ARTICOLO “RICETTE IMMORTALI”

La ricetta che ho usato per produrre in modo casalingo gli “ossi dei morti” è un’antica ricetta piemontese. Il nome dei biscotti senza farina e con molte mandorle e nocciole ha un nome bruttissimo, talvolta addolcito in una definizione meno funebre di “ossi da mordere”, ma tant’è: la preparazione si addice ai climi autunnali e al cadere della rituale ricorrenza dei Morti. Le ricette provengono non solo da tutta Italia ma probabilmente da ogni parte del mondo, dove si svolgono, seppure con toni e modalità diverse, i rituali per onorare i defunti, per operare una riflessione sulla continuità della vita dopo la morte, e per ricordare chi è scomparso dalla scena di questo mondo. Temo che siano oggi rimasti in pochi a dedicare vere e proprie preghiere, almeno secondo le modalità offerte dai riti cristiani, tuttavia perdurano nelle usanze le visite cimiteriali, le offerte di fiori e… perché no, l’offerta silenziosa e personalizzata di dolciumi, fra tradizioni e qualche tocco di modernità, che tuttavia proviene da altre culture, le cui modalità si sono aggiunte alle nostre, spesso prevaricandole: in tal senso penso, ad esempio alla festa di Hallowen, derivata dalla cultura celtica, ma  oggi si iniziano a propagare anche tradizioni meso-americane (Dia de Los Muertos) con musiche e celebrazioni chiassose e festaiole, prive di toni luttuosi e nostalgici.

Nel nostro mondo occidentale europeo si è sempre festeggiata la fine del periodo estivo (e pre autunnale) che era stato fertile e produttivo; dopo aver raccolto, catalogato  e disposto i beni ricevuti dalla natura estiva ci si preparava per un periodo decisamente autunnale, quando la natura iniziava a riposare nella quiete, prima di porsi nella condizione apparente di morte dell’inverno. Questo era il momento in cui ci si poneva in condizioni di ringraziamento per i doni ricevuti dalla natura e ci si disponeva ad affrontare il periodo più duro dell’anno, fino a quando non ci sarebbe stata nella primavera una rinascita apparente della natura.  In questa fase dell’anno, fine ottobre e parte di novembre, sotto il segno astrologico dello Scorpione,  ci si disponeva ad affrontare il lungo momento invernale, in cui la natura avrebbe lavorato solo sottoterra, ma in maniera invisibile.  Ci si disponeva a lasciare la fase più luminosa e calda del ciclo che era appena terminato, e ad accettare, per meglio dire ad accogliere, la fase meno amabile che si apprestava a dominare l’inverno, fase  del lavorio della natura nel buio e nell’oscurità del sottoterra. È sempre stato il momento di raccoglimento, in cui riflettere sul sottile velo che divide la luce dal buio, fra ciò che è più denso e materiale e ciò che è incorporeo, fra mondo manifesto e mondo spirituale, fra esteriorità e interiorità, fra visibile e invisibile, fra la fase di creazione apparente e la fase (non apparente) della vita, vale a dire  quella che noi umani definiamo “morte”.

In tutte le culture la festa dei Morti è collocata nel cambio stagionale ed è un momento importante  in cui ci si relaziona con il passato, con la memoria e con le tradizioni, persino quelle della cucina e dei dolci: perché no?

Se la festa non è in Occidente  palesemente relazionata con l’idea di reincarnazione (perché la religione cristiana ha sempre glissato questo concetto – tranne il cristianesimo delle origini), è però accompagnata almeno nel folkclore dalla sottile idea che la morte non sia altro che una parte di un ciclo, che la persona scomparsa possa in qualche modo, ritornare: le anime possono ritornare invitate dalle luci, dai pensieri, dalle preghiere, e persino dalle dolcezze che i vivi lasciano per loro sulle tavole imbandite; è vivo il senso della continuità, e il mondo dei vivi e dei morti possono in questa fase dell’anno avvicinarsi, la morte fisica può essere concepita come parte di un processo più ampio di trasformazione e rinascita.

La ricorrenza tocca non solo marginalmente il Grande Tema, quello più grande di tutti: il tema della Morte. Oggi non se ne parla mai; non so se altri abbiano notato, insieme a me, che si riesce a parlare a ed agire in ricorrenza del 2 novembre senza mai nominare la parola “Morte”. Così riusciamo ad andare ai cimiteri, mettiamo i fiori e i lumini, prepariamo i dolci… senza mai formulare un pensiero attorno al grande tema. Anche il linguaggio è impreparato di fronte all’evento supremo, sguarnito di parole come è sguarnito il processo di comprensione che potrebbe essere fornito sia dai simboli sia dai riti necessari per comunicare paure, emozioni, disagio, senso della solitudine.

Se è difficile elaborare un lutto è ancora più difficile parlare della morte: lei è oggi il grande tabù, è il tema “sconveniente” da evitare in pubblico ma anche in privato. Sembra essere accettabile solo al cinema, nelle fiction dove le storie umane assumono l’aspetto del grandioso, dell’eccezionale, del “meraviglioso”. Quanto alle piccole vite individuali di tutti noi, nessuno sembra attendere salvezza ultraterrena, ma tutti cercano minuziosamente e tenacemente, fino all’ultimo, salvezza terrena, salvezza del corpo. In questo contesto la medicina può, apparentemente, tutto: è la grande dea secolare, che scientificamente promette di avvicinarci all’eternità. Peccato non possa offrirci il senso della morte, che pure le religioni promettevano di trasmettere (e in parte riuscivano a farlo). Così la maggior parte delle persone delega  la propria morte ai medici e alle medicine, sembra a tutti i costi voler continuare a essere impreparato per lapropria morterimettendone in qualche modo la responsabilità ad altri. E intanto: zitti, guai a nominare l’Innominabile.

Meglio pensare alle ricette. Ingredienti: 4 albumi… 3 etti di….

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DEFINISCI BAMBINO

Da  circa un mese sta girando, con la forza dei meme, una frase che sottende significati orrendi: «Definisci bambino». È una vera schifezza, per di più una stupideria colossale. A pronunciarla è stato un signore che solo a guardarlo produce in me e in molti altri una potente energia di respingimento e rifiuto: non vi dico poi ad ascoltarlo. 

A pronunciare la frase  è stato il presidente Eyal Mizrahi dell’Associazione Amici di Israele durante un talk-show televisivo (Cartabianca), come risposta alla domanda postagli, se le migliaia di bambini uccisi a Gaza fossero da considerarsi terroristi.  Non ha risposto alla domanda di Iacchetti, ma ha prontamente dribblato con una nuova richiesta: appunto il famigerato “Definisci bambino”. Ottima tecnica che non solo  evita di dare una risposta chiara  ma permette anche di cercare di mettersi in posizione di superiorità, bloccando di fatto una serena comunicazione:  ma pur sempre una tecnica da venditore da strapazzo per interlocutori ingenui. In questo caso però ha ottenuto un effetto inaspettato, non solo nell’interlocutore  occasionale che se Dio vuole ha giustamente perso le staffe, ma nel mondo degli ascoltatori che non ne possono più di tentativi di manipolazione, per di più così grossolani.

Naturalmente la richiesta posta da questo signore, campione di umanità, non era una richiesta di definizione di tipo scientifico o pedagogico, ma era un modo per insinuare che i diritti che di solito l’umanità offre alla categoria dei bambini non fosse applicabile ai bambini di Gaza e di Cisgiordania: sottoprodotti umani indegni di essere catalogati come bambini, quindi come innocenti. 

A ridirla, questa frase, spesso sogghignando con una smorfia di profonda nausea sono tutti gli altri, tutti quelli che, come me,  la ripetono per affermare e riaffermare la sconcezza di ciò che sono stati costretti a sentire, forse per esorcizzarne la mostruosità. Certo, siamo ormai abituati a vedere le immagini relative  alle azioni sanguinarie che Israele mette in atto verso la popolazione civile palestinese,  in primis i bambini, siamo abituati ormai anche alle litanie che questo paese pronuncia atteggiandosi a vittima anziché a carnefice, (del tipo “a Gaza non esistono innocenti, solo nemici”), ma di fronte alla macroscopica porcheria di una simile frase, l’atto di ripeterla funziona come uno scuotimento per scrollarsi di dosso il putridume.

Ci si vuole scuotere di dosso la disumanità di questa frase, con la quale i sionisti tentano di farci credere che a Gaza non ci sono bambini, ma solo colpevoli, quelli che muoiono nei punti di raccolta dove sono stati messi, mentre tendono le mani per un po’ d’acqua non sono bambini, sono nemici di Israele degni di essere uccisi come fossero soldati dell’esercito avverso, sono attori politici che hanno deliberatamente scelto di vivere in guerra, anzi di fare la guerra.

Molti pedagogisti sono d’accordo nell’affermare che un bambino non è semplicemente un essere umano al di sotto di una certa età, ma  un «embrione spirituale», come dice in modo esemplare Maria Montessori, nel quale lo sviluppo delle funzioni mentali superiori si associa allo sviluppo biologico: con ciò si vuole mettere in evidenza che, pur essendo presenti in lui chiare  personali potenzialità (Montessori le chiamava “nebule”), queste sono in grado di svilupparsi solo in rapporto all’ambiente –   in ambiente idoneo a contribuire alla costruzione di un essere umano con funzioni mentali superiori. 

Montessori, per spiegare il concetto, faceva  riferimento alla parabola dei talenti, al comportamento del servo che nasconde sotto terra il talento ricevuto; dice: «Non si può limitare l’azione nel campo educativo alla pura conservazione di quello che esiste: si agirebbe male allo stesso modo del servo che non si è curato di far fruttare il talento che aveva ricevuto».  È chiaro che la responsabilità di consentire e stimolare il bambino nel mettere a frutto i propri talenti è addossata alle persone, tutte le persone, che formano l’ambiente educativo, a partire dai genitori e dagli insegnanti, ed è attribuita altresì agli eventi e agli accadimenti circostanti. Secondo il personaggio in questione, mi domando, i bambini di Gaza, presi in ostaggio, traumatizzati, privati della scuola, orfani, feriti, privati di acqua e di cibo, torturati, deliberatamente sottoposti a genocidio,  ricevono dall’ambiente il nutrimento per poter far fiorire i loro talenti?  È vero, forse ha ragione lui: come  possiamo definirli bambini?Malgrado il documento qualificato come “Conference room paper” che la Commissione Onu sui territori occupati e Israele ha presentato il 16 settembre 2025 al termine della sua sedicesima sessione, con il quale ha definitivamente concluso che le condotte poste in essere dal Paese occupante (Israele) possono essere qualificate come «genocidio» ai sensi della Convenzione internazionale, i difensori che si autoqualificano come amici di Israele continuano a negare che ciò sia vero.La Convenzione per la prevenzione e la repressione  del crimine di genocidio, adottata il 9 febbraio 1948 dall’ONU e entrata in vigore il 12 gennaio 1951 diceva sostanzialmente, all’articolo II:«Per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: a. Uccisione di membri del gruppo; b. Lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c. Sottoposizione deliberata del gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d. Misure miranti ad impedire nascite all’interno del gruppo; e. Trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro». Eppure, malgrado il documento attuale dell’ONU, basato sui principi espressi nel ’48, che definisce senza possibilità di dubbio la condizione attuale cui è sottoposto il popolo palestinese come genocidio, chi ne parla apertamente viene ancora tacciato di ostilità preconcetta, di antisemitismo, di parteggiamento per i nemici palestinesi : non sono i soldati israeliani a compiere crimini di guerra e crimini contro l’umanità, essi non sono che vittime, non criminali. Il mondo mediatico, formato dai mainstream, tace, ha taciuto finché ha potuto, e ora rivela solo ciò che ormai non è più occultabile. I governi occidentali hanno tutti fortissimi legami economici e culturali con il Paese in questione, legami di Intelligence, condivisione di apparati tecnologici e di sicurezza, relazioni militari, scambi  e compravendite di armi. Ma tutto questo non impedisce a noi tutti di cercare di comprendere e nemmeno quello di percepire e sentire, aguzzando mente e sentimenti: quei sentimenti che impediscono ormai a certuni di condividere l’appartenenza alla specie umana.Una nuova preoccupazione si affaccia nelle attuali circostanze: è stato presentato un disegno di legge (numero 1627) ad agosto dal senatore  Maurizio Gasparri. Riguarda corsi di formazione che andranno programmati (nel caso il disegno venga approvato) per il personale dei Ministeri della Difesa,  della Giustizia, dell’Interno e (badate bene!) dell’Istruzione e dell’Università. Tali corsi di formazione saranno atti a promuovere la cultura ebraica e israeliana e verteranno sulla storia dell’antisemitismo ,  «incluso», dice il testo – E QUI DOBBIAMO FARE BENE ATTENZIONE!- «l’antisionismo»: dunque il dibattere, il criticare, il portare idee circa le politiche dello Stato di Israele potrebbe divenire  in futuro  un reato equivalente all’odio razziale.

