli animali selvatici, ma è accaduto più volte nel corso della storia che un animale in qualche modo più vicino all’uomo abbia fatto da anello intermedio: si è trattato di animali da allevamento come polli, conigli, o anatre. È accaduto specialmente quando gli animali da allevamento venivano trattati, diciamo così…  non troppo bene.

Noi sappiamo come gli allevamenti causino tra l’altro la resistenza agli antibiotici, dal momento che noi ne rimpinziamo gli animali che negli allevamenti “vivono”, o meglio che vi “transitano” ( sono bloccati in gabbie!) per essere cresciuti abbastanza da divenire il nostro pasto: i batteri hanno modo di acquisire la capacità di resistere ai farmaci, di mutare e di sopravvivere.  In generale, tuttavia, l’espansione in numero e in grandezza degli allevamenti intensivi degli animali è senza alcun dubbio una fra le cause principali di diffusione di malattie animali e del passaggio successivo dagli animali all’uomo, in forma epidemica o pandemica.

Lo abbiamo vissuto con l’ “aviaria”, nata nel Sud Est dell’Asia attorno al 1968 e giunta nello stesso anno negli Stati Uniti. Assomigliava molto alla Asiatica, rilevata i Cina nel 1957 e diffusasi  anch’essa gravemente in Occidente. Nell’uomo si associò alle polmoniti: Si ripresentò nel 1972 e fece un milione di morti in tutto il mondo.Dal 1996 si ripropose in tutto il mondo , nel 2000 questo virus – mutato – è stato isolato anche nei volatili domestici (polli, tacchini), nel 2003 ci furono i primi casi di trasmissione all’uomo.La peste suina prima colpì gli animali ma dal 2009 ha contagiato anche gli esseri umani, iniziando dal Messico e espandendosi poi in più di ottanta paesi.

Adesso tutta l’attenzione, in occasione del Covid 19, va ai famosi wet market, diffusissimi in Cina, dove gli animali vengono condotti vivi e ammazzati sul posto, con grandi spargimenti di sangue, forti odori di carni, creazione di una sorta di melma, che ricopre i pavimenti dei mercati, composta da liquidi, carni, frattaglie, interiora, trucidi risultati del massacro perpetrato a una serie di animali, fra cui capre galline pipistrelli maiali pangolini conigli cani volpi cammelli struzzi scimmie… e  chi più ne ha più ne metta, in una lista molto lunga (sebbene a noi appaia improbabile)  di animali che noi occidentali non consideriamo eduli: un panorama di pratiche che a noi paiono inaccettabili dal punto di vista igienico. Dal punto di vista etico, poi, tralasciamo volentieri di esprimere giudizi, tranne quando ci inalberiamo per aborrire alcune forme di crudeltà propinata a questi animali che persino noi ci ricordiamo di definire estrema. Del resto, ci dimentichiamo anche di ribellarci al modo con cui da noi, senza andare troppo lontano, trattiamo ad esempio i nostri maiali negli allevamenti. Facciamo gli scandalizzati di fronte ai cinesi, ma grazie a che cosa? Ci sentiamo forse più evoluti solo perché i nostri allevamenti si sviluppano su un piano solo invece che in grattacieli a molteplici piani, come avviene in Cina? Siamo dunque virtuosi in modo inversamente proporzionali alle altezze degli edifici? Non ci viene neppure in mente di chiederci in che cosa siamo uguali o diversi, e nemmeno quale giustizia ci sia nel nostro rapporto con la natura e con gli animali.

Semplicemente tutta la storia dell’Occidente ha seguito le stesse vie che oggi vediamo pienamente ancora attive in Oriente. Semplicemente abbiamo smesso qualche anno prima. Anzi, mi risulta, se non sbaglio, che numerosi wet market siano ancora pienamente in attività in civilissime città come quella di New York.

Rammento la descrizione di Patrick Süskind nelle prime pagine del suo romanzo “Il profumo”, ambientato a Parigi  nel 1700, dove nasce il protagonista del romanzo, partorito  sotto un banchetto di pescivendolo, fra i miasmi della calura estiva proveniente dal cimitero, e la puzza dei pesci mescolata a quella dei cadaveri umani. La povera giovane madre, pescivendola,  non fa differenza fra le interiore sanguinolente, lo sciame di mosche e le teste  di pesce tranciate con cui mescola il neonato. Scrive l’autore: «Nel diciottesimo secolo non era ancora stato posto alcun limite all’azione disgregante dei batteri, e così non vi era attività umana, sia costruttiva sia distruttiva, o manifestazione di vita in ascesa o in declino, che non fosse accompagnata dal puzzo».

