Nome di battaglia Nina. Intervista ad un’esponente del Movimento No Tav

L’articolo è stato pubblicato sul n. 9/2014 di InOgniDove; fa parete di un servizio intitolato STORIE DI DEMOCRAZIA NEGATA.
Sto osservando alcune immagini scattate durante una manifestazione No Tav: bambini con il loro giocattolo sotto il braccio, anziane con il loro cagnolino (violenti i i denti del pincher!), signori affaticati dalla camminata che si appoggiano al bastone (arma impropria?), famiglie al completo di genitori figli zii nonni e nipoti (vere bande armate di berrettini e sciarpette!), neoterroristi in passeggino o assestati come in trincea dentro zainetti sulle spalle di papà. Non parliamo dei nomi di battaglia… il tuo è Nina, non è vero? Mhmmm… nome dal sapore rivoluzionario… Vuoi raccontarci come sei diventata una No Tav?

«Non sono nata  valsusina, lo divenni con il cuore e la mente in fase adolescenziale. Costruii così qui la mia felicità, mi innamorai e mi sposai. Ora ho 42 anni, vivo, lavoro e cresco i miei figli in Valsusa. Ho conosciuto la lotta No Tav  intorno alla fine degli anni novanta e ho cominciato ad interessarmene e a partecipare insieme alla famiglia del mio ex marito. Reperivo informazioni qua e là tra amici e parenti che già erano a conoscenza di eventi e situazioni riguardanti il caso, via via sono diventata più partecipe e presente. Dopo la fatidica data del 6 dicembre 2005, ho cominciato a frequentare con regolarità i presidi e le assemblee giornaliere o settimanali, ho dedicato molto tempo alla conoscenza e all’informazione, dividendomi fra lavoro e famiglia, e la mia presenza nel movimento e nelle manifestazioni è diventata assidua. La mia crescita personale nel movimento non è dovuta a me stessa ma a tutte quelle persone che ho conosciuto e con cui ho creato legami, con cui ho discusso e con le quali ho partecipato a miriadi di giornate informative e manifestazioni pacifiche di dissenso per la costruzione di un’opera altamente costosa, gravemente dannosa per la salute, deturpante per l’ambiente e il territorio.  Vorrei riferire una frase che ritengo molto significativa: “per essere No Tav non è necessario essere valsusini, ma semplicemente essere onesti”».

Non tutte le manifestazioni No Tav sono state manifestazioni pacifiche. Ricordiamo le prime marce pacifiche con una partecipazione già numerosa della popolazione: fra le tante la fiaccolata del 5 novembre 2005 da Susa a Mompantero con più di 15.000 partecipanti, un’altra marcia il 16 novembre 2005 da Bussoleno a Susa con circa 50.000 partecipanti. Poi però, dopo la sistemazione della prima trivella per fare sondaggi del terreno e in seguito all’esproprio dei terreni, dopo l’intervento delle forze dell’ordine, le vicende del Movimento presero un andamento un po’ diverso: una ventina di manifestanti fu ferita a Venaus; in seguito una marcia di circa 30.000 persone partì da Susa con destinazione Venaus. Fu durante quella manifestazione che le forze dell’ordine cercarono di impedire l’ingresso alla strada provinciale per Venaus; arrivati a Venaus la popolazione rimosse le reti di recinzione del futuro cantiere e invase i prati, bloccando così l’inizio lavori. Possiamo far risalire a quel momento la vera “battaglia”?

«Sicuramente il 2005 segna in modo indelebile il popolo No Tav, perché, nonostante il suo dichiarato pacifismo e la sua nota capacità di dialogo, avvenne la militarizzazione in diversi paesi valligiani tra cui Bruzolo, Venaus, Mompantero, Susa. Molti eventi si avvicendarono tra l’autunno e l’inverno di quell’anno e vi furono date importanti come il 31 di ottobre quando avvenne “la battaglia del Seghino” alle pendici del Rocciamelone, o il 16 novembre 2005, giorno del grande sciopero generale con l’adesione totale della Valle. Il 29 novembre alle tre del mattino, con l’invio di centinaia di mezzi militari avvenne la militarizzazione di Venaus… Insomma, ci trovavamo ad affrontare via via situazioni di cui ci sentivamo ingiustamente vittime, fino ad arrivare alla notte del 6 dicembre quando alle 3,20 la polizia arrivò in massa con una ruspa nei prati innevati di Venaus e travolse tutto ciò che trovava: venti persone finirono in ospedale con nasi e teste fratturate dalla violenza dei manganelli. Poco dopo le tre di notte iniziarono i primi sondaggi sui terreni designati, ed ecco, il presidio non c’ era più.
Immediata è stata la risposta della Valle, che tutta insieme si è fermata: alle 7 del mattino si sono proclamati scioperi nelle scuole e nelle fabbriche, la ferrovia è stata bloccata e così anche le  due statali e l’autostrada dal Freyus, oltre a blocchi e barricate ad Avigliana, Susa e Bussoleno. Il giorno dopo si è svolta una manifestazione alla quale hanno partecipato oltre cinquantamila persone che si sono avviate da Susa a Venaus: era un torrente che straripava; ad un certo punto si è diviso in tanti rigagnoli per poi ricongiungersi intorno al cantiere. Il giorno stesso il governo ha convocato i sindaci a Roma e ha ritirato la maggior parte dei presidi di polizia…»

