NOI E GLI ANIMALI

Il servizio è stato pubblicato sul n. 8/2014 della rivista  InOgniDove. Contiene tre articoli:

Il rapporto fra l’uomo e gli animali

Antiche scritture e nuove idee sugli animali

Non tutte le colpe sono delle teorie

 

Il rapporto  fra l’uomo e gli animali

Siamo abituati a considerare lo sfruttamento dell’ambiente da parte dell’uomo come un dato di fatto, talmente ovvio da apparire indiscutibile. Anzi, se ci soffermiamo a pensarci, ci viene subito in mente che l’uomo, in fondo, è del tutto simile a ogni altro essere di qualunque altra specie e ci sentiamo accomunati da un destino comune con gli altri esseri viventi. Ciascun elemento del creato, ciascuna presenza, infatti, vive grazie allo sfruttamento di altri elementi: il pidocchio approfitta della rosa, il lupo dell’agnello, lo squalo si nutre del pesce, il polpo mangia il granchio che mangia l’alga, ma la lontra mangia il granchio che mangia l’alga che mangia il plancton animale che mangia quello vegetale che si sviluppa con la luce… Insomma, ad una prima, semplice riflessione salta subito all’evidenza che la vita, ogni forma di vita, si realizza a spese di qualche altra forma di vita. La vita, insomma, si nutre della vita.

Tuttavia non è un pensiero di questo tipo che l’uomo fa o ha fatto, né quando si arroga oggi il diritto di decidere della vita di altri animali né quando si è formato la convinzione, nel corso della storia dell’umanità, di avere diritto di appropriarsi della vita degli animali per conseguire un proprio vantaggio. Per farlo – ieri e oggi – si è dovuto tenacemente attaccare non tanto all’idea di essere uguale a loro nel destino che ingaggia il contrasto fra forme di vita, quanto piuttosto all’idea di essere superiore agli animali, perché dotato di intelletto e di parola. Per assumersi decisioni nei confronti delle vite animali inoltre ha dovuto desensibilizzarsi nei confronti di tutti i messaggi inviati dagli animali per manifestare le loro emozioni, espresse attraverso sguardi, comportamenti, gesti, grida, suoni di dolore. La sensibilità l’ha riservata, solo qualche volta, ai suoi animali domestici: cosa che poi è tutta da vedere.

Così, nella storia del rapporto fra uomo e animali si sono alternate, una dopo l’altra, posizioni filosofiche che hanno creato maggiore o minore vicinanza: più si andava accentuando il divario fra l’uno e gli altri, tanto più si manifestavano forme drastiche di utilizzazione degli animali da parte dell’uomo.

Già il filosofo greco Teofrasto faceva una distinzione importante sulla nozione di sfruttamento degli animali e delle piante, quando affermava che alle piante non si faceva alcun male, dal momento che i frutti sarebbero comunque caduti a terra: c’è differenza – sosteneva – tra l’uccidere l’animale e il cogliere senza distruggere!

Molti secoli dopo invece il signor Derscartes (Cartesio, diciamo noi) abbandonava scrupoli di questo genere, quando paragonava gli animali alle macchine, agli orologi, agli automi. È a questo magnanimo filosofo che dobbiamo la definizione di bruti privi di pensiero e, dunque, a lui riconosciamo un’ottima base per impostare diritti assoluti dell’uomo sugli animali.

Bisogna arrivare fino ai giorni nostri per veder rinascere l’idea di rispetto nei confronti degli animali, in quanto esseri viventi, sensibili e senzienti.

Occorre arrivare fino al 1978 perché sia redatta La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Animale, proclamata a Parigi presso la sede dell’UNESCO il 15 ottobre 1978. La Dichiarazione esprime norme di etica nei confronti del mondo animale, in un’ottica complessivamente negativa del mondo, perché «…minacciato di distruzione e nel quale violenza e crudeltà esplodono in ogni istante».

La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Animale costituisce un bel passo avanti, proponendo regole di comportamento dell’uomo nei confronti degli animali, tuttora condivisibili dal punto di vista teorico. Tuttavia, come tutte le idee largamente condivisibili non basta a istituire la reale acquisizione di comportamenti.