Forse  la differenza fra gli uomini del diciottesimo secolo e noi, fra le cause di malattie del passato e quelle contemporanee non è ancora così segnata dalla differenza come pensiamo. 

E nemmeno i nostri comportamenti. Ma, chissà perché, pensiamo che gli altri puzzino sempre di più.CONDIVIDI

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IN VIRUS VERITAS. LE MALATTIE NELLA LETTERATURA. MA CHE COS’È LA LETTERATURA? di Letizia Gariglio

(articolo pubblicato nell’aprile del 2020 su “Parole in rete”)

Quante malattie, fisiche o morali, individuali o collettive, pandemiche o segrete: sempre, nei tempi passati, furono presentate in letteratura come strumento di punizione di un dio incollerito con un singolo uomo, con un’etnia, con una città…Il corpo malato, colpito dalla malattia, doveva corrispondere analogicamente a un’anima malata: alla malattia fisica si accompagnava una malattia morale; così si differenziava, per negatività, colui che, possedendo caratteristiche fisiche “sbagliate” non poteva che presentarne altre, altrettanto sbagliate, di deformità morale. 

Partendo dalla Bibbia per arrivare alla letteratura ottocentesca troviamo sempre la stessa concezione di malattia. Sodoma e Gomorra furono distrutte perché avevano meritato il castigo di Dio (per aver peccato contro la legge di ospitalità – o secondo altri per sodomia); nel Vecchio Testamento si apprende che Maria divenne lebbrosa a casa della collera di Dio (Numeri) perché aveva parlato contro Mosé; che Giobbe ricevette una bella ulcera maligna  dalla pianta dei piedi alla sommità del capo perché Dio voleva essere certo della sua accettazione e della sua integrità, nonostante le tentazioni di Satana. 

I Greci non indietreggiavano nel ritenere Prometeo causa del suo male (il fegato gli veniva costantemente rosicchiato da un’aquila), perché necessariamente punito del suo furto del fuoco per gli uomini; nemmeno gli Achei si stupivano nel primo capitolo dell’Iliade se il dio Apollo inviava loro la peste, tale da colpire muli, cani e uomini in egual misura, perché avevano offeso il dio Apollo rapendo Criseide figlia del sacerdote Crise.

La Natura tarda a farsi sentire come generatrice di malattie: bisogna arrivare fino a Lucrezio, che nel “De Rerum natura” tenta un avvio di interpretazione scientifica dei germi e delle malattie provocate da “semi” di cose “che danno malattie e morti”. 

Dante non ci risparmia tutto il suo ribrezzo nella descrizione, nelle Malebolge, dei falsari, dai quali si sente un puzzo temendo “uscir dalle marcite membra”, e il suo paragone va ad Egina, isola sulla quale Giunone aveva scagliata la peste, e dove “li animali, infine al piccolo vermo /  cascano tutti…”; i falsari si grattano, deturpati, come posseduti dalla scabbia, lacerando e staccando pezzo a pezzo le loro croste (cap, XXIX dell’Inferno). 

La peste torna in Boccaccio: “erte enfiate” crescevano come mele nell’ “anguinaia” o sotto le “ditella” (inguine e ascelle); lui non recalcitra nel dare un nome ai bubboni: “gavòccioli”, e si inoltra fin dal primo capitolo a descrivere il dilagare delle peste nella Firenze del 1330, segnalata da “macchie nere e livide”, sintomi definitivamente premonitori della morte che, puntualmente, avveniva dopo tre giorni Non troppo differentemente da autori precedenti Boccaccio pensa della peste che sia conseguenza di colpe umane: “la quale, per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali”. È ancora sempre una punizione di Dio, dopotutto.

Anche in Manzoni si presenta una “stortura” a provocare la peste di Milano, causata da cattivo governo, dagli errori prodotti dalle menti di chi doveva guidare la città, altrimenti incapace di dare ordine e razionalità alla vita sociale: per questo un’intera comunità era stata punita in modo eclatante.

La descrizione che ci propone Molière del suo malato immaginario è veramente disgustosa. Come dar torto a Belinda se non sopporta suo marito, perso nel conteggio di clisteri purgativi, di quelli “insinuativi”, quelli emollienti, da alternare a quelli detersivi, ai carminativi, e così via… ma qui, per fortuna, ci è consentito ridere.