Non solo tutto questo mi sembra potentemente un’imposizione fascista, ma anche una potente ingerenza con la libertà di insegnamento che viene garantita dalla nostra Costituzione (articolo 33).

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LA FLOTTIGLIA SULLE SPALLE DEI CAMALLI

Sumud, ci spiega lo storico Alessandro Barbero, è una parola araba che indica la forza di resistere, di “tener duro”, e “Global Sumud Flotilla” è il nome della coalizione e dell’iniziativa umanitaria e non violenta in favore di Gaza. Vi aderiscono volontari e associazioni di 44 paesi il cui scopo è rompere il blocco israeliano sulla Striscia, che ha impedito finora l’arrivo di aiuti umanitari via mare; dichiarano: «Siamo una coalizione di persone comuni, organizzatori, operatori umanitari, medici, artisti, sacerdoti, avvocati e marinai che credono nella dignità umana e nel potere dell’azione non violenta» E ancora: «Anche se apparteniamo e abbiamo diverse nazioni, fedi e convinzioni politiche, siamo uniti da un’unica verità: l’assedio e il genocidio devono finire».

Israele ha già minacciato in modo esplicito e diretto i partecipanti alla spedizione e, secondo le dichiarazioni del ministro della difesa israeliano Itamar Ben Gvir gli attivisti a bordo della flottiglia saranno arrestati e trattati come terroristi. Contemporaneamente Israele ha operato una decisa critica nei confronti di quei paesi europei che vogliono riconoscere lo Stato della Palestina: «Gli ipocriti paesi europei che cedono alle manipolazioni di Hamas finiranno per imparare a proprie spese cos’è il terrorismo», ha minacciato.

La flottiglia sta ora navigando verso le coste di Gaza, malgrado un ritardo sulla tabella di marcia iniziale dovuto al grave maltempo; infatti, a causa delle condizioni metereologiche, una trentina di navi con oltre 300 attivisti che erano salpati la notte del 31 agosto da Barcellona, erano dovute rientrare nel porto di partenza, da lì sono ripartiti la sera stessa; il maltempo e le condizioni del mare hanno causato dei danni dapprima a cinque piccole imbarcazioni, le altre 24 imbarcazioni hanno proseguito ma sette di esse hanno dovuto sostenere delle riparazioni, in seguito è stato fissato l’appuntamento con altre imbarcazioni previsto per il 7 settembre quando si si sono congiunti i naviganti salpati da Genova, dalla Sicilia e dalla Grecia per veleggiare verso Gaza. Anche Emergency partecipa alla missione con la sua nave.

Abbiamo ascoltato parecchie critiche nei confronti di questa iniziativa, anche da parte di coloro che diversamente manifestano il proprio appoggio e il proprio consenso verso i Palestinesi, nel timore che si trasformi in una sorta di scampagnata di ministri e ministrelli animati dal reale scopo di autopubblicizzarsi senza rischiare nulla. Tuttavia è bene sottolineare che i partecipanti a questa iniziativa agiscono mettendo davvero a rischio la propria vita. Non sarebbe la prima volta che la difesa israeliana abbia ucciso un equipaggio disarmato che tentava di portare aiuti a Gaza: è accaduto anche nel 2023. L’iniziativa è un’iniziativa concreta e pertanto io credo vada sostenuta, non solo sul piano della partecipazione morale. 

In precedenza hanno tentato di operare in favore della Palestina altre flottiglie: La Freedom Flotilla fu nel 2011 organizzata da una coalizione internazionale per rompere il blocco israeliano su Gaza e fornire aiuti umanitari. Sebbene aderissero più di trecento partecipanti da tutto il mondo e fosse pronta a salpare su dieci imbarcazioni, la pressione politica e diplomatica di Israele riuscì a impedire la partenza. Arrivò solo una nave francese, la marina israeliana intercettò la nave, e la trainarono in porto israeliano: gli attivisti furono arrestati ed espulsi.

Nel 2015 ci fu il terzo tentativo di rompere il blocco navale israeliano, con la Freedom Fotilla III. Organizzata dalla Ffc, la missione includeva diverse imbarcazioni, con la nave “Marianne” in testa, battente bandiera svedese, a capo dell’operazione. 

Il 29 giugno 2015, le forze navali israeliane intercettarono la Marianne a circa cento miglia nautiche dalla costa di Gaza, in acque internazionali. Un commando israeliano salì a bordo della nave e di nuovo la dirottò verso il porto israeliano di Ashdod.

La missione odierna è dotata di un sistema di monitoraggio sviluppato da Forensic Architecture che trasmette in maniera continua la posizione della flotta, su ogni barca c’è un dispositivo GPS; intanto viene documentata ogni fase della navigazione: chiunque, collegandosi ai canali appositi, può seguire il percorso della flottiglia in completa trasparenza. 

È già stato denunciato l’attacco di un drone israeliano, la nave colpita  è la “Family Boat” o “Familia Madeira, la principale imbarcazione della spedizione, un natante di 35 metri battente bandiera portoghese, che trasportava i membri del comitato direttivo della Gsf (a bordo anche Greta Thunberg): un incendio ha danneggiato il ponte principale e le stive sottocoperta.

Una promessa fortissima è stata pronunciata dai camalli di Genova, tramite il loro portavoce Riccardo Rudino. Eccola: «Se noi, per soli 20 minuti, perdiamo il contatto con le nostre barche e con i nostri compagni, blocchiamo tutta l’Europa… da questa regione, da dove escono 13000, 14000 container ogni anno per Israele, non esce più un chiodo, è sciopero internazionale. Bloccheremo le strade, le scuole, bloccheremo tutto». Così ha promesso di fronte a una platea di 40000 persone domenica 31 agosto.

I camalli, così si chiamano da sette secoli, e il loro nome in dialetto genovese resiste come resiste il loro mestiere e tutta la mitologia a loro connessa: sono gli scaricatori del porto di Genova. Certo oggi le modalità di lavoro sono molto cambiate, lo scarico delle merci si è industrializzato. I camalli non portano più sulle loro spalle ogni peso. Ma sono ancora in grado di assumersi il peso della riuscita o della sconfitta di questa grande manifestazione di pace. È gente abituata ad agire, non a blaterare. Anche a loro va tutta l’ ammirazione.

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ALLORA SI CHIAMAVA MAGNETOFONO

Allora si chiamava magnetofono, al tempo dei non-cellulari, quando Oriana Fallaci faceva le sue «interviste del potere» con un taglio del tutto personale. Raccolte poi in un libro intitolato “Interviste con la storia”, edito da Rizzoli nel marzo del 1974, erano state realizzate per la rivista per la quale la Fallaci lavorava, l’Europeo. 

grandi  di quel tempo non solo accettavano di essere intervistati da lei, ma le correvano dietro per farsi intervistare: lo dichiara lei stessa e non sono fandonie. A distanza di 50 anni — 51 per la precisione — rileggere questo volume è davvero come fare un tuffo nella storia, dove memorie personali della mia generazione si mescolano alla Storia con l’iniziale maiuscola. Sono 18 i personaggi politici della storia degli anni ’70 che si presentano alla ribalta, e la Fallaci ad uno ad uno li riduce come il re nudo, spogliati di ogni velo, analizzati con lo spirito selezionatore della tremenda giornalista, che arriva e scoprire il nocciolo dell’animo di ciascuno, talvolta senza pietà, altre volte con simpatia palese. Tutti vengono spinti, con accondiscendenza da parte loro o contro ogni loro desiderio, a parlare di sé, a rivelare, di volta in volta, alterigia, rabbia, crudeltà, infantilismo… ma anche dolcezza e sincerità.

In realtà la Fallaci ci ha lasciato dei meravigliosi ritratti di personaggi che tutt’oggi vengono ricordati come importantissimi,  e di altri, che pur essendo stati importantissimi, oggi restano alla memoria di pochi.

C’è una preponderanza nel libro di figure legate alla politica internazionale dell’epoca, che, proprio come oggi,  rivestivano ruoli di primo piano nelle aggressioni verso altri paesi: gli Stati Uniti erano allora aggressori nei confronti del Vietnam. Esattamente come oggi, i personaggi erano protagonisti di tentativi di costruzione di processi di pace: alcune condizioni sembrano preannunciare, cinquanta anni prima, alcune dinamiche e alcune relazioni fortemente assomiglianti a quelle odierne. La Fallaci è coraggiosa, per esempio quando provoca con audacia Henry Kissinger, dicendogli senza mezze misure, a proposito della guerra contro il Vietnam , che quella americana alla fine è stata un atto di resa ad Hanoi, e che «l’intervento americano è stato una guerra inutile».

Quando intervista a Saigon Nguyen Van Thieu, allora Presidente del Sud Vietnam, (dal ’65 AL ‘75), conosciuto come cupo dittatore (ma oggi chi se lo ricorda?) lui la riceve giovialmente per una prima colazione alle 8 del mattino a base di zuppa di pesce e si infila il tovagliolo al collo come un bambino per ripararsi dalle macchie, poi le elenca tutte le cose che gli piace fare, e ammette candidamente che non legge mai. Lei conduce l’intervista con massima serietà, finché gli rivolge una domanda brutale: «Come commenta il fatto di essere chiamato “fantoccio americano”?». Non basta, seguita con la domanda: «Cosa risponde a chi dice che lei è molto corrotto, l’uomo più corrotto del Vietnam?»

Al tempo della guerra del Vietnam il generale Giap era ministro della difesa ad Hanoi, comandante in capo delle forze armate.  Aveva in precedenza comandato le forze Viet Minh che liberarono il Vietnam dal dominio coloniale francese nella guerra di Indocina, ottenendo una strepitosa vittoria  nella battaglia di Dien Ben Phu; combatté poi con successo le forze americane e sud-vietnamite nella guerra del Vietnam.

L’autrice racconta che gli americani a quel tempo dicessero ai loro bambini disubbidienti: «fai il bravo altrimenti arriva Giap», come noi dicevamo «arriva l’uomo nero». La Fallaci intervista nel ‘69 il generale che, contrariamente all’immaginario comune applicato ai militari, non ha la stazza di un marcantonio, ma raggiunge a malapena un metro e 54 centimetri. Durante l’intervista, tuttavia, si sente ergere la forza della persona a mano a mano che domande e risposte si susseguono; verso la fine lei chiede: «Quanto durerà ancora la guerra?». «Quanto sarà necessario, dieci, quindici, venti, cinquanta anni, finché non avremo raggiunto la vittoria totale».

