LA VERA SCUOLA DELL’OZIO. RECENSIONE ANACRONISTICA di Letizia Gariglio (articolo pubblicato su “Parole in rete”, maggio 2024)

Vi è mai capitato, tornando su un testo che avevate letto in passato di vedersi produrre nella vostra mente una sorta di squarcio luminoso, un’improvvisa, intuitiva comprensione che in precedenza vi era mancata? Oppure: vi è mai capitato, nel riprendere la lettura di un testo, di trovarvi un contenuto incredibilmente attuale, così calzante alla situazione odierna, o così stimolante per la comprensione della contemporaneità, da offrirne una spiegazione pertinente, per così dire, ante litteram?

Ecco il perché delle RECENSIONI ANACRONISTICHE, su libri del passato, da cui scaturiscono riflessioni, stimoli, pensieri, idee, osservazioni.

Qui la recensione anacronistica riguarda il volume di Ivan Illich Nella vigna del testo. Per una etologia della lettura, Raffaello Cortina Editore, 1994.

«Il testo libresco è la mia casa, ed è alla comunità dei lettori libreschi che mi riferisco ogni volta che dico “noi”: ecco un’affermazione davvero forte di Ivan Illich, (1926/ 2002), filosofo austriaco naturalizzato statunitense. L’autore  è perfettamente consapevole che la casa sia antiquata come una candela in luogo di una lampadina, eppure non può fare a meno di considerare il libro come una fonte «di meraviglia e di gioia, di interrogativi e di amaro rimpianto», alle prese con le ardue minacce sopravanzate con l’ alfabetismo informatico.

Malgrado il libro oggi non rappresenti più la metafora fondamentale della nostra epoca, poiché il suo posto è stato occupato dagli schermi, Ivan Illich si inoltra nel suo testo «per offrire una guida per un punto d’osservazione nel passato che mi ha schiuso nuove vedute del presente».

È sostanzialmente un libro sulla lettura, che incoraggia il lettore a frugare fra gli scaffali delle biblioteche e a provare tipi di lettura diversi. Ed è un’avventura dentro il pensiero di Ugo di San Vittore, espresso nel Didascalicon, scritto attorno al 1128.

«Omnium expectandorum prima est sapientia» ne è l’incipit, di cui una prima, forse troppo spontanea traduzione è «di tutte le cose da ricercare la prima è la sapienza». Ricordo che non fu questa la mia traduzione immediata, operata fra me e me, quando lessi le parole per la prima volta; fu invece: «Di tutte le cose da ricercare la più importante è la sapienza». Prima mi suonava male, in luogo di quella ragione ultima con cui noi definiamo in italiano le cose più importanti. In tal senso la sapienza si presenta per ultima, come obiettivo finale di uno sforzo per penetrare la conoscenza. Noi, infatti, pensiamo allo scopo più importante da ottenere come ultimo, se immaginiamo di scavare e di farci strada verso la sapienza.

Il sottotitolo del Didascalicon è: De studio legendi. Ma che cos’era per i latini lo studio? Sul dizionario di latino di quando andavamo a scuola leggiamo: «applicazione, zelo, diligenza, cura, passione, ardore, desiderio». Inoltre: «occupazione prediletta, inclinazione, gusto». E ancora: «amorevole applicazione alla lettura». Le voci mi rimandano all’idea di una vita dedita alla quiete interiore (ed esteriore), alla concentrazione dell’attenzione al sapere.

Ugo di San Vittore ci presenta il libro come una medicina per l’occhio: ci si espone alla luce del libro, che emana di pagina in pagina, per riconoscere, per divenire consapevoli del proprio Io: «Alla luce della sapienza che fa risplendere la pagina, l’io del lettore si accenderà, e alla luce di questo fuoco il lettore riconoscerà se stesso». Aggiungerei: guardandosi con i propri occhi.

Soffermiamoci però a riflettere sul verbo leggere. Legĕre significa raccogliere, cogliere; si raccolgono noci, erbe, pomi, legni: è un’attività fisica. Leggendo si  raccoglie con gli occhi.  Per Ugo l’attività del legĕre implica la raccolta delle «lettere dell’alfabeto per legarle in sillabe», dice Illich. E non dimentichiamo che nulla potrebbe essere può concreto della pagina, espressione giunta proprio dal linguaggio inerente alla vigna, che significa l’insieme di quattro filari di viti unite con graticci in un quadrato.

Ma come può essere vissuta la lettura? Come splendido ozio.