Dobbiamo arrivare al Romanticismo perché si facciano strada nuovi tipi di malati: il tisico e quello affetto da malattia nervosa, entrambi i tipi spesso beatificati da morti precoci. È in questo periodo della storia della letteratura che inizia a nobilitarsi la vita di individui, che il senso comune definirebbe altrimenti come “qualunque”. Il “mal sottile” diventa affezione letteraria per eccellenza.

Ne sono affetti gli scrittori al pari dei protagonisti dei loro romanzi. Qualcuno si salva, nella realtà e nella “fiction”, come Goethe, altri illanguidiscono nelle loro febbri. 

Il male  falcia Silvia, la “tenerella” che Leopardi amava;  a lei dedicò parole dolcissime: “Tu prima che l’erbe inaridisse il verno, / da chiuso morbo combattuta e vinta, / perivi, o tenerella. E non vedevi / il fior degli anni tuoi…”

Non è che la prima di una lunga sequela di vittime, più o meno innocenti. Alla seconda categoria appartiene la signora delle camelie, protagonista dell’omonimo romanzo di Dumas.

Ma anche la protagonista di “La Traviata” di Giuseppe Maria Piave, musicata da Giuseppe Verdi, che morirà di tisi fra le braccia dell’amato.

E la pucciniana Bohème si consuma in scena, nella vicenda più nota del teatro d’opera, grazie al libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica.

Tubercolotico fu Guido Gozzano, poeta novecentesco la cui poesia è incisa dalla sofferenza e dalla  rinuncia a una vita piena, a causa della malattia: «Non amo che le rose  / che non colsi. Non amo che le cose / che potevano essere e non sono / state…”

La melancolia, malattia che gli antichi attribuivano all’eccesso di bile nera nel corpo, “madre” della depressione  resterebbe meno comprensibile se non fosse comparsa nelle opere di Keats, di Coleridge, di Baudelaire: strumento per i letterati per elevarsi al di sopra delle  normali cose del mondo, per mezzo della propria intima psicologica sofferenza. Non dimentichiamo che “spleen” significa in inglese  “bile”, organo a cui nella medicina antica era collegata la tendenza al carattere saturnino.

È solo nel Novecento che la malattia  in generale diventa un modo, riservato al singolo individuo, di compiere un percorso di autoformazione, e nello stesso tempo uno status in cui l’animo può stabilire una condizione di partenza, in qualche modo ideale, per riflettere, per affrancarsi dal contingente, liberarsi dal piano puramente materiale, e immergersi in una opportunità di pensiero più profondamente filosofico. 

Già Kafka definiva la sua malattia, la tubercolosi, come una malattia “spirituale”, sebbene  il nome vero della sua malattia non lo nomini mai; forse non vuole dare riconoscimento a quell’elemento estraneo al suo corpo, ma del resto l’estraneità è la condizione permanente di Kafka, rispetto al suo ambiente, a suo padre (come mirabilmente sappiamo dalle “Lettere” a lui inviate), alla sua città, dove lui è relegato nel ghetto di Praga: straniero dentro di sé e fuori. E non è forse una profonda malattia quella che rappresenta “Il castello”? Malattia dell’assurda impermeabile stupidità  degli apparati burocratici. Ne sappiamo qualcosa anche noi.

Ed ecco che anche nel Novecento, malgrado più moderne malattie, la peste, almeno quella letteraria, torna.

È la protagonista di Albert Camus (“La peste”), che ci offre, immaginando il dilagare del morbo in Africa , una  riflessione allegorica sul male e sulle sofferenze della seconda guerra mondiale.

Ennio Flaiano, invece, in “Tempo di uccidere”, ambientato durante la guerra di Etiopia, intreccia una storia intorno alla lebbra, con la quale il protagonista fa un incontro molto particolare, e che rappresenta per lui, nella paura del contagio, la paura di incontrare e conoscere se stesso.

Chissà da quale malattia era afflitto il povero paziente di “Totò diabolicus”, che in un canovaccio teatrale (poi divenuto sketch notissimo), interpretava la parte di un chirurgo crudelissimo, incapace, miope,  e tuttavia dotato di pericolosissimo bisturi: splendida satira sui baroni della medicina, dove solo i gatti se la godono, aspettando le frattaglie fuori dalla porta.

Quanto sia breve il passo dalla malattia alla morte ci era già stato chiarito qualche anno prima da da Tolstoi, nel lungo racconto “La morte di Ivan Ill’ic”, che dà nome anche al personaggio protagonista. Un incidente apparentemente non importante immette il protagonista in un imbuto, un buco nero, a sprofondare fino al fondo, verso cui precipita senza possibilità di ritorno in modo rapidissimo, nella totale indifferenza dei familiari, dei colleghi, degli pseudo-amici, che non provano per lui alcun sentimento. Dunque: malattia e morte come solitudine.