La giornalista palesa in modo evidente la sua scarsa simpatia per Yassir Arafat, cui lei si rivolge con l’appellativo di Abu Ammar (padre costruttore), vale a dire padre costruttore della. Resistenza palestinese. Mi sento tuttavia di affermare che, malgrado la scarsa disponibilità della giornalista nei suoi confronti, Arafat ne esce come una delle figure più pulite e leali di tutto il libro.

 Dal 1996 ricoprì la carica di Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese fino alla sua morte; fu capo di Al Fatah, organizzazione confluita poi nell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina). Fu ucciso per avvelenamento a Parigi: nel suo corpo furono trovati livelli di polonio radioattivo 18 volte superiori alla norma.

 Di Israele lui dice: «Israele è casa mia». «Lei chiede quanto a lungo potremo resistere: la domanda è sbagliata», replica lui «lei deve chiedere quanto potranno resistere gli israeliani. Giacché non ci fermeremo mai fino a quando saremo tornati a casa nostra». E continua  «La Palestina è un piccolo punto nel grande oceano arabo. La nostra nazione è quella araba, va dall’Atlantico al mar Rosso e oltre. Vogliamo liberare la nostra terra e ricostruire lo stato democratico palestinese». E ancora: «Quella che lei chiama Cisgiordania è Palestina». A un certo punto Fallaci afferma: «Lei non può chiederci di essere contro gli ebrei. Li abbiamo visti perseguitati. Non vogliamo che ciò si ripeta».

«Già», risponde Arafat « voi dovete pagare i conti con loro». E precisa: «Noi non ce l’abbiamo con gli ebrei, ma con gli israeliani».

A cinquanta anni di distanza le parole di Arafat, alla luce degli obbrobriosi fatti odierni compiuti dagli israeliani contro i palestinesi, spingono a riflettere.

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STORDITI DALLA NEOLINGUA

l genocidio (programmato) del popolo palestinese ha programmaticamente avuto inizio dopo la programmata data del 7 ottobre. Ora ciò che è stato deciso dal Gabinetto di Sicurezza del governo israeliano  non stupisce, giacché si pone come naturale punto sulla linea di continuità di quella politica indicata senza vergogna fin dal principio  dal ministro della difesa Gallant  in quel periodo: preannunciava che, trattandosi i palestinesi di null’altro se non «animali umani» erano indegni di ricevere cibo, acqua o qualunque forma di pietà. Gallant nel frattempo si è dimesso dopo alcuni scontri con Netanyahu: Gallant sosteneva gli sforzi diplomatici per liberare gli ostaggi israeliani, mentre Netanyahu insisteva nel mantenere la pressione militare contro Hamas: praticamente per lui Netanyahu lui era un tipo troppo tenero.  Ora siamo al punto in cui il governo israeliano sta costruendo i lager: per carità, Netanyahu li chiama «punti di raccolta della popolazione palestinese», ma di fatto si tratta di lager.  Anzi, la definizione migliore nella neolingua di stampo orwelliano è quella di «città umanitaria»: sarà collocata all’interno della striscia di Gaza, dove saranno «concentrati» seicentomila  palestinesi: nel migliore dei casi, insomma, un ghetto, ma più realisticamente si tratterà di un campo di concentramento.

I media mainstream naturalmente tacciono, mentre la gente comune è profondamente disorientata, oserei dire stordita, come quando si prende una botta troppo forte sulla testa e ci si chiede: «ma io sono ancora in grado di pensare?». E lo stordimento lascia attoniti, incapaci realmente di reazione e di azione. Questo è almeno quello che è successo a me quando, all’inizio del mese in corso, ho sentito le dichiarazioni  del  rabbino Ronen Shaulov, molto conosciuto e popolare a Tel Aviv, che ha dichiarato pubblicamente: «ogni bambino nella Striscia di Gaza dovrebbe morire di fame: solo uno sciocco può provare empatia per loro». 

Sentirmi stordita è  ciò che mi succede ogni volta che sento parlare questi delinquenti distruttori dell’umanità.  Capita anche a voi?

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UMANITÀ DI PLASTICA

Se avremo una generazione per così dire di plastica, peggiore di quella attuale, sapremo il perché.

L’Agenzia ANSA ha comunicato all’inizio del luglio in corso che sono state trovate tracce consistenti di microplastiche nei fluidi riproduttivi umani.

Già sapevamo che nel cervello, come nel fegato e nei reni, le microplastiche albergano in elevate concentrazioni, ma ora siamo venuti a conoscenza che anche nei fluidi riproduttivi si sono assestate con successo.

Next Fertility Murcia (clinica spagnola per la fertilità), ha guidato una  ricerca, analizzando campioni provenienti da 29 donne e 22 uomini, rinvenendo, come risultato, frammenti di svariate  microplastiche, nel 69% delle donne e nel 55% degli uomini. 

Fra le microplastiche la più abbondante è il politetrafluoroetilene (Ptfe), meglio conosciuto come Teflon, che abitualmente riveste le pentole antiaderenti; numerose anche le presenze di Pet, con cui si fanno le bottiglie di plastica, in compagnia di polistirolo, nylon, polipropilene e poliuretano.

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Human Reproduction ed è stato presentato al quarantunesimo incontro delle Società Europea di riproduzione ed embriologia umana (ESHRE), che si tiene annualmente a Parigi.

Nella relazione finale si ribadisce la pericolosità della presenza delle microplastiche che indicano «infiammazione, formazione di radicali liberi, danni al DNA, senescenza cellulare». Si pensa che le microplastiche oggetto di studio possano seriamente compromettere la qualità degli ovuli  femminili e degli spermatozoi.

Se una coppia di umani, malgrado le condizioni avverse, dovesse combinare una bella frittata, rispondendo volenterosamente alle esigenze della natura, non si affannino: il loro prodotto sarà autonomamente dotato di qualità antiaderenti.

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UNA DATA IMPORTANTE PER GLI ANIMALI

Il primo giorno del luglio in corso è stata una data importante per gli animali, almeno quelli italiani: è entrata in vigore la legge Brambilla, vale a dire la riforma del Titolo IX bis del codice penale che porta il nome di Michela Vittoria Brambilla, da sempre attentissima ai diritti degli animali, che ha tenacemente voluto siano considerati esseri senzienti.

La legge è stata approvata il 29 maggio e promulgata il 6 giugno 2025. Introduce modifiche sostanziali del codice di Procedura Penale in materia di reato contro gli animali. Il soggetto animale, non solo quello domestico e di affezione, viene considerato soggetto giuridico. La legge è attesa da molti anni, inasprisce le pene  per chi, anziché tutelare gli animali, commette reati contro di loro. Ma è il ribaltamento della prospettiva uomo/animale a costituire la grande novità: da una visione antropocentrica si passa ad un’altra, in cui è l’animale ad essere posto al centro del paradigma .

Ora chi ucciderà un animale potrà essere condannato a una pena carceraria che potrà raggiungere i quattro anni e potrà essere multato dino a 60.000 euro. Correrà il rischio di essere incarcerato fino a due anni, aumentabili, se presenti aggravanti, in caso di maltrattamenti. Si potranno rischiare fino a due anni e a 30.000 euro di multa se semplicemente si partecipa come spettatori a combattimenti e gare fra animali, ma se in  situazioni del genere si assume il ruolo di organizzatori, allora la pena si può inasprire: fino a 4 anni e 160.000 euro di sanzione. Se si aggiunge la violenza allora la pena aumenta notevolmente. Sono vietate le pellicce di gatti domestici. È vietato tenere cani alla catena.

Se leggiamo le tremende notizie riguardanti le atrocità perpetrate in questi giorni di calura nei confronti degli animali, ci rediamo conto che non stiamo parlando di fanfaluche: cani presi a fucilate da vinci di casa, gatti gettati nei pozzi e nelle cisterne, animali domestici di ogni tipo torturati e sottoposti a vessazioni di ogni genere, gettati da auto in corsa, da balconi del quarto piano, affogati, bruciati vivi… Forse di questa legge c’era un gran bisogno.

Tuttavia la legge non tocca la questione della sperimentazione animale: nel nostro paese gli animali vengono ancora utilizzati negli  istituti di ricerca e nei laboratori universitari.

Non affronta nemmeno i grandi problemi delle sofferenze che gli animali (pollame, suini, bovini, pesco, aracnidi di mare) subiscono negli allevamenti intensivi, dove gli animali sono sottoposti a forme diverse di atroci sofferenze, allevati in condizioni di estrema cattività, in condizioni di sovraffollamento, in spazi ristretti, stipati e sfruttati all’unico scopo di produrre cibo per l’uomo, sottoposti ad aggressioni batteriche (combattute con palate di antibiotici), sottoposti a stress inimmaginabili, selezionati geneticamente a vantaggio dell’alimentazione umana, mutilati senza anestesia, uccisi per sgozzamento, stordimento, immersione in acqua bollente con corrente elettrica…

Che cosa potrà fare la legge per loro? Se si volesse si potrebbe applicare la legge anche nei confronti dell’aberrazione degli allevamenti intensivi, contro gli interessi economici delle grandi industrie che ne detengono il possesso. Certo ciò risulterà molto più difficile dell’applicazione della legge nei confronti di singoli individui o piccoli gruppi. Si vorrà?

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RAP, CHE PASSIONE!

Mi sono sempre chiesta che cosa avrebbero potuto dire del rap, forma musicale squisitamente contemporanea, i grandi musicisti del passato. Musicalmente vuoto e assai povero di sostanza tecnica musicale il rap credo dovrebbe apparire loro come un esercizio di monotona ripetizione di parole e di ritmi, aventi caratteristiche quasi infantili; senza parlare della scarsa innovazione e profondità che le sue parole esprimono. Anche le facili rime sono degne di bambini di scuola elementare, così ripetitive e stantie da produrre un senso di banalità generalizzato.  Immagino che molto più di me potrebbe annoiare i geni della musica classica. Non è certo questa una forma di elevazione dell’arte musicale, ritengo invece che sia una forma di impoverimento che offre un chiaro esempio di come le forme artistiche possano essere sottoposte a processi involutivi spaventosi.

Che ne è della melodia? Che ne è dell’armonia? Quattro accordi in croce (ma forse il numero è esagerato) ripetuti ossessivamente, privi di progressioni armoniche, si accompagnano ad altrettanta povertà dei testi. Non dovrebbe la musica elevare elevare l’anima, suscitando emozioni profonde?

Ascoltare il rap: una sofferenza, una vera passione.

Nato a partire dagli anni ’70 del Novecento nei quartieri neri di New York, caratterizzato da canzoni con un ritmo molto pronunciato, derivato dal funk, si è in questi cinquant’anni diffuso in tutto l’occidente, condizionando pesantemente il gusto e la cultura americana prima, e europea poi.

Che cosa l’abbia reso vincente è difficile a dirsi, ma forse la ragione va cercata proprio nella sua semplicità, direi elementarità: non occorre una bella voce per cantare facendo rapping, non occorre nemmeno conoscere i fondamenti della musica, basta aver voglia di buttarsi nella creazione di una sorta di litania, appioppando alle parole una larvata voglia di protesta, meglio se ricca di stereotipi, così da non costringere nessuno a pensare.