Tu hai conosciuto l’esperienza del carcere quando, malgrado fossi incensurata, è stata per te fatta richiesta di carcerazione preventiva: eri accusata a di aver opposto resistenza durante un’azione di irruzione nel cantiere di Chiomonte. Eri accusata di lesioni e di concorso morale, e ciò ti ha posto nella condizione di vivere il carcere. Fino ad allora la tua vita in Valle si era svolta fra l’educazione di tre figli, il lavoro in un’azienda del territorio, il volontariato che svolgevi abitualmente sulle ambulanze del 118 e la partecipazione consapevole al movimento No Tav. Una vita da terrorista, insomma… E’ così?

«Era stata organizzata una manifestazione denominata “4 giorni No Tav” dall’8 all’11 settembre 2011, con eventi, dibattiti, assemblee e visite al cantiere di Chiomonte in Val Clarea. La sera del 9 settembre, un corteo cui partecipavano in modo spontaneo famiglie intere si è diretto verso i cancelli del cantiere. Ero all’epoca in servizio alla Croce Rossa Italiana, operavo  come volontaria, dopo aver lavorato ogni giorno come operaia in una ditta di Avigliana. Nell’occasione del corteo avevo portato con me uno zainetto con un kit di primo soccorso, per essere d’aiuto in eventuali piccoli traumi, piccole ferite: era già capitato in passato che il kit tornasse utile, quando gli idranti usati per allontanare le persone avevano sollevato pietre o quando vi erano stati problemi causati dai lacrimogeni. Abbiamo iniziato la camminata in salita dalla centrale elettrica di Chiomonte, si voleva raggiungere la baita No Tav in Val Clarea. Vicino al varco 4 hanno lanciato alcuni lacrimogeni che provocavano un fumo denso, che impediva di respirare e vedere bene. Così ho cercato di allontanarmi e salire lungo un sentiero impervio: è così che sono stata trattenuta da un rappresentante delle forze dell’ordine, senza opporre resistenza.
Insieme ad un’altra giovane donna sono stata in carcere 14 giorni, poi ho ottenuto i domiciliari fino al termine del processo, non nel mio comune di residenza (Chiomonte), ma a Villardora dove poco prima dell’arresto avevo preso un piccolo appartamento in affitto, però sono stata allontanata da Chiomonte  per oltre dieci mesi e questo mi ha tenuta lontana dai miei figli, che invece hanno continuato a vivere in Valle.
Il processo seguito dalla procura torinese e dallo stesso Caselli ha avuto per me esito positivo, quindi la completa assoluzione, mentre per la mia compagna di cella c’è stata una lieve condanna.
E’ stato per me richiesto il ricorso in appello e quindi siamo in attesa di rientrare in aula. E questo è solo un processo: ad oggi i No Tav indagati sono più di 1000!»

Al tempo del processo – ricordiamo che sei stata pienamente assolta, la tua gente, le gente della Valle, si è mossa mostrandoti costante attenzione e partecipazione, ha anche sfilato in una fiaccolata di solidarietà; per te si era mosso in favore anche il climatologo Mercalli il 18 settembre 2011 a “Che tempo che fa”, suscitando un vespaio di polemiche. Aveva anche detto in un’intervista: «Questa vicenda delle due ragazze in carcere, una madre di tre figli, ricorda “Fuga di mezzanotte”. Nessun giornale ne parla. Perché questo silenzio tombale?»
Dopo la sentenza hai ripreso la tua vita normale. Come continua il tuo impegno No Tav?

«Mentre ero in carcere e per tutto il periodo processuale sono stata supportata e confortata, oltre che dai miei famigliari, da una grande rete internazionale di solidarietà, che nasceva dalla mia Valle e come un polipo entrava dentro le sbarre di una squallida prigione. Mai e poi mai nella mia vita mi sono sentita così protetta e accolta: tante, tante persone da ovunque hanno espresso la loro solidarietà a me  e Marianna. Ho imparato molto da questa esperienza ed il mio impegno non ha fatto altro che accrescere le mie convinzioni nella lotta No Tav. Ho cominciato a partecipare, dopo i domiciliari, appena ho potuto riavere la mia vita,  a tavoli e assemblee su svariati temi, come repressione, ingiustizia, malagiustizia; il mio nome di “battaglia” è ancora Nina».

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