L’incubo della progressiva discesa verso la  morte è anche la cifra di un racconto di Dino Buzzati (“Sette piani”) in cui la discesa progressiva dal settimo fino al piano più basso predispone i malati di un sanatorio all’accettazione della loro stessa morte.

Il protagonista di “La diceria dell’untore” (1981) di Gesualdo Bufalino è una sorta di controfigura dell’autore, che racconta un’esperienza analoga a quella da lui vissuta, di una lunga degenza in sanatorio. Ne scrive l’autore in modo barocco, ricco di sostantivi , aggettivi, metafore. E c’è una ragione che lui stesso svela, perché dentro il sanatorio  «L’occupazione prima degli ospiti della Rocca è infatti parlare, divagare, raccontarsi, inventarsi…»: è la parola, solo la parola, quanto più ricercata e preziosa possibile, in ultima analisi, a salvare dal male.

Questo fa la letteratura.

A che cosa serve, dunque, la letteratura?

Se si provano le emozioni e i sentimenti senza saperli nominare, li si  subisce. Per comprendere le emozioni altrui si deve cominciare a identificare le proprie, bisogna saperle verbalizzare e saperle comunicare; però è vero anche l’esatto contrario: vale a dire che per conoscere se stessi e le proprie emozioni è necessario che siamo educati a riconoscerle negli altri.

Si può partire da sé per divenire empatici, ma ci si può educare all’empatia per arrivare a comprendere meglio le emozioni dentro di sé.

In un mondo che bada solo all’interesse economico e privilegia la conoscenza scientifica perché decisamente più utile agli interessi capitalistici, l’educazione ai sentimenti riceve lo status di cenerentola: il mondo è come quel genitore che ignora (o finge di ignorare) le emozioni dei figli.  Conduce alla alessitimìa, al “non avere parole per dire i sentimenti”.

La letteratura può aiutare il processo che vogliamo realizzare: quello di imparare a riconoscere i sentimenti per divenire  consapevoli di noi stessi, empatici e capaci di costruire legami con altre persone.

La letteratura può facilitare la connessione con il mondo interiore e con i sentimenti altrui; conoscere i sentimenti aiuta pensiero e azione.

Nel momento in cui scrivo ci troviamo in pieno Covid 19, relegati in casa: adulti e soprattutto ragazzi, che vivono la condizione al pari di una ingiusta carcerazione. 

Il mio abituale interesse per i più giovani mi spinge a cercare in Internet ciò che può venire loro in aiuto: video, documentari, file didattici. Ed è proprio così, dovendo constatare lo strapotere della presenza di argomenti scientifici, che sono costretta a domandarmi: che ne è della letteratura?

Dice Mario Vargas Llosa: “Un’umanità senza romanzi, non contaminata di letteratura, somiglierebbe molto a una comunità di balbuzienti e di afasici… Una persona che non legge, o legge poco, o legge soltanto spazzatura, può parlare molto ma dirà sempre poche cose…  non è un limite soltanto verbale; è, allo stesso tempo, un limite intellettuale e dell’orizzonte immaginativo, un’indigenza di pensieri e di conoscenze, perché le idee, i concetti, mediante i quali ci appropriamo della realtà esistente e dei segreti della nostra condizione, non esistono dissociati dalle parole attraverso cui li riconosce e li definisce la coscienza. S’impara a parlare con precisione, con profondità, con rigore e con acutezza, grazie alla buona letteratura, e soltanto grazie a questa”.

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LA PESTE DELLA DIMENTICANZA di Letizia Gariglio

La peste della dimenticanza di Letizia Gariglio

(articolo pubblicato nel mese di marzo 2020 su “Parole in rete”)

In questi giorni, in cui stiamo imparando il significato di “restare a casa”, faticando moltissimo a introiettare il senso profondo dell’espressione, pare che abbiamo più tempo per apprendere nuovi termini, soprattutto termini e espressioni mediche, definizioni di un registro linguistico che normalmente non ci appartiene. Ben disposti a capire il significato di “rapporto di Erre con zero” (R0) vale a dire il numero di persone che, in media, ogni individuo infetto di Covid 19 contagia a sua volta, affannosamente impegnati nella ricerca (che avviene rigorosamente davanti al televisore) del paziente 0 o 1, pensiamo in continuazione – ben supportai dalla disastrosa macchina dei media che dicono tutto e il contrario di tutto, alle nostre paure, passando dalla peggior forma di panico all’auto-rassicurazione, narrandoci così che, anche se siamo vecchi, (forse) cureranno anche noi, persino noi!