Chi non condivide, infatti, il concetto di rispetto per gli habitat e gli animali selvatici, o quella dell’opportunità di rinunciare all’uso di animali per divertimento o pseudocultura? Però quando l’idea va a toccare e disturbare abitudini incancrenite, il discorso finisce con l’aleggiare su un piano puramente teorico. Infatti, fino al non usare animali per fare pellicce potremo trovare una buona base di concordanza di idee, ma siamo tutti d’accordo a non usare gli animali a fini alimentari? E a non usarli per fare ricerca (per esempio medica, o cosmetica, o industriale)? Qui la differenziazione di idee già si pronuncia.

Dal punto di vista teorico ognuno di noi può trovarsi d’accordo sul rifiutare lo sfruttamento degli animali a fini consumistici, sul non procurare loro dolore, sevizie o torture, ma dal dire al fare …

Certo tutti vorremmo realizzare il concetto di benessere animale … ma come facciamo con la nostra bistecca?

Antiche scritture e nuove idee sugli animali

Nonostante le buone idee contenute nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Animale sappiamo che oggi negli allevamenti gli animali vengono troppo spesso tenuti senza alcuna forma di rispetto per loro in quanto esseri viventi, in grado di sentire, percepire, provare emozioni, i quali necessitano di movimento e, perché no, persino di gioco. Se la sognano una vita dignitosa; se la sognano una morte dignitosa!

Sono chiusi in gabbie, in box ristretti, accatastati in stie condominiali multi-piano, costretti in condizioni di sovraffollamento estremo, vivono senza alcuna attenzione per le loro esigenze fisiologiche; non viene loro concessa possibilità di movimento o di spostamento; vengono mutilati, sfruttati fino allo stremo delle forze nelle loro possibilità riproduttive, sono imbottiti di ormoni, costretti ad assumere antibiotici e medicine, privati di relazioni con i loro simili, di qualunque forma di espressione affettiva, vengono nutriti con alimenti chimici, artificiali, inadeguati, talvolta in contrasto con la loro stessa natura (si costringono erbivori a nutrirsi di derivati di carne, per esempio), vengono in ogni modo privati della possibilità di sfamarsi e dissetarsi secondo esigenze e tempi individuali e naturali. La sofferenza, fisica e mentale, è il loro pane quotidiano. Vengono uccisi a poche settimane o pochi mesi di vita, in condizioni che qui è meglio non descrivere, ma che nei macelli si conoscono molto bene. A chi importa che siano individui, che abbiano diritto alla vita, che sentano, comunichino, amino? Non apriamo il discorso vivisezione né quello sulla sperimentazione su animali: già così ce n’è abbastanza.

In netto contrasto con gli aspetti più deleteri della realtà, parallelamente al peggioramento progressivo e continuo di queste situazioni, si fa un gran parlare di antispecismo e di diritti degli animali.

Che cos’è l’antispecismo?

Prendiamo la definizione secondo Wikipedia, che certamente non è la più dotta, ma è la più consultata. Dice: «L’antispecismo è il movimento filosofico, politico e culturale che si oppone allo specismo».

Il primo autore a parlare di specismo fu lo psicologo Richard Ryder. Sostenne l’esigenza di smascherare il più grave errore morale che contraddistingue la società occidentale antropocentrica, ossia il rifiuto di riservare un trattamento egualitario agli esseri non umani solo per ragioni connesse all’assenza di un legame di specie.

