LA COLONIZZAZIONE INTERIORE (LE PAROLE DEL ’68) di Letizia Gariglio

La colonizzazione interiore di Letizia Gariglio (articolo tratto dal mensile on line “Parole in rete” (settembre 2018)

«Quando un gruppo ne domina un altro, il rapporto fra i due è politico»: queste sono le parole che avremmo voluto leggere nel 1968. Non fu possibile. Ma erano state scritte.

Le aveva scritte Kate Millet, attivista femminista e scrittrice, che aveva iniziato proprio così l’apertura del manifesto del nuovo femminismo, redatto per l’assemblea del primo gruppo di liberazione delle donne, riunitosi alla Columbia University di New York. Il documento, inviato al giornale Columbia Spectator, fu rifiutato. Così non fu possibile leggerlo.

Fu respinto anche dalla Columbia Radio Station dell’Università, che non lo mandò in onda. Così non fu possibile nemmeno ascoltarlo. 

Ne venimmo a conoscenza successivamente, dopo che la macchina tritasassi del mondo patriarcale aveva finalmente preso avvio. Siccome «tutte le civiltà storiche  sono patriarcali: la loro ideologia è la supremazia maschile» era necessario lottare contro il predominio maschile a partire dalle istituzioni, secondo ciò che il Manifesto stesso recitava: le pratiche patriarcali consistevano nella «imposizione del dominio maschile attraverso le istituzioni: la religione patriarcale, la famiglia proprietaria, il matrimonio, il “focolare”». Più di una generazione di donne, quando infine poterono leggere gli scritti di Kate Millet, iniziarono a  dare coscienza ai loro pensieri, che tardavano a prendere forma, perché la cultura patriarcale era dura non solo da assalire, ma persino da comprendere: utilizzava da millenni strumenti di persuasione che raramente avevano consentito al genere femminile di esprimere in modo teoricamente organizzato il senso di disagio, di sofferenza e di sfruttamento che provava. Fin oltre gli anni ’50 del secolo scorso nella società occidentale, compresi gli Stati Uniti in cui la nostra autrice scriveva, si esercitava una dominanza maschile che non si esprimeva soltanto nelle possibilità di istruzione e di realizzazione professionale, ma più sottilmente in ogni anfratto della vita di ogni donna, cui il dominio maschile si imponeva innanzi tutto all’interno della famiglia, con assegnazione di ruoli inferiori, cosiddetti femminili, fatti di doveri domestici, di accudimento di figli, di “casalinghitudine” spesso non desiderati, per non parlare della negazione di importanti diritti umani, come ad esempio il diritto di voto (che come ben ricordiamo nella civilissima Italia avemmo solo nel ’46).

Parte della lotta per la liberazione del sesso femminile doveva passare attraverso la rivoluzione sessuale, atta a garantire la fine della repressione sessuale, attraverso la quale per millenni si era esercitato il dominio maschile, in forme spesso brutali, di violenza e sfruttamento. E nel ’68 con la liberazione sessuale si avviò la possibilità, per il genere femminile, di accedere a una condizione di scelta sessuale di cui la donna era rimasta priva per millenni, coincidenti con il dominio delle grandi religioni monoteiste.

Le donne che ebbero modo di entrare in contatto con il manifesto della Millet e poi con il suo studio (“Sexual Politics”, 1970) fecero proprio il concetto di colonizzazione interiore di cui per prima aveva parlato. Già, perché lo stato di subordinazione delle donne si fondava (e ancora oggi in parte si fonda) su quel sentimento di subordinazione che le viene assegnato già in famiglia, con l’attribuzione di un un ruolo e di uno status inferiore a quelli maschili. Infatti, se un qualunque sistema di caste per esprimersi ha bisogno di una società, il sistema che relega la donna in subordine si realizza a monte, all’interno della famiglia, nel primo nucleo vitale di protezione e di affetti in cui lei cresce, ed è perciò tanto più profondo, insidioso e persuasivo per lei stessa. La donna cresce avendo interiorizzato, compreso e accettato la propria inferiorità nel mondo, avendola succhiata con il primo nutrimento: la forma più subdola e più efficace di potere che il patriarcato potesse immaginare.

A distanza di cinquant’anni dal manifesto della Columbia University i mezzi di informazione ci inondano quotidianamente di racconti di stupri, omicidi, femminicidi, abusi di ragazze che hanno luogo in  ambienti domestici. La casa della famiglia di origine costituisce il miglior teatro di abusi e violenze sessuali a danno delle donne. Eppure le parole che hanno accompagnato le donne nella loro lotta attorno al ’68 sembrano essere passate di moda, la coscienza femminile del resistente dominio maschile e patriarcale sembra essere passata di moda, talvolta si percepisce da parte di alcune donne persino un senso di fastidio attorno alle parole come “emancipazione femminile”, o “emancipazione di genere” o “femminismo”, il fastidio che si prova nei confronti delle cose vecchie, inutili, stantie. Un numero sempre più esiguo di donne sembra rendersi conto che quando un gruppo ne domina un altro, il rapporto fra i due è politico. Tanto, anche per la politica si percepisce un certo fastidio…

(settembre 2018)

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