La memoria per fortuna fa qualche fatica a rammentare precedenti pestilenze,  almeno nella grave forma di quella attuale: alcune pestilenze hanno toccato solo marginalmente le vite nostre e dei nostri contemporanei. Ci viene in aiuto la letteratura, a partire dall’antichità, ma anche la letteratura contemporanea, che  ci ha fornito esempi notevoli: è attraverso le storie che abbiamo conosciuto vicende e significati metaforici di epidemie, pandemie e Malattie, protagoniste di romanzi. Certe Malattie, scritte con la maiuscola, sono le vere rappresentanti del male non solo fisico, e non è un caso che la catastrofe dell’infezione epidemica o pandemica venga innescata e veicolata, nell’immaginazione di ieri come in quella di oggi,  da animali immondi  e poco amati: i sudici ratti, gli striscianti serpenti, i pipistrelli dalle lunghe ali nere. Anche l’aggettivo “nero” affonda le radici nel mondo oscuro: come le vele nere, la peste nera, l’umore nero. La pestilenza è sempre nera perché è estrema, suggerisce agli uomini l’abbandono da parte di Dio, oggi come ieri, per colpa o per destino, e li rende comunque sottilmente responsabili di sé, della propria fine o della propria salvezza. Tutte le pestilenze, reali o letterarie, come la peste, il colera, la tubercolosi, il vaiolo, l”asiatica”, la Sars, suggeriscono metaforicamente, con l’inettitudine di un corpo, anche quella di un’intera società, di un modo di vivere, di essere, di scegliere e di darsi volontà-

La letteratura ci fornisce molti esempi nei quali i temi dominanti delle epidemie e dei contagi minano profondamente le strutture di una società, o ne rivelano le basilari magagne in grado di portarle allo sprofondamento.  Ma le pestilenze letterarie peggiori sono quelle che riguardano l’annichilimento della memoria e lo scempio della cultura. Occorre che citi ancora Orwell (compare spesso nei mei articoli) in cui si racconta (“1984”) che per dominare un popolo occorre nullificare la sua memoria, demolire i ricordi individuali e collettivi manomettendo i ricordi ( leggi: la Storia) fino a nullificarli: le memorie storiche devono essere reinventate e riscritte in modo che i saperi del passato siano vanificati. Penso però anche a Bradbury (“Farenheit 451”) e alla necessità di opporsi solo con la memoria personale alla distruzione fisica dei libri con il fuoco. Penso alla peste dell’insonnia che in “Cent’anni di solitudine” (di Gabriel Garcia Marquez) coglie gli abitanti di Macondo, portandoli progressivamente alla perdita della memoria; gli uomini cercano inutilmente di opporsi quando scrivono su biglietti il nome  e le istruzioni per l’uso di cose  e animali. In auto-quarantena, impossibilitati a mangiare o bere perché tutte le cose erano contaminate di insonnia, gli abitanti di Macondo scrivevano, arrivando persino a inventare il “dizionario girevole a manovella”. 

Ma non fu quello a salvarli.

Fu l’amicizia.

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LA GRANDEZZA DELL’UOMO È NEL PENSIERO, DICEVA IDA MAGLI

La grandezza dell’uomo sta nel pensiero, diceva Ida Magli di Letizia Gariglio

(articolo pubblicato nel mese di febbraio 2020 su “Parole in rete”)

La fanciulla Europa venne portata al di qua del canale del Bosforo, in Occidente, con un inganno congegnato dal sommo dio olimpico, Zeus, che sotto le sembianze di splendido toro bianco rapì la ragazza e la condusse sulle onde del mare. “Europa” (così la chiamiamo personalizzandola) ci sta ripagando con un inganno pari o più grande di quello subito dalla fanciulla?

All’avvicinarsi del compimento dell’anniversario dalla morte di Ida Magli, (scomparsa nel febbraio 2016) il senso di perdita sembra acuirsi, anziché affievolirsi, forse perché puntualmente, precisamente e drammaticamente tutte le sue previsioni, ad una ad una, si sono avverate o si stanno avverando.