Il documento Proposte per un Movimento antispecista, anch’esso reperibile in rete, dice: «Come l’antirazzismo rifiuta la discriminazione basata sulla razza e l’antisessismo quella basata sul genere sessuale, l’antispecismo respinge quella basata sulla specie, sostenendo che la sola appartenenza a una diversa specie non giustifica eticamente il diritto di disporre della vita, della libertà e del lavoro di un essere senziente». D’accordo. Ma qui cominciano subito le grane: che cosa vuol dire che l’antispecismo rifiuta la discriminazione basata sulla specie? Già, perché pare ovvio da subito – a me sembra proprio così – che il soggetto dell’azione discriminare non sia in realtà l’antispecismo, bensì l’uomo. E sul fatto che l’uomo discrimini alcune specie animali a proprio vantaggio non ho alcuno dubbio: si tratta di una discriminazione bestiale (mi si consenta l’ingenuo gioco di parole), che ha come uno scopo il puro vantaggio economico. Mi pare anche, tuttavia, che l’uomo che si affanna a trattare malissimo maiali, conigli o polli, sia assai più benevolo verso altre specie. Certo, gli uomini di medicina sono per così dire molto antispecisti verso i batteri e i virus; gli uomini di agricoltura lo sono con insetti e parassiti; le casalinghe, di campagna e di città, vorrebbero lo sterminio di ogni topo sulla faccia della terra, seguita da quella della zanzara tigre, e così via, però di solito queste situazioni non vanno sotto il nome di antispecismo. Perché?

In realtà la definizione che abbiamo riportato non dice quasi nulla e forse, per capire, occorre fare riferimento ad una concezione che l’uomo si è formato, fin dall’antichità, attorno a se stesso come centro del mondo e al suo rapporto con il mondo animale.

L’idea di rappresentare quanto di meglio fosse presente nel mondo, anzi, di fungere da faro, da luce, il pensiero di essere il centro dell’universo, si è formata nell’homo sapiens quando già era sapiens da molto tempo. Dal punto di vista storico l’idea dell’antropocentrismo e del dominio sul mondo animale nasce nel Neolitico, all’incirca diecimila/dodicimila anni fa, periodo nel quale l’uomo, in precedenza raccoglitore e cacciatore, stanzia insediamenti di agricoltura e allevamento; alle mutate condizioni sociali danno in seguito manforte le affermazioni contenute nei testi religiosi giudaico-cristiani, che proclamano il dominio dell’uomo sulla Natura e sugli altri esseri viventi.

Le Chiese contemporanee ora tentano di intervenire nella questione dei diritti degli animali e provano ad affinare qualche sensibilità nei loro confronti, ma l’accusa di aver in qualche modo legittimato il dominio dell’uomo sugli animali rimane, pur non essendo esse le responsabili dell’arbitrio dell’uomo nell’aggiungere crudeltà e violenza. La teologia si è sentita coinvolta nella questione dei diritti degli animali non tanto perché spinta dalla consapevolezza di una sua costante disattenzione al riguardo, quanto piuttosto perché colpita dalla durezza e dalla gravità dell’accusa rivolta alla tradizione giudaico-cristiana di avere legittimato, e per di più in nome di Dio, ogni sorta di arbitrio nei confronti degli animali.

Infatti nella Bibbia, in Genesi si trova: «E Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”. Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi; riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra”. E Dio disse: “Ecco io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo. A tutte le bestie selvatiche, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde”». E nel Salmo 8,5-9 troviamo: «Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi? Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi; tutti i greggi e gli armenti, tutte le bestie della campagna; gli uccelli del cielo e i pesci del mare, che percorrono le vie del mare».

È appunto il concetto dell’uomo come padrone della terra che ha creato il dubbio che le Scritture Sacre abbiano legittimato nell’uomo il senso di arroganza, di insensibilità e, non ultima, la facoltà di procedere liberamente nello sfruttamento delle specie animali. Ora nuove e più morbide interpretazioni teologiche spingono a vedere nell’uomo non già il padrone, ma il custode delle altre specie viventi, ma mi sento di affermare senza ironia che è un po’ tardi.

L’ idea filosofica antispecista che si fa oggi strada, guadagnando via via un numero sempre maggiore di adesioni, si oppone nella teoria e nella pratica all’oppressione degli animali e rifiuta che l’appartenenza alla specie umana possa giustificare da parte dell’uomo l’esercizio del diritto di disporre della vita, del lavoro e della libertà di esseri appartenenti ad altre specie, e nega che le capacità di sentire, avere relazioni, interagire siano prerogative esclusive della specie umana.

