LA SCUOLA E LO ZEN di Letizia Gariglio

Quando ho cominciato a scrivere questo articolo sulla scuola dopo aver  dato il nome al file ho riso un sacco per il refuso: c’era scritto “La suola e lo zen”. E subito ha aleggiato su di me l’aura di Gianni Rodari: mi è piaciuto questo scherzo, che mi ha subito fatto venire in mente gli insegnamenti del grande pedagogista, oltre che grande scrittore. Mi faceva piacere inserire questa “suola” nel panorama degli errori creativi che Rodari esamina in un capitolo della sua “Grammatica della fantasia”. Raccoglierò l’invito, da allieva cresciutella, a diventare “turista della fantasia” come nel caso della sua “Lamponia”, oppure, nello specifico caso, lo considererò un invito personale a divenire ciabattina della fantasia: mi ci proverò. Che belli, i tempi in cui imparavamo da Rodari a essere insegnanti sperimentatori dell’immaginazione e nello stesso tempo dell’educazione linguistica, perché era attraverso le parole che ci avvicinavamo a quel modo di fare scuola in cui si “inventava”, si “creava”. Creavano gli insegnanti, immersi in una sorta di eccitazione post-sessantottina in cui trasferivano i propri ideali applicandoli alla scuola, creavano bambini e ragazzi, cui veniva dato uno spazio e un tempo per cogliere in profondità le risonanze delle parole.

Insieme, allievi e insegnanti “giocavano” a recepire a e a produrre quelle “onde di superficie e di profondità” in grado di innescare reazioni a catena, coinvolgendo “suoni e immagini, analogie e ricordi, significati e sogni, in un movimento che interessa l’esperienza e la memoria, la fantasia e l’inconscio …”.  Oggi, pare che l’inconscio qualcuno voglia per forza riempircelo di brutture, di paure, tenendoci in una condizione pressoché costante di allerta, con un uso continuo di parole legate alle paure e alle imposizioni: cuore e mente colme di paura non esercitano la “grammatica della fantasia”, e forse è proprio questo lo scopo che si vuole ottenere.

Rammento una storia Zen, la numero 1 fra le “101 storie Zen” pubblicate da Adelphi. Si intitola “La tazza di tè”:  guarda, come ogni storia Zen, alla natura dell’uomo, disprezzando formalismi e stereotipi che allontanano dalla ricerca del proprio “io”. La riporto:

“Nan-in, un maestro giapponese dell’era Meiji (1868-1912) ricevette la visita di un professore universitario che era andato da lui per interrogarlo sullo Zen.

“Nan-in servì il tè. Colmò la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare.

Il professore guardò traboccare il tè, poi non riuscì più a contenersi. «È ricolma. Non ce n’entra più».

«Come questa tazza», disse Nan-in  «tu sei ricolmo delle tue opinioni e congetture. Come posso spiegarti lo Zen, se prima non vuoti la tua tazza?»

Ecco, la storia rappresenta bene la situazione della nostra mente quando noi costantemente ingurgitiamo  pensieri, regole (il tè) che riempiono la nostra mente con ragionamenti di tipo chiuso, idee  già percorse da altri, predigerite e fornite a bella posta, concetti già ampiamente sperimentati e proprio per questo destinati a non produrre nulla di nuovo. Ripetere schemi precostituiti può aiutare a rendere gli allievi  liberi di promuovere nuovi punti di vista, aiuta ad affrontare un argomento o una problematica con prospettiva nuova? Li addestra alla libertà di pensiero?

La pedagogia del Novecento, animata da grandi ideali, aveva pensato di rendere il processo di insegnamento/apprendimento un processo creativo, essendosi appropriata, attraverso gli studi sulla creatività, del concetto di “pensiero divergente”, a fianco di quello logico-deduttivo. Aveva pensato di poter spingere gli allievi a pensare in modo libero, dando loro il tempo di esplorare con la mente, di elaborare operazioni inconsce, di seguire sensazioni, impressioni per giungere a un risultato. Aveva creato la condizione perché ciò avvenisse, creando ambienti didattici interattivi, sereni, il più possibile adatti alla circolazione di idee libere da pregiudizi, il meno censori possibile per sbloccare pensieri e comportamenti, per creare interesse, aprendo blocchi percettivi, emotivi e culturali.

Oggi che cosa propone la pedagogia contemporanea? Mi sembra di intravedere un gran daffare nel realizzare  chiusure (anche fisiche), impedimento del movimento, dello scambio, della collaborazione di gruppo, vedo il proponimento di regole su regole, la rinuncia (o l’imposizione a rinunciare) persino all’espressione facciale…La “nostra” scuola ha strenuamente lottato per insegnare agli allievi a prepararsi il tè con scelte di foglioline e di procedure  personali, ma pare che “questa” scuola abbia come obiettivo quello di riempire le testoline di tè già bell’e pronto.  E quando mai sentiamo parlare di didattica?

Allora, che la grammatica della fantasia ci venga in aiuto:

« C’era una volta un ciabattino alle prese con un paio di scarpe…»

Qualcuno vuole continuare con me?

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