In passato, negli anni ’90, mi sono spesso chiesta se la visione del futuro della maggiore antropologa (e filosofa) del nostro Paese, potesse essere ammorbidita da note di speranza, che pure ciascuno di noi tanto voleva trovare nell’immaginare il futuro. Abbiamo profondamente desiderato che lei si sbagliasse, almeno un po’: io, lo ammetto, l’ho desiderato. Volevamo, disperatamente credere che quello che lei già delineava come il Male fosse – almeno per una volta! – solo il frutto della sua immaginazione. Desideravamo essere ingenui, credere da sciocconi che la storia con sguardo benevolo, come una madre pietosa, potesse sollevare dall’annientamento finale noi, gli italiani, “popolo” cialtrone e inconsapevole, che però si è sempre sentito una super-entità culturale, soltanto grazie al proprio passato artistico e intellettuale. La Magli ci redarguiva, tentava un ultimo atto di salvataggio da noi stessi: inutilmente! Ci spiegava che un popolo in generale e ciascuno popolo dell’area territoriale europea nello specifico aveva una propria particolare identità di lingua, cultura, arte, letteratura, musica, civiltà: ce l’aveva inscritta nella propria storia, che era la base dell’identità, ma era segnata anche nella loro aspirazione a darsi un modello, una forma particolare del proprio essere “popolo”. Inorridiva, la Magli, all’idea di unificazione dell’Europa, che definiva «un’idea contraria alla ragione e alla storia». Ce l’aveva a morte con «gli adepti del nuovo dio», coloro che, pur avendo a disposizione i parametri della cultura dei popoli, avevano invece prima scelto e poi imposto, nel trattato di Maastricht, i parametri, firmati dai rappresentanti dei singoli Paesi, di “inflazione”, di “tasso d’interesse”, di “margini di fluttuazione del sistema monetario”, di “deficit annuale” e “debito pubblico”; inorridiva ma non si stupiva che l’Europa voluta dai banchieri rivelasse, anche attraverso l’uso dello sterile linguaggio, la totale indifferenza per i valori umani. 

Parlava esplicitamente di «dittatura europea» e invitava gli italiani – e l’ha fatto fino alla fine dei suoi giorni – a rizzare le antenne, a dubitare, a porre attenzione a quello che lei definiva «il peccato originale dell’Unione Europea», vale a dire la «mancanza dei popoli» nella costruzione del progetto».

Perché nessuno legge il Trattato di Maastricht?, si domandava. Forse la mancanza di «qualsiasi riflesso di umanità ha tolto a chiunque «il desiderio o la forza di leggerlo»,  e proseguiva: «Questa è stata la sua fortuna: è andato avanti senza ostacoli perché, non avendolo letto, nessuno ha avuto neanche la voglia, la competenza per contestarlo…» E ancora: «…coloro che l’avevano pensato e sottoscritto erano despoti assoluti, non avevano nessun bisogno di riferirsi agli uomini per dettare il proprio disegno e le regole per realizzarlo».

Nelle conferenze, negli interventi, nei documenti, nei libri rincarava la dose sui burocrati dell’unione europea: «(Per loro)tutto il resto non aveva senso né valore: la patria, la lingua, la musica, la poesia, la religione, le emozioni, gli affetti, tutto quello che riguarda gli uomini in quanto uomini, che dà significato e espressione al loro vivere in un determinato luogo, in un determinato gruppo, il loro contemplare un determinato paesaggio, il loro amare, soffrire, godere, creare, veniva ignorato».

Si interrogava, la Magli, sul progetto mondialista, di cui nell’unione dei popoli europei intravedeva uno step. Molti di noi hanno impiegato molto più tempo per capire, nonostante le sue parole. Però negli ultimi anni si è fatto sempre più chiara una confluenza di interessi (una specie di dottrina di base del globalismo) che continuamente spinge verso la costruzione di un “mondo globale”, del quale, del resto, esistono artefici e costruttori che pubblicamente, per mezzo di discorsi e scritti, hanno parlato dell’argomento “nuovo ordine mondiale”. Apro una parentesi per citare alcuni esempi fondamentali, per tutti coloro che amano trovare risibile l’idea di un progetto di  un Nuovo Ordine Mondiale. Così ricordiamo le parole di Henry Kissinger nel 1992: «…i diritti individuali saranno soppressi di  buon grado purché vengano garantiti ordine e pace da parte di un Ordine Mondiale». Sempre nel 1992 il “Time” pubblicava l’articolo “The birth of the Global Nation” di Strobe Talbott, amico di Clinton (suo compagno di stanza all’Università di Oxford), direttore  del “Council on Foreign Relations”, nonché membro della Trilaterale: «La nazione diventerà desueta, gli Stati riconosceranno una autorità globale… gli eventi del nostro secolo vanno necessariamente in direzione di un Ordine Mondiale». Nel 1993 Henry Kissinger tornava ad esprimersi in favore di un Nuovo Ordine Mondiale sul “Los Angeles Times”: «Quello che il Congresso dovrà ratificare non è un semplice accordo commerciale, ma l’architettura di un nuovo sistema internazionale, teso a un Nuovo Ordine Mondiale. Nello “Human Development Report” dell’ONU del 1994, sezione “Global Governance for the 21st Century, si dice: «I problemi dell’umanità non possono essere risolti da un governo nazionale, ciò di cui abbiamo bisogno è un Governo Mondiale. Esso può realizzarsi con il rafforzamento del sistema ONU». E David Rockefeller nello stesso anno dirà: «Tutto ciò di cui abbiamo bisogno  sono le crisi, la crisi per eccellenza, e le nazioni accetteranno il Nuovo Ordine Mondiale».