Non tutte le colpe sono delle teorie

Quando nella Oratio de hominis dignitate Pico della Mirandola scriveva della superiorità dell’uomo su ogni altra creatura («…familiare alle superiori, sovrano delle inferiori; interprete della natura per l’acume dei sensi, per l’indagine della ragione, per la luce dell’intelletto, intermedio fra il tempo e l’eternità … di poco inferiore agli angeli …») certamente pensava ad un uomo libero da gioghi medievali, in grado di operare la propria evoluzione spirituale, che avrebbe consentito il ritorno dell’anima umana ai principi biblici ed evangelici: in una parola il ritorno a Dio. Non credo che facesse riferimento agli allevamenti intensivi di animali, né alla pratica della vivisezione, o alle molte forme di brutalità di cui l’uomo moderno si è fino ad oggi mostrato maestro nei confronti del mondo animale.

Non credo neppure che intendesse spingere l’umanità a superare le proprie barriere biologiche né a fare lo scopo dell’antropocentrismo quello di portare all’estremo la strumentalizzazione e l’utilizzazione delle specie diverse da quella umana.

L’uomo però l’ha fatto, come del resto ha spinto nella direzione dello sfruttamento dell’uomo stesso, prendendo a pretesto differenze di razza, colore della pelle, tratti somatici e culturali, genere – maschile e femminile, in favore sempre del primo, s’intende – e così via…

L’antropocentrismo ha alcune colpe, va detto, ma non ha da solo tutte le colpe della montagna di efferatezze che la specie umana ha costruito contro il mondo naturale.

Tanto per dare a Cesare quel che è di Cesare, va detto intanto che l’antropocentrismo è decisamente demodé.Quale uomo oggi si sente misura del mondo? Alzi coraggiosamente la mano chi si percepisce proprio così. Metta il dito sotto la mano chi si può affermare che l’uomo è padrone del mondo. Di tanto in tanto, è vero, qualcuno afferma che l’umanità è in grado di raggiungere qualunque obiettivo, magari attraverso i mezzi messi a disposizione dalle scienze a dalle tecnologie. Molti hanno sognato e di tanto in tanto ancora sognano che la tecnologia consenta all’uomo di superare ogni barriera, persino quelle poste dalla limitatezza biologica del suo corpo; qualcuno spera di trasformare, di cambiare il corpo umano avvicinandolo sempre di più non a quello animale, ma ad una macchina. A tal proposito i risultati sono andati sfumando, allontanandosi dall’orizzonte, e si sono via via concretizzati risultati molto diversi, che hanno visto a poco a poco le macchine avvicinarsi sempre di più a corpi organici.

Insomma, per gli uomini diventa sempre più difficile riconoscersi al centro dell’universo, stelle più luminose fra le altre della galassia. Ma l’antropocentrismo, sotto sotto, rimane ancora una malattia, una patologia che si è cronicizzata, ma non sparita del tutto. Perché?

Perché è tanto di più di un semplice modello culturale. Intanto è il cardine di tutta la filosofia occidentale. Inoltre è un retaggio che si fonda sulla storia stessa dell’umanità, sul funzionamento degli organi sensoriali, percettivi, elaborativi della specie umana. Ciò che tuttavia forse sta cambiando (vivaddio se ha cominciato a cambiare) è la costruzione di una relazione con ciò che è fuori di noi, che è altro, sapendo che la nostra base prospettica non è la realtà, o almeno non è tutta la realtà. Non solo, il mondo degli oggetti e degli animali attorno a noi inizia ad essere percepito dall’uomo non più come una creazione dell’umanità, né come pura emanazione del suo intervento, né come risultato della sua cultura. Una nuova coscienza comincia, seppur timidamente, ad affacciarsi: che uomo, cose e animali siano collegati da una rete che tutto unisce e che crea contaminazione e ibridazione. Scrive il filosofo posthumanista Roberto Marchesini: «L’animale è presente e vivo nella nostra cultura, ma non sotto forma di oggetto quanto piuttosto di partner capace di traghettare l’uomo al di fuori del destino genetico verso quell’immenso repertorio … che chiamiamo cultura».

Ma se è vero che l’uomo non può arrogarsi il diritto di essere il re del mondo, se è vero che la teoria antropocentrica deve essere superata, non è male chiedersi: quale altra specie si pone la domanda sul benessere e i diritti delle altre specie?

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