So che molti non condivideranno la mia opinione e qualcuno non si esimerà dal pensare che le mie parole possano contenere un larvato significato razzista. Non è così. Ho sempre apprezzato le forme musicali popolari, e proprio per questo penso che non vadano definitivamente perdute le memorie di antiche forme di canto popolare squisitamente italiano, in cui eccellevano (anche) i creatori di forme d’improvvisazione. Ciò accadeva originariamente, per esempio, nelle forme di canti a contrasto; per esempio quelli in cui uomini e donne dibattevano con il canto sulla visione dell’amore, in chiave ironica; oppure si opponevano l’un l’altra le visioni sulla vita di madre e figlio, ricco e povero, padrone e mezzadro, e così via. Poi anche queste forme si cristallizzarono in strutture che ci sono giunte dalla tradizione con parole e musica, spesso in forma di strambotto.

Qualcuno obietterà che originariamente anche le forme musicali rap si configuravano come improvvisazioni. Verissimo. Negli anni degli inizi molti rapper iniziarono così la loro carriera: impararono prima a padroneggiare l’improvvisazione (freestyle, nel gergo rap) e poi  cristallizzarono le loro creazioni in canzoni. In quel tempo i rapper si trovavano (soprattutto a New York) in luoghi convenuti, come i parchi, per ascoltare e rappare insieme ad altri. Si svolgevano vere e proprie sfide, (le battle) e il vincitore della battle veniva proclamato tale con gli applausi dei presenti.

Oggi esistono in Italia delle manifestazioni organizzate cui i rapper possono partecipare e contendere l’un altro, ma in realtà non si tratta più di improvvisazione pura, perché i temi o il flusso ritmico vengono preordinati.

La contesa non faceva parte di un’altra forma musicale, come il rap nata  negli Stati Uniti, in seno alla comunità dei neri, dove all’inizio del Novecento era concentrata, soprattutto nel Sud, una vasta popolazione di ex schiavi, da poco affrancati dalla schiavitù: il jazz. Ma nel jazz la raffinatezza musicale viene continuamente ricercata e si evolve, si evolve, si evolve, fino a raggiungere (probabilmente) il suo apice: la musica negro-americana, attraverso il jazz, ha conseguito ambizioni altissime, donando al mondo le sue caratteristiche e assorbendo in sé elementi musicali da tutto il mondo.

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CARBURANTE PER LA DEMOCRAZIA (II PARTE)

Nell’articolo precedente abbiamo invocato un po’ di carburante per la democrazia, intravedendo una crisi diffusa di questa forma di governo.

Credo che quasi tutti noi contemporanei, cittadini di paesi occidentali, siamo ben lieti di vivere in paesi a forma di governo democratico. È una soddisfazione che abbiamo acquisito fin dalla nostra infanzia, apprendendola in modo quasi automatico, e su cui abbiamo posto un fondamento per la nostra soddisfazione di esistenza nel mondo, dopotutto con scarsi dubbi. 

Già a scuola e fin da subito in famiglia ci hanno insegnato quanto siamo fortunati a vivere in regime democratico, e quanto fossero inferiori i regimi precedenti: monarchia o aristocrazia. Divenendo adulti abbiamo elaborato qualche scetticismo in più, comprendendo che anche la forma democratica è in realtà sottoposta a un rischio prevedibile di decadenza, passibile di coinvolgimento in un processo per così dire naturale, che gli antichi chiamavano oclocrazia.

L’oclocrazia è uno stadio di governo di cui per primo parla Polibio nelle Storie (Libro VI), dove esprime la teoria della ciclicità delle forme di governo. L’oclocrazia  è in sostanza  la forma degenerata della democrazia, come l’oligarchia è la forma degenerata dell’aristocrazia, e la tirannide di quella della monarchia. Per ricercare qualche esempio nel passato potremmo pensare alla forma della Repubblica di Roma antica che sfociò in una fase oligarchica per poi approdare al Principato, oppure alla Rivoluzione francese che terminò nell’era napoleonica, la Rivoluzione bolscevica che approdò alla tirannia staliniana; Mussolini arrivò al fascismo dal socialismo; anche il nazionalsocialismo nacque da una profonda adesione di popolo per arrivare alla propria  deriva. Ora a siamo nella fase democratica, nata dal bruciare in cenere del fascismo e dalle rovine della Seconda Guerra Mondiale.

Nella concezione di Polibio lo stadio di degenerazione della democrazia è dovuto ad una sorta di atomizzazione del popolo che da unitario e dotato di una propria autocoscienza, si trasforma in una moltitudine e diviene preda di figure dominanti, che lo danneggiano. La massa, pur credendo di esercitare capacità di discernimento e autonomia propria, diviene strumento nelle mani di alcuni che oggi definiremmo manipolatori, o gruppi di potere, e viene condotta al disgregamento. I gruppi di potere impongono il perseguimento dei propri interessi (finanziari, economici, ecc.) contro gli interesse della collettività.

Finché la democrazia si barcamena lasciando (quasi) vivo il diritto dei cittadini di partecipare attivamente ai risultati della vita  politica si può dire tale; quando si constata la perdita di questi diritti e, chissà come, chissà per volontà di chi, questi diritti sono evidentemente perduti, forse si è già usciti dalla democrazia, si è già nell’oclocrazia. 

Per esempio, forse non siamo più in democrazia quando in un paese cosiddetto democratico come la Romania si vedono annullate elezioni perfettamente regolari e poi si esclude il candidato vincente, come è accaduto a Georgescu, inviso alla UE, privato della possibilità di partecipare alle elezioni di maggio dopo che erano state annullate quelle di novembre che aveva vinte. Forse non siamo più in democrazia quando si esclude dalla corsa politica la francese Le Pen, interdetta dei pubblici uffici e dichiarata ineleggibile per escluderla dai giochi elettorali, oppure quando in Gran Bretagna viene chiuso il conto bancario a Nigel Farage, malgrado la banca Coutts Bank abbia ammesso di averlo fatto per pure ragioni politiche. Forse non siamo più in democrazia quando il partito tedesco AFD viene depennato dai giochi politici elettorali e indicato come organizzazione estremista in grado di mettere in pericolo la democrazia stessa, negando tuttavia le possibilità reale di scelta attraverso il voto. Forse non siamo più in democrazia quando viene sbattuto in carcere un avvocato come Reiner Fullmich per aver denunciato grandi scandali a favore del green. Forse non siamo più in democrazia, asserviti come ci troviamo a una UE che costituisce un’edificazione del tutto artificiale, creata da una elíte ristretta e imposta ai cittadini europei. Forse non siamo più in democrazia quando lo studio della letteratura russa (non ve ne è una più grande, secondo il mio modesto parere!) viene esclusa dalle università a causa della situazione geopolitica.

Che dire? Non vi sembra un po’ agonizzante la democrazia?

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DANTE SPEZIALE IN PARADISO

L’alloro compare subito nel  Paradiso nel Canto  I,13 15, quando  Dante invoca Apollo, il Dio della poesia e dei poeti:

«O buon Apollo, all’ultimo lavoro 

fammi del tuo valore, sì fatto vaso,  

come dimandi a dar  l’amato alloro». 

Nel Canto II del Paradiso Beatrice e Dante giungono nella Luna (I Cielo). È qui che Beatrice fuga i dubbi di Dante sulle macchie lunari e il lettore ha così modo di conoscere la teoria delle influenze celesti.  Viene citata la margherita (II,34 36):

«Per entro sé l’etterna margherita

ne ricevette, com’acqua recede

raggio di luce permanendo unita».

Si serve dell’immagine della margherita  che viene penetrata dal raggio di luce senza distruggerla; allo stesso modo potranno vedere, nel proseguire il loro viaggio, il compenetrarsi della natura umana e divina.

Nel Canto VIII  (139.141) parla delle sementi che, se vengono piantate in luoghi sfavorevoli, non germinano oppure germinano malamente; le paragona alla natura umana la quale, se non viene indirizzata bene, si volge verso il male:

«Sempre natura, se fortuna trova

discorde da sé, com’ogni altra semente

fuor di sua ragion, fa mala prova».

In Paradiso (XII,118-120), troviamo il loglio quando si parla dei Francescani, in un passo molto discusso dai commentatori, ma il cui significato in ogni caso dice che  la famiglia francescana  ai tempi di Dante “va a ritroso”con i costumi, cioè al contrario rispetto alla regola. Poi Dante applica ai dissensi interni dell’ordine francescano la parabola della zizzania; il loglio sta per  la zizzania:

«E tosto si vedrà della ricolta

della mala coltura, quando il loglio 

si lagnerà che l’arca li sia tolta».

In Paradiso parla della rosa (XIII,130 138): dal pruno, infatti, che si presenta  secco e pieno di spine, in primavera sboccerà la rosa. Ecco i suoi versi:

«Non sien le genti, ancor, troppo sicure

a giudicar, sì come quei che stima

le biade in campo prim che sien mature:

ch’io ho veduto tutto il verno prima

lo prun mostrarsi rigido e feroce,

poscia portar la rosa in su la cima;

…»

Nel Paradiso, canto XXII , 85 87 viene citata la quercia.  Dal momento della nascita della quercia fino al momento del suo fruttificare passano circa venti anni: nel testo stanno a identificare un periodo breve.  Le esigenze della «carne», cioè del corpo spingono verso il peccato, e i buoni propositi, dice Dante, durano un tempo molto breve (“dal nascer della quercia al far la ghianda”):

«La carne di mortali è tanto blanda,

che giù non basta, buon cominciamento

dal nascere della quercia al far la ghianda».

Nel Paradiso (XXIII, 70 75) Dante  rimane estatico di fronte al sorriso di Beatrice, che lo sollecita a non perdersi nell’estasi procurata dalla visione del suo volto, e lo invita invece a rivolgere lo sguardo al «bel giardino» dei beati che fiorisce alla luce di Cristo. Lì si trova la rosa che «carne si fece»:  vale a dire la Vergine Maria; lì si trovano i gigli che condussero l’umanità nel cammino della fede: i gigli sono gli Apostoli.

«Perché la faccia mia sì t’innamora,

che tu non rivolgi al bel giardino

che sotto i raggi di Cristo s’infiora?

Quivi è  la rosa in che il verbo divino

carne si fece; quivi sono li gigli

al cui odor si prese il buon cammino».

Nel Canto XXVI  (85-87) dice che la proprietà vitale delle piante è quella di svilupparsi verso l’alto:

«Come la fronda che flette la cima

nel transito del vento, e poi si leva

per la propria virtù che la sublima,

…»

Nel Canto XXVII  dice che la volontà fiorisce nei mortali, ma non dura, perché poi la pioggia trasforma le susine in bozzacchioni pieni di vermi:

« Ben fiorisce nelli uomini il volere;

ma la pioggia continua converte 

in bozzacchioni le susine vere».

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CARBURANTE PER LA DEMOCRAZIA

La democrazia affronta una crisi già da tempo e presenta molte fragilità rispetto rispetto al suo futuro. Negli ultimi decenni i processi democratici hanno subito un’inversione di tendenza in tutto il mondo e le libertà dei singoli e dei gruppi è andato diminuendo.

Così, sebbene non ami indulgere nelle commemorazioni del passato, atteggiamento che spesso si accompagna —almeno nella nostra generazione di boomers— ad un nostalgico attaccamento per certi paradigmi del tutto inutili oggi per capire il mondo presente, e malgrado non mi permetta volentieri di ripiegarmi con rimpianto verso il passato e le storie di gruppo e di famiglia, almeno per questa volta mi sono concessa un tuffo nella linea passata degli eventi, fra ciò che sta “dietro”e ha fondato il nostro oggi, nonostante cerchi di prediligere prestare attenzione agli accadimenti odierni. È in questa onda personale sentimentale /retrò che ho voluto rileggere e riascoltare un discorso del 1955 di Piero Calamandrei, tenuto presso l’Umanitaria di Milano, con cui l’eccellente comunicatore aveva affascinato una platea di giovane studenti. A loro raccomandava la vigilanza, la cura della libertà e della democrazia; si rifaceva alla nostra Costituzione,  e affermava che «la democrazia è solo in parte una realtà, ma in parte un programma, un ideale, una speranza, un impegno, un lavoro da compiere», in permanente polemica con il presente».  