Meravigliosa parola, il cui perfetto significato è: libertà. Il tempo dell’ozio è il tempo riservato a vacare, cioè a liberarsi, a rendere se stessi liberi. «Vacare studio», diceva Cicerone, cioè rendersi liberi per lo studio. Precisa Illich: «la libertà che si prende di propria volontà». E precisa che S. Agostino era chiamato da Dio a praticare l’ozio. Sento spesso i nostri ragazzi nel loro gergo adolescenziale adoperare la parola svaccare: svaccano quando si riposano, sono liberi da compiti, lezioni e altri doveri, si prendono tempo per sé, liberi da schemi e stereotipi. Non sanno di adoperare, in forma personalizzata, un verbo della lingua latina in un modo molto vicino al significato originario. Possiamo fare a meno di dirglielo, ma non impediamogli di prendersi il tempo per vacare e oziare, vale a dire di sentirsi liberi: non potranno che trarne giovamento.

C’è un’altra parola che si accompagna a ozio, del tutto affine nel significato: è la parola scuola . Scrive la Treccani:  «Termine derivante dal lat. schŏla (dal gr. scholé), che in origine significava (come otium per i latini) tempo libero, piacevole uso delle proprie disposizioni intellettuali, indipendentemente da ogni bisogno o scopo pratico, e più tardi il luogo dove si attende allo studio, accezione quest’ultima nella quale è tuttora in uso».

Scuola come ozio, ribadisco, come tempo libero. Tuttavia, malgrado l’amore per i classici, oggi è molto difficile affidarsi al significato originario, che il risultato di ricerche etimologiche ci promette. La realtà odierna è molto diversa.

La maggior parte degli studenti odia la scuola o la sopporta a mala pena: risulta essere un luogo di costrizione, non un luogo ameno in cui dar spazio, per propria volontà, ad una forma scelta personalmente di realizzazione del tempo libero. È per lo più fonte di stress. Non raramente è motivo di disturbi di salute, non sempre palesemente attribuibili alla causa reale. Le conoscenze (e le osannate odierne competenze!) conquistabili a scuola sono considerate soltanto come tappa necessaria di un iter indispensabile prima di avviarsi verso quella che per ogni individuo è la vita vera: la vita adulta, agognata dagli adolescenti e prefigurata in modo più o meno edulcorato dai bambini. Ben pochi fanno coincidere con la scuola il luogo prescelto per il proprio processo di crescita, di formazione e di maturazione. Capita infatti molto più spesso che questo luogo, il luogo scelto, coincida con il luogo di apprendimento delle attività sportive o, in alcuni casi, tuttavia più rari, con quello di attività artistiche.

La scuola, nel suo complesso, risponde molto male, e non solo per propria colpa, alla nobile intenzione di educare, il cui etimo, non dimentichiamo, rimanda a ex-ducĕre, vale a dire trarre fuori, come anche sollevare, innalzare, portare in alto, e ancora, portare al largo. Non si tratta solo di far lievitare in altezza fisica  i nostri ragazzi, ma di trarre da loro talenti, capacità intrinseche, qualità  dell’anima, in modo da metterli in condizione di veleggiare fra i marosi della vita, imbarcazioni abili nell’affrontare il mare.

Ma genitori e famiglie spingono verso la necessità di passare attraverso gli anni della scuola come attraverso le forche caudine e, malgrado la scarsa convinzione che davvero la scuola possa essere luogo di educazione, sperano che essa possa fungere da azienda in grado di fornire le caratteristiche minime per affrontare poi una vita lavorativa e professionale.

Così si è giunti all’assurda forma attuale della scuola, in cui il branco degli studenti, organizzato in pattuglia ordinata, almeno intenzionalmente, in file e banchi, è sottoposto alla tortura di stare fermi e seduti per un numero svariato di ore, contro ogni legge di natura e contro ogni opportunità legata all’età, allo sviluppo e alla necessità di movimento consono con l’età degli studenti.

Se Aristotele si dedicava alla scholé insieme a gruppi di studenti, coltivando il desiderio di libero apprendimento dei più giovani, mentre insieme camminavano fra i peripatoi, i colonnati dei porticati  (da cui poi il nome di scuola peripatetica), i nostri giovani, imbalsamati come salami nelle scansie dei banchi, vengono imbeccati come polli, da avviare presto verso gli allevamenti intensivi rappresentati dal mondo del lavoro.

Ivan Illich ci ha portati fino a scuola, con una certa amarezza per la scuola odierna. Non vediamo l’ora di immergerci nuovamente nella nostra pratica di lettura, «nella vigna del testo», fra le pagine dei nostri amati libri: esperienza, come ci dice Illich, che coinvolge l’intero corpo. Stendiamo dunque idealmente la mano per cogliere grappoli e gustare  chicchi d’uva, pronti per portare nelle nostre vite dolci sapori raffinati.

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