Noi uomini comuni, non appartenenti ad élite, nel nostro immaginario di “tacchini” un po’ instupiditi, spesso identifichiamo come artefici del Nuovo Ordine Mondiale i mostri dei colossi bancari o le piovre delle multinazionali: semplificazioni forse non del tutto corrette, eppure non troppo lontane dal vero. Nonostante qualche guizzo di pensiero originale, le nostre menti impigriscono, cullate dai ritmici tam-tam dei media che con massima abilità ci conducono verso la mancanza di autonomia di pensiero, verso quella concezione di “uguaglianza” verso la quale gli antropologi come Ida Magli si sono sempre scagliati.

La rinuncia alle nostre specificità, di individui e di cultura, comprese quelle sessuali, religiose sociali e politiche, fa parte dell’avviamento dei popoli e degli individui verso le forme di “pensiero globale”, configurato su standard e stereotipi eteroforniti, e propinati con molti raffinati sistemi di convincimento. L’obiettivo progressivo è la formazione di un “uomo nuovo”, omologato su parametri prestabiliti, ben controllati, un uomo pronto a farsi plasmare con duttilità e facilità. In un mondo con caratteri mondialisti si aborriscono sia i popoli sia i singoli individui dall’identità forte, riferibile a forme di riconoscimento nella propria storia, nella tradizione portatrice di valori, in un’etica forte e ben delineata, in grado di proiettare persone e comunità verso aspirazioni e ideali.

Così, mentre la maggior parte di noi voleva credere nel progetto di una “Europa” salvifica portatrice di benessere, pace, miglioramento, civiltà… la Magli ci avvertiva dei pericoli insiti nel voler riconoscere una identità europea al di sopra delle singole comunità nazionali , che nel corso della loro storia si erano sempre dilaniate e portavano impressa nel loro DNA la memoria storica degli odi e delle guerre. Ci spiegava che l’uguaglianza di significati e costumi annienta la specie umana e l’integrazione (ogni integrazione) avviene con l’assimilazione da parte dei più forti del gruppo culturale più debole. E per “più forti” non intendeva soltanto i grandi popoli dell’Europa settentrionale e centrale, ma anche le popolazioni islamiche.

La Magli dunque vedeva diffondersi a macchia d’olio l’idea di una Europa unificata, mentre i popoli stanziati sul territorio europeo erano totalmente dimentichi della loro storia, quasi ubriachi nel fare propria quell’idea, arrivata da chissà chi, che improvvisamente la storia non contasse più nulla, non “esistesse” più. Avvertiva la studiosa che in questo processo era riconoscibile la volontà di cancellare la storia. «Di questo possiamo essere sicuri», scriveva in “La Dittatura Europea” «esiste un centro-laboratorio dove intellettuali, storici, linguisti, psicologi lavorano a trasformare il significato della storia». E citava il “ministero della Verità” narrato da Orwell  dove vi era chi riscriveva i libri di storia, perché «chi controlla il passato controlla il futuro».