Le Costituzioni, diceva, contengono sempre una polemica con il passato, verso i regimi precedenti, ma nella nostra Costituzione c’è una parte che è in polemica con il presente, per esempio quando nell’articolo 3 , dopo aver affermato che «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» afferma che è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica,  economica e sociale del Paese», facendo in tal modo comprendere che alcune limitazioni sono ancora in atto e che la Repubblica deve operare per superarle.

Nel suo intervento, ricco di spunti di riflessione, di simpatia e di essenzialità, parlava della Costituzione come di una macchina utile a raggiungere la libertà,  non basta mettere in moto la macchina, ma bisogna di continuo aggiungere il carburante:«la Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto vada da sé, è un pezzo di carta, se lo lascio cadere non si muove. Perché si muova, bisogna rimetterci dentro il combustibile: l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere le promesse».

Nel suo discorso parlava del nichilismo dei giovani, che lui chiama “indifferentismo”: ignavia, in buona sostanza, apatia verso la vita politica, tale da renderli scarsamente partecipi alla vita politica  e sociale del loro paese, inclini ad astenersi dal prendere posizioni fra idee e orientamenti.

Mi piace immaginare la platea di giovani cui si rivolgeva come un uditorio attento, interessato, coinvolto: tale in effetti era. 

Non mi piace invece immaginare come si comporterebbe un uditorio analogo al giorno d’oggi: un conglomerato di individui freddamente chini sullo schermo dei loro cellulari, un insieme di persone isolate una dall’altra, incapaci di formare un’unità partecipativa, tanto solitari quanto iperconnessi con i mezzi tecnologici, incapaci di vero ascolto.

Ma forse mi sbaglio. Desidero sbagliarmi.

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DANTE SPEZIALE NEL PURGATORIO

È soprattutto nel Purgatorio che vengono nominate piante e fiori, fin dal Primo Canto, quando Catone ordina a. Virgilio di cingere i fianchi di Dante con un giunco (simbolo di umiltà) che cresce nella parte più bassa dell’isola, e di lavargli il viso, affinché si presenti pulito dalla caligine infernale di fronte all’Angelo che sta di guardia al Purgatorio. Così viene fatto. (Purgatorio, I, 94 e seguenti):

«Va, e fa che tu costui ricinghe

d’un giunco schietto e che li lavi ‘l viso,

sì ch’ogni sucidume quindi stringhe…»

L’ulivo trova posto in Purgatorio, (II ,67 75.) L’ulivo è metafora per indicare le buone notizie. Le anime si accorgono che Dante è vivo, respira, e gli si fanno attorno come a un messaggero che porta l’ulivo, simbolo di pace:

«E come a messagger che porta ulivo

tragge la gente per udir novelle,

e di calcar, nessun si mostra schivo,

così al viso mio s’affisar quelle

anime fortunate tutte quante,

quasi obliando, d’ire a farsi belle».

Sempre nel Purgatorio (II, 124-126) ad un certo punto Catone, nella sua severa figura, sgrida le anime che si sono perse ad ascoltare la canzone di Casella, e le sprona ad abbandonare l’indugio e a spogliarsi dalla scorza di peccati. Così loro fanno, come i colombi che abbandonano per un moto di paura la biada e il loglio:

«…”Che è ciò, spiriti lenti?

Qual negligenza, quale stare è questo?

Correte al monte a spogliarvi lo scoglio

ch’esser non lascia a voi Dio manifesto”.

Come quando, cogliendo biada o loglio

li colombi adunati alla pastura,

queti, senza mostrar l’usato orgoglio,

se cosa appare ond’elli abbian paura,

subitamente lasciano star l’esca, 

perch’assaliti son da maggior cura…»

Ma il loglio sarà citato anche in Paradiso (XII,118-120).

In Purgatorio (IV, 19-23) paragona un passaggio stretto in cui devono passare ai varchi nelle siepi di recinzione, che i vignaioli cercano di chiudere con dei rami spinosi per proteggere le uve dalle tentazione dei ladri:

«Maggiore aperta molte vuole impruna

con una forcella di sue spine

l’uom della villa quando l’uva imbruna…»

Nel Canto XVI  al verso 115 dice che: «ogni erba si conosce per lo seme».

Dante cita il mirto quando in Purgatorio, (XXI,88 92),  incontra il poeta Stazio, che dice di aver meritato «le tempie ornar di mirto»:

«Tanto fu dolce mio vocale spirto,

che, tolosano, a sé mi trasse Roma,

dove meritai le tempie ornar di mirto»

Nel Canto XXII  giungono sul ripiano della sesta cornice; ad un certo punto appare un albero carico di buoni frutti che, all’opposto dell’abete, ha rami più corti in basso e più lunghi in alto, perché nessuno possa salire: è uno strumento punitivo per i golosi. Ecco i versi (130- 135):

«Ma tosto ruppe le dolci ragioni

un alber che trovammo in mezza strada,

con pomi a odorar soavi e boni;

e come abete in alto si digrada

di ramo in ramo, così quello in giusto

credo, perché persona su non vada.

Nel Purgatorio (XXVII, 31 42) parla del gelso vermiglio. Piramo e Tisbe nel mito muoiono insieme presso un gelso. Il gelso, che era stato intriso dal sangue di Priamo, mutò il colore dei suoi frutti, che da bianchi divennero vermigli:

«Come al nome di Tisbe aperse il ciglio

Piramo in su la morte, e riguardosa,

allor che ‘l gelso diventò vermiglio….

In Purgatorio (XXVIII, 7 21) Dante  si dirige verso la campagna, che emana gradevoli profumi. È desideroso di visitare l’Eden. Spira una dolce aria che passa fra le chiome degli alberi e ne percorre le fronde, senza tuttavia impedire agli uccelli di cantare, accompagnati dallo stesso venticello, come nella pineta di Classe, quando soffia lo scirocco:

«Un’aura dolce, senza mutamento

Avere in sé, mi ferìa per la fronte

non di più colpo che soave vento;

per cui le fronde, tremolando, pronte

tutte quante piegavano alla parte

U’ la prim’ombra gitta ‘l santo monte;

Non però dal loro essere dritto sparte

tanto, che li augelletti per le cime

lasciassero d’operare ogni loro arte;

ma con piena letizia le ore prime,

cantando, ricevendo intra le foglie,

che teneva bordone alle sue rime,

tal qual di ramo in ramo si raccoglie

per la pineta in su ‘l lito di Chiassi,

quand’Eolo Scirocco fuor discioglie».

Il Canto XXXII del Purgatorio è il canto della «pianta dispogliata». Tutti i presenti alla scena si dispongono attorno a una pianta priva di foglie e di fiori. Essa ha la particolarità di avere rami sempre più larghi a mano a mano che si eleva verso il cielo, contrariamente a quanto avviene in natura. I commentatori sono d’accordo nel ritenere che la pianta rappresenti l’albero del bene e del male, presso cui avvenne la tentazione di Adamo ed Eva. Alcuni, tuttavia, vedono nella pianta la raffigurazione dell’Impero Romano.

Dal verso 37:

«Io senti’ mormorare a tutti ‘Adamo’;

poi cerchiaro una pianta dispogliata

di foglie e d’altra fronda in ciascun ramo.

La coma sua, che tanto si dilata

più quanto più è su, fora dall’Indi

nei boschi lor per altezza ammirata».

Dopo un susseguirsi di eventi  allegorici  la pianta dispogliata, come fanno quelle terrene, quando arriva la primavera, si rinnova, facendo sbocciare fiori d’un colore meno acceso delle rose e più intenso di quello delle viole:

«… si rinnovella

di suo color ciascuna, pria che ‘l sole

giunga li suoi corsi sotto altra stella;

men che di rose e più che di viole

colore aprendo, s’innovò la pianta…»

Poi in Purgatorio (XXXII,73 -75) adopera una similitudine con i fiori del melo (fioretti del melo) per piegare come gli angeli celesti siano desiderosi (ghiotti) di vedere Gesù:

«Quali a veder de’ fioretti del melo

Che del suo pome gli angeli fa ghiotti

E perpetua nozze fa nel cielo…».

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I SUONI DELLE LETTERE SECONDO PLATONE

Di tanto in tanto Grazia Valente ed io ci divertiamo a giocare con i suoni, lasciandoci trasportare dalle nostre sensazioni o da alcune  riflessioni in proposito. Ma oggi la prendo un po’ più sul serio, e vado a giocare nientemeno che con Platone, che si è dibattuto sulla possibile opposizione  fra motivazioni e arbitrarietà riscontrabili nelle origini dei linguaggio. Nel Cratilo affida al personaggio omonimo la parte del sostenitore della prima ipotesi, e a Ermogene la tesi dell’arbitrarietà. Fin dall’inizio Socrate viene invitato a partecipare alla discussione.

Cratilo  in sintesi afferma ( è Ermogene a riferirlo) «che ciascun essere possiede il nome corretto che per natura gli conviene»; invita dunque Socrate ad esprimere il proprio parere sull’argomento, e Socrate dichiara di non sapere quale sia la verità a tale riguardo ma di essere pronto a ricercare la risposta insieme a Cratilo e ad Ermogene. In realtà fin da subito la conversazione tende a snodarsi fra Socrate ed Ermogene, Cratilo “rientrerà in scena” solo più avanti.

Particolarmente interessante è il passaggio in cui Ermogene  afferma che sono coloro che inventano e adoperano gli strumenti ( per esempio la spola o il trapano), che, allo stesso modo con cui attuano il processo di ideazione e di costruzione dell’oggetto, appongono i nomi: saranno questi artigiani ad apporre i nomi, non per mezzo del loro estro o del loro capriccio, ma sulla base della loro arte specifica e della capacità  di svolgere l’attività con quegli strumenti. Essi saranno i legislatori.

Platone si impastoia, per bocca di Socrate, in improbabili ricostruzioni etimologiche (che hanno un che di favolistico), assai poco convincenti (sui quali ora non mi soffermerò),  ma infine, messo in difficoltà da Ermogene, entra nei particolari dei fonemi, i quali esprimono l’essenza nella loro stessa capacità di imitare il significato. 

Così  ci spiega che la stessa articolazione dei suoni, operata con tutti i muscoli occorrenti all’operazione, producono una forma di gestualità, che rispecchia quella corporea, ma che rimanda direttamente alle qualità acustiche dei fonemi. Inoltre i suoni possiedono specifiche qualità acustiche. Nell’ambito del Cratilo dunque individua alcune equivalenze fra suoni e simboli.

Nel“ro” individua lo strumento per esprimere il senso del movimento:  «La lettera “ro” parve essere un bello strumento di moto a colui che poneva i nomi (il legislatore) per rappresentare il concetto di “phora”  (cioè movimento) e assai spesso dunque se ne è avvalso per questo fine». Cita poi una serie di nomi contenenti il suono “ro”, come “tromo”, (tremito), “trechein” (correre), “ereichein” (fendere), krouoein (percuotere), trhauein (rompere), e altri ancora.

Quanto allo “iota”, dice, «si è avvalso per tutto ciò che è minuto e può andare dappertutto».

Sul “delta” e il  “tau “ dice: «La forza del“delta” e del “tau” deriva dalla compressione e dall’appoggio delle lingua, pare che egli la consideri utile all’imitazione del legame e della sosta.

«Accortosi che la lingua sdrucciola particolarmente nel “lambda”, per assimilazione chiamò le cose lisce “leia” e  nominò lo stesso «olisthanein”(sdrucciolare)  e “liparon” (untuoso) e “kollodes”, (vischioso). 