Torniamo per un momento alla visione lucidamente “profetica” di Orwell. Durante l’interrogatorio di Winston, operato da O’Brien, Grande Fratello di 1984, il prigioniero non ricorda più con precisione la configurazione di alleanze e contrasti tra le grandi tre potenze mondiali che si giocano le sorti della Terra (Eurasia, Estasia, Oceania). Chi era contro chi? Chi il nemico in guerra e chi l’alleato? Il povero Winston aveva buone ragioni per non rammentare. Qualcuno potrebbe obiettare che, per ricordare, libri, giornali e manifesti sarebbero potuti servire a risvegliare la memoria, ma nel caso del nostro distopico romanzo non è così.. Infatti il Socing (il Partito dittatoriale) aveva già provveduto a cancellare e modificare le parole scritte, a correggere la storia in conformità con le nuove esigenze del gruppo di potere al governo e nel frattempo una “nuova” verità aveva conquistato la memoria e la mente di ogni cittadino, in un perverso gioco di decostruzione e ricostruzione mnemonica. 

Questa tecnica di controllo della realtà e delle menti individuali, cui le persone sono sottoposte in Orwell, porta ad una forma estrema di ipocrisia, in grado di spaccare, di dividere in due parti la mente umana inducendola al “bispensiero” o “bipensiero”, facendo sì che l’individuo accetti contemporaneamente due realtà contrapposte. Questa è la definizione dell’autore: «capacità di accogliere simultaneamente due opinioni fra loro contrastanti, accogliendole entrambe». Ma perché ciò è necessario? Spiega Orwell: «Solo conciliando gli opposti diviene possibile conservare il potere all’infinito». 

Tornando a Ida Magli, e alle sue riflessioni sul “bipensiero”, è chiaro che lei riteneva che nel progetto di costruzione di quella che tutti iniziavano a chiamare semplicemente “Europa” si manifestasse abbondantemente  e in molte forme il “bipensiero”, ad iniziare dalla presenza di principi desunti da qualunque studio antropologico (che esaltavano le diseguaglianze) insieme a quelli di false uguaglianze propugnate dai “nuovi” pensatori. E se la prendeva con il politically correct.

Infatti se le masse sono indotte a fare propri giudizi, concetti, idee opposte a quelle che produrrebbero spontaneamente e naturalmente, nel caso fossero libere di formulare idee in libertà, si ottengono due risultati contemporaneamente. Il primo, più immediato, è appunto quello di inculcare pensieri pre-confezionati (contrari alle logiche di coloro cui vengono propinati); il secondo è quello di indurre le masse ad assumere, ad accettare prima e far proprie poi, l’a-logicità del pensiero. Siamo proprio di fronte al modus operandi che Orwell definiva “bipensiero”.

Politicamente corretto?, si domandava Ida, e affermava: «costituisce la forma più radicale del lavaggio di cervello che i governanti abbiano mai imposto ai loro sudditi». Spiegava come il meccanismo – un vero e proprio meccanismo di censura – inserisce una distorsione concettuale e praticamente si impadronisce  dello strumento naturale  di cui la mente umana è dotata per discernere le differenze, attraverso l’imposizione del conformismo linguistico che diviene ideologicamente tiranno. Per mezzo di un conformismo linguistico si veicolano modi condizionanti di percepire fatti, concetti, idee, indirizzate  da organismi di potere alla massa, che si allinea in questo modo, a forme di pensiero eterodiretto.

Spiegava la Magli che ogni  popolo, ogni cultura dovrebbe trovare nella libertà la forza di esprimersi, di irradiarsi all’esterno, con una propria forma: nel rapporto dialettico con altri modelli culturali, ogni cultura ha la capacità di percepire i pericoli e, quando necessario, ha in sé l’abilità di rigettare gli elementi estranei non compatibili con la propria cultura, in modo esattamente analogico a ciò che fa un corpo biologico, che  per mezzo del sistema immunitario rigetta elementi ammorbanti. Se noi invece obblighiamo un popolo a non esprimere, ad accettare, attraverso l’uso del linguaggio,  che elementi estranei (e inaccettabili logicamente)  si insinuino nel suo sistema culturale, ci avviamo sulla strada dell’estinzione. 

È ciò che sta accadendo all’Occidente. E non possiamo che dare ragione alle lucide previsioni di Ida, che per le sue idee rivoluzionarie ha pagato, negli ultimi anni della sua vita, l’indifferenza del mondo accademico, al quale era appartenuta, essendo stata docente di Antropologia all’Università di Roma, e che ha causato l’allontanamento di colleghi ed ex-amici, turbati dalla forza del suo pensiero fuori “allineamento”. I suoi libri più rivoluzionari furono ignorati, uccisi dal silenzio dei media (ufficiali). Non se ne stupiva. Ma non disperava.  Perché, diceva « la grandezza dell’Uomo è nel pensiero. E c’è sempre almeno un altro uomo che lo afferra e lo trasmette».

Noi desideriamo essere quell’uomo.

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