Quanto al suono “gl”: «Siccome quando la lingua scivola, le fa resistenza la forza del gamma, imitò con esso il “gliskhron”(vischioso), il “glyky” (dolce) e il “gliodes” (viscido)».

«Avvertendo poi nel “ni”  un suono che rimane all’interno della voce diede il nome a che è “endon”  (interno )e “enthos” (dentro)  come per dare immagine alle cose con le lettere.

«E ancora attribuì l’”alfa” alla grandezza e l’”eta” alla lunghezza.  

Infine, avendo bisogno di un segno “o” per ciò che è tondo, lo mescolò moltissimo a questo nome».

Genette definiva Platone come un cratilista deluso, costretto a rinunciare, in certo qual modo, alla teoria della giustezza dei nomi, sebbene auspicasse la prevalenza della motivazione contro quella dell’arbitrarietà.

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Audio “IL PANIERE DI CAPPUCCETTO ROSSO”

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IL PANIERE DI CAPPUCCETTO ROSSO

Dopo aver raccolto i fiori, Cappuccetto Rosso si ricordò della nonna e finalmente si incamminò. Si meravigliò che la porta della casa della nonna fosse spalancata ed entrando nella stanza ebbe un’impressione strana. Si avvicinò al letto e scostò le cortine: la nonna era coricata con la cuffia abbassata sulla faccia e aveva un aspetto strano. 

«Oh, nonna, che orecchie grosse hai!»

«È per sentirti meglio!» 

«Oh nonna,  che occhi grossi hai!»

«È per vederti meglio!» 

«Oh, nonna, che grosse mani hai!»

«È per meglio afferrarti!»

«Ma nonna, che bocca spaventosa hai!»

«È per divorarti  meglio!»,  e subito il lupo balzò dal letto e ingoiò la povera Cappuccetto Rosso.

Nella nota fiaba Cappuccetto Rosso , che nelle righe sopra abbiamo perso nelle fauci del Lupo, era stata ben lieta di andare dalla nonna e di portarle il paniere con le focacce preparate dalla mamma, insieme al vasetto di burro. Sapeva che il paniere da lei portato sarebbe stato di effettiva utilità.

Noi invece cosa dobbiamo mettere nel nostro paniere, secondo le indicazioni della Commissaria all’Uguaglianza e Gestione delle Crisi Hadja Lahbib?

Dunque:  occhiali da vista, documenti d’identità, protetti in una custodia impermeabile, acqua, medicine, cibi in scatola, contanti, power bank per il cellulare, radio portatile, coltellino svizzero, torcia, fiammiferi o accendino, e mazzo di carte. (Prossimamente qualcuno della UE ci insegnerà il gioco delle tre carte).

La fiaba non dice per quanti giorni la nonna dovrà sopravvivere con  quella sporta, sappiamo solo che Cappuccetto Rosso doveva andare dalla nonna perché non stava  tanto bene, e la mamma voleva farle avere le focacce appena sfornate.

«Ecco, le metto nel paniere insieme al burro. Le serviranno per riprendersi dalla sua malattia. Portagliele», aveva detto la mamma di Cappuccetto.

Noi, invece, abbiamo ricevuto indicazioni precise circa i tempi di sopravvivenza con il nostro paniere: 72 ore.

Settantadue ore (scritte in parola sembrano più lunghe) durante le quali il lupo forse avrà la possibilità di divorarci (anzi, secondo il parere di alcuni, sarà l’orso a farlo. Ma cominciamo dall’inizio.

C’era una volta una graziosa bambina, che indossava sempre una mantellina rossa con il cappuccio: le stava così bene che tutti ormai la chiamavano Cappuccetto Rosso.

Un giorno la mamma le disse…

Conosciamo la fiaba: Cappuccetto Rosso si avvia, quando giunge nel bosco incontra il Lupo, desideroso di mangiarsela, che tuttavia deve rimandare il suo proposito perché nel bosco c’erano anche dei taglialegna. Il Lupo rivolge domanda insidiose per conoscere i dettagli di vita di Cappuccetto, lei diventa involontariamente delatrice di se stessa e fornisce un mucchio di informazioni utili al Lupo (proprio come facciamo noi sui social).

«Dove abita la nonna?»

«Abita lontano, sta laggiù, passato quel mulino che si vede da qui, laggiù in fondo, nella prima casetta del paese».

Il Lupo si informa anche sulla strada che Cappuccetto Rosso prenderà e dice che lui allora prenderà l’altra: così giocheranno a chi arriva per primo.

Questo accade nella versione più antica della fiaba, raccolta da Perrault (1628/1703).

In una versione ancora più antica, del 1600, si dice nella fiaba che il Lupo domandi a Cappuccetto Rosso:

«Quale strada vuoi prendere, quella degli spilli o quella degli aghi?»

Gli aghi, si sa, pretendono una difficile opera: possesso del filo, infilamento del filo nella cruna, lavoro di cucito. Con gli spilli è tutto più semplice: basta puntarli e l’orlo è subito fatto!

Gli psicoanalisti, in particolare Bruno Bettelheim (Il mondo incantato) ci hanno spiegato che questi due oggetti, spilli e aghi, rappresentano rispettivamente il principio del piacere e quello di realtà. Del resto la cosa è evidente anche nella versione successiva dei fratelli Grimm, che ci racconta come Cappuccetto Rosso, attardandosi nel bosco a raccogliere fiori, solo dopo averne raccolti tantissimi, si ricorda di quello che era stata mandata a fare.

«Guarda come sono belli i fiori intorno a te, senti come cantano gli uccellini…», dice il Lupo della fiaba. Il mondo è pieno di aspetti seducenti e noi come Cappuccetto Rosso, abbandoniamo volentieri il principio di realtà per quello del piacere, scegliamo l’altro sentiero e possiamo andare incontro alla distruzione.

 Il principio del piacere è sempre in agguato, bene lo sanno i nostri manipolatori, che sono i nostri veri lupi, che ci distolgono dalla comprensione della realtà con mille strumenti di manipolazione, proponendoci continui mezzi di distrazione dalla comprensione dei pericoli fondamentali: “Panem e circenses “docet.

Ma accanto agli aspetti allettanti anche la paura può ottenere risultati sorprendenti. La paura, fomentata in ogni maniera, come Goebbels insegnava, quando spiegava come la paura renda efficace qualunque attività di manipolazione.

Ora l’Unione Europea, travolta da una crisi fortissima, ha tanto bisogno di incutere paura per sopravvivere, tanta tanta paura, ancora più paura, per renderci obbedienti, così dichiara che bisogna essere pronti per la resilienza e l’emergenza totali. Nel piano di sopravvivenza, come è ovvio, campeggia la preparazione alla guerra e le nuove strategie di difesa  che comprendono anche sistemi di controffensiva relativi alle reti energetiche e informatiche, non solo quelle militari . Anche nel cyberspazio viene, ovviamente, indicato come nemico la Russia, ma anche la Cina l’Iran e la Corea del Nord sono accusati di prendere regolarmente di mira i nostri bersagli. Secondo la UE non va trascurata la preparazione agli eventi disastrosi naturali. Così viene proposta una strategia di stoccaggio europeo di scorte d’emergenza. Spicca la necessità di intensificare, guarda caso!, il monitoraggio delle fake news.

Tutto serve ad alimentare la paura!

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Audio “PASSARE AL BOSCO” OGGI?

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“PASSARE AL BOSCO”, OGGI? Recensione anacronistica di Letizia Gariglio

Jünger insegnava a “passare al bosco”, settantaquattro anni fa.

Ernst Jünger è uno scrittore tedesco nato nel 1895 e morto nel 1998; è una figura molto complessa di scrittore e di pensatore  che ha profetizzato nelle sue opere una sorta di catastrofe epocale in grado di coinvolgere l’intero pianeta, ma soprattutto la società umana. Nella sua opera, il Trattato del ribelle, indica come salvarsi da questa catastrofe: è possibile farlo solo individualmente, per mezzo di una fuga, una fuga soprattutto dentro di sé, quindi verso l’interiorizzazione.

La libertà, ritiene l’autore, è un dovere spirituale e viene acquisita solo attraverso un’esistenza volutamente consapevole  e ribelle. Nella sua opera dunque esplora il concetto di ribellione. Jünger utilizza il termine “ribelle” (ma si vedrà che questa è una traduzione in italiano di un concetto che nella lingua tedesca è un po’ diverso) per descrivere una figura che si oppone alle convenzioni sociali e alle autorità oppressive, cercando di affermare la propria individualità e libertà.

Jünger scrive il suo Trattato del ribelle nel 1951 in un momento in cui l’Europa è da poco uscita dall’inferno della seconda guerra mondiale e la società dei consumi sta prendendo piede e si sta espandendo: è il momento del boom economico. 

Il libro è diviso in diverse sezioni, in cui Jünger analizza la condizione dell’uomo moderno, le sfide della società a lui contemporanea e il ruolo del ribelle in questo contesto. La figura del ribelle è vista come un simbolo di resistenza e autenticità, è un uomo capace di affrontare le difficoltà e le ingiustizie del mondo. Jünger discute anche il concetto di “anarchia” in senso positivo, come una forma di libertà che permette all’individuo di esprimere se stesso al di fuori delle strutture oppressive.
In italiano è stata tradotta come ribelle la parola tedesca Waldgang che significa letteralmente “colui che passa al bosco”. L’origine di questo termine proviene dall’Islanda medievale; il Waldgang si dava alla macchia, era un fuorilegge, un proscritto, una sorta di Robin Hood, e naturalmente si ritirava in luoghi impervi e inaccessibili come le foreste.

«Il proscritto», scrive Jünger, «ai tempi dei nostri antenati, era avvezzo a pensare con la propria testa, a condurre una vita dura, ad agire in piena autonomia. È probabile che in seguito si sia sentito abbastanza forte da accettare anche la messa al bando, e da solo è diventato guerriero, medico, giudice, e perfino sacerdote. Oggi non è più così. Le persone sono talmente adagiate nell’alveo delle strutture collettive da non essere più capaci di difendersi».

Nella concezione del nostro autore  il bosco diventa così il luogo ideale per il mutamento interiore di chi vuole essere ribelle, di chi si dirige volontariamente come un soggetto attivo verso il bosco, animato da una spinta interiore molto forte alla ribellione. Il bosco è un simbolo, rappresenta la naturalità della realtà, ed è nello stesso tempo un luogo senza tempo, dove è possibile rifugiarsi per trarre ispirazione dalla natura; spiega poi che il ribelle si rifugia nel bosco quando lo ritenga necessario e non per fuggire ma per continuare la sua lotta interiore: è un uomo nel mondo, ma non delmondo.

Nel suo libro comincia fin dalle prime pagine con il contestare in modo molto aspro la prassi elettorale: ritiene che sia il potere a imporre «la legge agli elettori, e non viceversa». Chi ha il potere costringe l’elettore ad accettare un dovere che giova unicamente al potere stesso e con l’atto del voto l’individuo lo legittima: dire no a questo dovere è l’unica possibilità del singolo che ricerchi la propria libertà e che voglia esprimere il proprio coraggio contro l’assuefazione abituale della moltitudine. Questo atto è un atto di resistenza al potere; si potrebbe dire che l’atto di negazione al voto sia il primo gesto di ribellione. 

L’autore inoltra riflette sulla natura della guerra, della tecnologia e della cultura, evidenziando come questi elementi influenzino la vita dell’individuo e la sua capacità di ribellarsi.

Dice: «L’uomo tende a rimettersi agli apparati e a far loro posto anche quando dovrebbe attingere alle proprie intime risorse. Dà prova in tal modo di mancanza di immaginazione. Eppure dovrebbe conoscere i punti in cui non è lecito mercanteggiare la propria sovrana libertà di decisione. Fintantoché regna l’ordine, l’acqua scorre nelle tubature e la corrente arriva alle prese. Non appena la vita e la proprietà sono in pericolo, come d’incanto un allarme chiama i vigili del fuoco e la polizia. Ma il grande rischio è che l’uomo confidi troppo in questi aiuti e si senta perduto se essi vengono a mancare. Ogni comodità ha il suo prezzo. La condizione dell’animale domestico si porta dietro quella della bestia da macello». La logica conseguenza di questa prospettiva è che nel momento in cui maggiormente si addensano le minacce, quando gli apparati non solo abbandonano l’essere umano ma sembrano lavorare contro di lui,  precludendogli vie di scampo, allora in quel momento è necessario che l’uomo, anziché darsi per vinto, decida di continuare la lotta, o di cominciare la lotta, attingendo alle sue risorse personali più profonde. In quel momento egli forse deciderà di passare al bosco.

Vi sono in questo libro dei passaggi che risultano incredibilmente attuali. Per esempio, quando in una sezione del libro si parla della paura, definendola una dei sintomi del nostro tempo: nonostante siano passati più di settant’anni dal momento in cui quest’opera è stata scritta, questo capitolo sembra applicarsi a pennello all’oggi. Il fenomeno della paura è strettamente collegato, a parere dell’autore, con il rapporto derivato dai progressi della tecnica e della tecnologia:«Pur di ottenere agevolazioni tecniche l’uomo è infatti disposto a limitare il proprio potere di decisione. Conquisterà così ogni sorta di vantaggi che sarà costretto a pagare con una perdita di libertà sempre maggiore», dice. 

Ciò che esprime nel paragrafo riguardante la salute sembra un vero e proprio vaticinio della nostra situazione attuale. Scrive: «Tutte quelle fabbriche della salute con medici assunti e mal retribuiti, le cui cure vengono assoggettate al controllo burocratico, sono sospette: da un giorno all’altro-e non soltanto in caso di guerra-potrebbero assumere un volto inquietante». Un volto inquietante…

Parlando dell’umanità, mentre adombra uno dei grandi pericoli, vale a dire quello della sovrappopolazione, e lascia intravedere la necessità, da parte del potere, di arginare il fenomeno dell’eccedenza di «quelle stesse masse cui ha permesso di esistere», scrive:  «L’equipaggio vaccinato e rivaccinato, depurato dei microbi, aduso alle medicine e di età media assai avanzata ha minori possibilità di sopravvivere di un’equipaggio che nulla sa di tutto questo». Una domanda non viene formulata, ma il lettore sente che aleggia fra le righe: quell’equipaggio  “vaccinato e rivaccinato” è stato predisposto per la partenza?

Una delle parti più interessanti è quella che riguarda la lingua. La lingua viene definita da Jünger come parte della proprietà, della natura, ma anche «dell’eredità, della patria dell’uomo alla quale  è toccata in sorte senza che egli ne conosca la pienezza e la ricchezza».  La paragona alla luce: come la luce rende visibile il mondo e la sua immagine, così la lingua rende il mondo comprensibile, è la chiave indispensabile per scoprirne tesori e misteri. Secondo Jünger la parola è materia dello spirito e dunque è idonea a edificare i ponti più arditi; tuttavia essa è anche lo strumento più importante del potere e di chi lo esercita. Tuttavia: «Perfino in epoche in cui la lingua è decaduta a semplice strumento di tecnici e burocrati, perfino quando per simulare una qualche freschezza prende a prestito le forme del gergo, la lingua rimane indefettibile nel suo immoto potere. Il grigio, la polvere, coprono solo la superficie. Chi scava più a fondo, in ogni deserto, tocca lo strato da cui sgorga la fonte. E con l’acqua che zampilla riaffiora nuova fecondità».

Il “difficile” libro si chiude proprio con queste parole.

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Audio “LA DEBOLEZZA DEI GUERRAFONDAI”

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LA DEBOLEZZA DEI GUERRAFONDAI

(articolo pubblicato su Parole in rete il 10/03/2025)

Assistiamo a una progressiva normalizzazione dei rapporti fra gli Stati Uniti e la Russia (riapertura delle attività diplomatiche, riapertura delle ambasciate russe negli Stati Uniti, colloqui in corso); ciò sta avvenendo anche grazie alle ammissioni da parte di Trump della responsabilità degli USA nello scatenamento della guerra in Ucraina, dovuta, per sua stessa ammissione, all’espansione pericolosa della Nato verso Est e alla preoccupazione dei Russi di avere, per così dire, la Nato sullo zerbino di casa. Importanti sono anche state le rassicurazioni espresse dal Segretario Hegseth della Difesa e dal vicepresidente  Vance che l’Ucraina non entrerà mai a far parte della Nato. 

La grande “pulizia” che all’interno dello stato si sta operando negli States è condizione preliminare per poter avviare e consolidare trattative di riconciliazione sia con i russi che con i cinesi e per avviare con loro accordi commerciali e non solo commerciali, in una visione che necessariamente non può che prevedere la pace. Lo sradicamento di tutte quelle strutture ostili agli scenari di pace, messe in piedi dall’amministrazione precedente, si rende necessaria per portare a completamento quel processo di riappacificazione che altrimenti sarebbe impedito: la guerra è stata tenacemente voluta dai Democratici. Oggi l’amministrazione attuale  trumpiana parla apertamente di deep -state, riferendosi alla gestione profonda degli affari statali da parte di gruppi di potere, che sovragestivano in precedenza la vita dello stato. Sebbene non siamo così illusi da non comprendere che la sovragestione tramite il deep—state non sia terminata con l’amministrazione Biden, e riguardi una sola delle piramidi del potere, assistiamo tuttavia a grandiose pulizie primaverili e  all’emergere di grandi corruzioni della precedente amministrazione. Nella sua spregiudicatezza di uomo d’affari Trump è sicuramente un uomo chiaro, che non cincischia con le parole, che non si fa scrupoli di rivelare senza mezzi termini l’arroganza e l’ego americano, ma che nello stesso tempo sta smontando un mondo di ipocrisie.

Ora le  forniture di armi e di informazioni di intelligence in partenza per l’Ucraina (che erano state autorizzate da Biden) sono già state bloccate e il processo di normalizzazione parrebbe essere avviato. Così si vorrebbe tutti emettere un gran respiro di sollievo, accompagnato dalla speranza che il processo di abbandono delle armi e della guerra in Ucraina sia iniziato e possa andare a buon fine: qualunque persona per così dire “normale” vorrebbe regalare a se stesso e all’umanità un buon pensiero di speranza. Peccato ci sia un grande “ma”.

Il grande ostacolo alla pace è rappresentato dall’Europa, che ha già danneggiato se stessa con le sanzioni poste alla Russia e che si sono ritorte contro di essa. In Europa ora  sentiamo inneggiare alla continuazione del conflitto, alla creazione di un esercito europeo, alla realizzazione del progetto ReArm Europe. Nell’ergersi a paladini e difensori dei valori democratici la Ue, che non esiste come stato, anziché porsi come forza di pace si propone di opporsi, con le proprie scarse e miserevoli forze belliche, come antagonista di Russia, America e Cina che NON vogliono il conflitto mondiale. La cosa in sé potrebbe far ridere se non fosse pericolosissima e se la storia non ci avesse insegnato quanto l’Europa da sempre eccella nel fare disastri. Sono partite dall’Europa le guerre delle Crociate, quelle di conquista delle colonie, la guerra di Crimea, la I guerra mondiale e la II guerra mondiale…

I leader europei, che hanno sempre rifiutato di dialogare con la Russia, adesso si sentono offesi per non essere stati coinvolti nelle trattative di pace, che vengono condotte in modo diretto da Stati Uniti e Russia: sono palesemente stati messi ai margini della situazione internazionale. Divenuti irrilevanti per aver rifiutato il dialogo, e per la perseveranza nel rifiutarlo anche adesso, come tutti i ratti inchiodati nell’angolo, sono pericolosissimi. Postisi per propria volontà al di fuori dei giochi della geopolitica internazionale si sono autocreati una posizione di pura marginalità.

Si potrebbe dire che il mondo, bene o male, è andato avanti senza l’Europa, che ora si trova arroccata su posizioni che il resto del mondo ha superato.

Siamo abituati a veder traditi dalla cara bellicista Ursula von der Leyen i valori fondamentali sulla base dei quali (forse) era nata l’Europa, ma ora il suo piano sembra nato apposta per riaffermare il fomento di venti di guerra, che alimenteranno gli spiriti del fascismo e del nazismo. 

8oo miliardi saranno destinati agli armamenti: non c’erano quattro soldi, non ci sono mai stati soldi per alimentare le spese sanitarie, per incentivare il sostegno sociale, per promuovere scuola e servizi, ma ora, improvvisamente, non ci saranno difficoltà nell’investire simili cifre per rifornire gli amici dell’industria bellica.

Naturalmente le decisioni della Commissione Europea, che ha appena approvato il piano ReArm, si fonda su tutta la possibile e immaginabile retorica della difesa: il babau è alle porte, è cattivo, vuole invaderci. Il babau è sempre lo stesso: la temibile Russia che, non avendone abbastanza di tutti i suoi territori, vorrà senz’altro anche il nostro. Ingorda! L’unica possibilità in una simile visione è difendersi, e per difendersi occorre armarsi: e questo è esattamente il modello che ha generato tutti gli storici conflitti che conosciamo. La Russia è cattiva e dunque noi non ci vogliamo nemmeno parlare, altro che “farla amica”. Ci parleremo solo dopo che l’avremo sconfitta, “così impara!”. Se una simile logica da bulletto infantile non fosse così pericolosa com’è, sarebbe più divertente ancora ascoltare le varie dichiarazioni che hanno preceduto la riunione: il piccolo Napoleone che afferma che la Russia «è una minaccia per la Francia e per l’Europa», e «chi può pensare che la Russia di oggi si fermerà all’Ucraina?» e mette a disposizione la condivisione dell’arma atomica.

In uno dei più preoccupanti passaggi del suo discorso al Parlamento Europeo la von der Leyen, in cui ci ha fatto sapere che «l’industria della difesa ha bisogno di accedere ai capitali…» ( i nostri, se non è chiaro), ci ha ulteriormente dissipato ogni dubbio quando ha affermato che il progetto troverà la propria realizzazione «così come siamo riusciti a fare i vaccini». Ah, beh, adesso è tutto più chiaro. Infatti anche le armi serviranno a salvare le vite umane, le nostre vite, esattamente come sono serviti i vaccini! E l’industria bellica tutelerà i profitti delle industrie degli armamenti come la produzione di vaccini ha tutelato gli interessi dell’industria del farmaco. Ora sì che possiamo volere tutti la guerra!

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FRA SIBILI E SUSSURRI

Il suono  aspro o S dolce, in quanto onomatopea sibilante, imita lo sfregamento di sostanze solide, o liquide o gassose. Possiamo assimilare al suono S anche quello della SC. Ne derivano parole che in qualche modo sono collegate a una sostanza o a più di una sostanza o a un’azione che ha delle modalità di sfregamento, come strusciare  o setacciare, sciare. Spesso hanno un’iniziale S anche i materiali o gli strumenti che provocano lo sfregamento e talvolta anche il nome di chi li maneggia. Per esempio, sega o setaccio, scalpello (e scalpellino), scala,  spatola e  stecca, ma anche lo spillo da sarta e la spada, strumento principe dell’antico guerriero.

Anche molti strumenti musicali iniziano o contengono S: il sassofono, il salterio, la siringa, il sistro, il sitar, la spinetta, il basso e il contrabbasso,…e,  perché no, il sintetizzatore, mentre una bella Z dolce è contenuta nello zufolo e una aspra nella zampogna.

Lo sfregamento può essere causato da elementi liquidi, ritroviamo questo concetto nelle parole risacca, spiaggia, spartiacque, sobbollire, schiuma, nevischio, sciacquare e risciacquare,  sciabordio, sorgente, schizzare, spruzzare, sgorgare, spumeggiare, sputacchiare, sudare e  trasudare,  starnutire, sbuffare, annusare.

In latino, la parola serpere (con l’ultima e breve) significa strisciare, serpeggiare, ondeggiare, attorcigliarsi, ma anche andare a carponi; come è evidente è legata al verbo la parola serpente, vale a dire un animale che striscia. Così la evidenzia sia l’azione del rettile e il suo modo di spostarsi ma nello stesso tempo ricorda anche il suono che l’animale emette strisciando, infine rammenta il suono che l’animale produce emettendo il suo sibilo, cioè sibilando.

I suoni S, spiranti, rappresentano onomatopee del soffio e sono legate a delle azioni emotive che pretendono l’espulsione del fiato:  sofferenza, spossatezza, spavento spasimo, strazio, disgrazia . È  evidente che molte di queste parole sono legate a una emozione negativa e che esprimono un atto di espulsione del fiato, un’atto espiratorio. 

Sentite come nella parola “spifferare” si percepisce un’azione in cui si dice di soppiatto in modo indiscreto, come l’aria che passa nelle fessure delle labbra trattenute.

Anche tutte le parole che iniziano con il prefisso “dis” hanno un significato peggiorativo, non solo nel linguaggio medico: il prefisso stesso indica sempre che c’è un’alterazione, una malformazione, un funzionamento che in qualche modo è difettoso, una anomalia, un discostamento, quindi un allontanamento, seppur metaforico (non spaziale)  dalla normalità.

La lingua italiana è ricca di parole che hanno il prefisso “S” soprattutto in verbi ma anche in nomi e aggettivi. Il nostro prefisso “S” deriva dal latino “ex”, ne rappresenta la continuazione di significato, esprimendo un’idea di uscita da un luogo o, figurativamente, da una condizione, ma rappresenta anche un’idea di privazione.

Il suono onomatopeico S  è anche adatto ad esprimere e a riprodurre le impressioni sensoriali che sono in qualche modo legate a ciò che è liscio, levigato e anche a ciò che è veloce. È liscio ciò che  è saponoso,  ciò che slitta, ciò che glissa;  è veloce ciò che è svelto, lesto, ciò che schizza, sfreccia, si spiccia ad agire, che si slancia come una saetta, come una strale.

Quando ampliamo la gamma del suono “S”comprendendo anche “sc”, allora ci accorgiamo che esso può essere utilizzato per definire ciò che viscido, vischioso, sgusciante, lascivo, scivoloso, ciò che lascia una scia, o si scioglie e si discioglie, che infastidisce come un vento di scirocco, o appiccica in gola come uno sciroppo.

E magari possiamo utilizzarlo per respingere in modo dinamico qualcuno che desideriamo allontanare: sciò! sciò!          

Ma no, invece preferiamo lasciarci con tante S che provengono dai Poemi Conviviali,  dai potenti valori fonosimbolici, di cui il poeta Pascoli è stato maestro; qui parla dell’ultimo viaggio di Odisseo e del suo peregrinare per mare in una notte stellata:

«…

Egli era fisso in alto, nelle stelle, 

Ma gli occhi il sonno gli premea, soave,

E non sentiva se non sibilare

La brezza nelle sartie e nelli strali.

   E la moglie appoggiata all’altro muro

Faceva assiduo sibilare il fuso».

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Audio “FRA SIBILI E SUSSURRI”

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IL SUONO DELLA “U” DALLA PROTUSIONE ALLA TURPITUDINE

(articolo pubblicato nel mese di febbraio 2025 su Parole in rete)

Vogliamo continuare a essere politicamente scorretti, anche con gli animali?

Allora, che ne dite del grugnito del maiale, che grufola (gru, gru, gru). Sì, è vero che c’entra l’onomatopea, ma quella U lo mette subito in una posizione critica: il timbro grave fa sì che immaginiamo puzza, sporco. rotolamenti nello sterco . Povero porco, subito associato al putridume, al pattume, al sudiciume, alla pupù. Puah!

Anche l’UpUpa non si rende simpatica,  a causa del suo canto così monotono, tutto impostato sulla U: “hu hhù, hhhù seguito da uno stridore fastidiosissimo: a causa di tutta quella U e del suo nome che in italiano lo contiene, è accaduto che persino i poeti, sbagliando, l’abbiano considerata un uccello lugubre e nottuno: cosa completamente falsa perché in realtà è un uccello diurno. Il Foscolo ha osato scrivere nei Sepolcri: 

«…. E uscir del teschio, ove fuggìa la Luna,

l’upupa, e svolazzar su per le croci  

sparse per la funerea campagna 

e l’immonda accusar col luttuoso  

singulto i rai di che son pie le stelle  

alle obblîate sepolture….» 

Dunque la poveretta è stata associata fonosimbolicamente a ciò che è cupo, buio, lugubre.

Anche il gufo, in quanto a simpatie, non è messo meglio, ma almeno un uccello notturno, che bubola, lo è per davvero. Nelle mie notti estive  su un’isola del Mediterraneo sono circondata dal canto dell’assiuolo, gufo molto piccolo dagli occhi gialli, con i quali ipnotizza le sue prede. Io sono ipnotizzata dal suo canto (Chiù, chiù….); dopo un po’ smette, ma non ci si può illudere, riprenderà dopo pochi secondi e continuerà instancabile tutta la notte: meglio accettarlo e rassegnarsi.

L’usignolo ha senz’altro miglior fortuna non solo perché il suo nome contiene una sola U, ma anche perché ha un canto famoso per la sua bellezza.

Pascoli, quando voleva spaventarci della “notte nera come il nulla”, usava a profusione la allitterazioni in U:  

«E nella notte nera come il nulla,

A un tratto, col fragor d’arduo dirupo

Che frana, il tuono rimbombò di schianto:

Rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo…»

«Uhm»: sento un’esclamazione di incertezza; qualcuno non è d’accordo? 

Nel fumetto qualcuno sobbalza? «Ugh!». 

«Uff: che seccatura!»

Per articolare le U dobbiamo restringere la bocca, poi dobbiamo protendere le labbra, in modo da lasciare una piccolissima cavità circolare; dobbiamo anche far arretrare la lingua verso la parte posteriore della cavità orale; articolando il suono dobbiamo mettere in campo armoniche di bassa frequenza. È naturale che ci troviamo nel campo  dei grugniti, dei mugugni. È stato osservato  che quella nostra azione di mettere la bocca e le labbra “a trombetta” assomiglia molto alla mimesi di qualcosa di tubolare e di affusolato.

Non se la prenda a male il lettore (o ascoltatore), se terminerò con le parole di Molière, nel Borghese Gentiluomo, Atto II, scena 4 ( Due interlocutori: il Maestro di Filosofia e Monsieur Jourdain):

MAESTRO DI FILOSOFIA: La vocale U si forma avvicinando i denti, ma senza farli toccare, e

sporgendo le labbra in fuori, avvicinandole l’una all’altra, ma senza chiuderle : U.

JOURDAIN: U, U. Non c’è nulla di più vero: U.

MAESTRO DI FILOSOFIA: Le vostre labbra non si allungano come se faceste il muso? Difatti

se volete fare uno sberleffo a qualcuno o prenderlo in giro, basta che gli facciate : U.

JOURDAIN: U, U. Ma é vero ! Ah, ma perché non ho studiato prima per imparare tutto questo ?

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Audio: Il SUONO DELLA U DALLA PROTUSIONE ALLA TURPITUDINE

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TENEBROSA SEPPUR GIALLA

(articolo pubblicato su Parole in rete nel febbraio 2025)

E così, è giunta dalla redazione Ansa la notizia che la farina di larve Tenebrio Molitor è stata inserita tra i novel food. La Commissione Europea ha autorizzato l’immissione in commercio della Macinazione di larve gialle della farina, trattata con raggi ultra violetti, inserendola tra i nuovi alimenti dell’Unione Europea. Nel testo viene precisato che nei prossimi cinque anni solo una società francese, denominata Nutri Earth, sarà autorizzata a immettere sul mercato il nuovo alimento. Sono state presentate al Parlamento Europeo delle obiezioni all’immissione in commercio della farina, da parte degli eurodeputati Alexander Bernerhuber del Ppe  e Laurence Trochu di Ecr, ma sono state respinte. Bruxelles definisce novel food gli alimenti che prima del maggio 1997 e fino ad oggi non sono mai stati consumati in modo rilevante.

Precedentemente era già stato data via libera alla farina di locuste migratorie, di vermi della farina minore e del grillo domestico. La farina di Tenebrio Molitor potrà essere utilizzata in tutti i prodotti farinacei, come pane, biscotti, impasti vari preparati per i prodotti da forno, e paste. Dovrà essere esplicitamente dichiarata sull’etichetta la presenza, secondo l’imposizione della legge. 

I fans di questa farina di larva dichiarano che è ricchissima di micro nutrienti come il ferro, il fosforo e il potassio e che rappresenta un’alta e valida fonte di proteine,viene quindi (da loro!) considerato un alimento ricco.

Nota: 

Se lo desiderano i nostri lettori potranno rileggere articoli  su Parole in Rete, in cui abbiamo trattato il tema dell’uso alimentare della farina di insetti. In particolare rammento il mio articolo “Solo grilli per la testa!” uscito sul n. 58 (aprile 2023).

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DANTE SAPIENTE DI MEDICINA

(articolo pubblicato su Parole in rete nel febbraio 2025)

Quando percorriamo le pagine dantesche, in particolare dell’Inferno, ci accorgiamo che l’autore inserisce molte osservazioni di tipo medico, sia quando descrive le condizioni disgraziate e le pene dei dannati, sia quando introduce commenti su se stesso e illustra il proprio stato di paura. Osserveremo entrambe le condizioni: la descrizione di punizioni infernali per mezzo di malattie che nell’Inferno vengono somministrate come castighi per i peccatori, e le debolezze, potremmo dire le fragilità, di Dante viaggiatore dell’Oltretomba.  

Dante era iscritto alla Corporazione dei Medici e degli Speziali, viene definito dagli studiosi come sapiens de medicina, vale a dire che conosceva teorie mediche medievali  con riferimento in modo particolare a Ippocrate, Galeno e Avicenna, massimo esponente della medicina araba. Alla Galleria degli Uffizi è conservato un dipinto di Andrea del Castagno che raffigura Dante  vestito con il lucco rosso, la veste dei medici. Nel Canto IV nomina i tre pilastri della medicina, che il viaggiatore dell’Oltretomba, Dante stesso, incontra nel Limbo, in mezzo a «gente di molto valore» e che pure non ha potuto assurgere ad altri luoghi beati perché privi del battesimo, nomina così  Ippocrate, greco di Kos (460-377 a.C.), considerato padre della medicina occidentale,  Galeno di Pergamo (129-201 d.C.), filosofo e medico,  e  il persiano Avicenna (980-1037 d.C.), medico, filosofo e matematico di cultura musulmana.

Nel canto XVII, veniamo a contatto con la quartana (malaria): Dante paragona se stesso, a causa della paura che prova, (e che rende coraggioso persino il servo di fronte a un valente signore)   a chi sia ammalato di tale malattia, che rende febbricitanti e tremanti:

«Qual è colui che sì presso ha ‘l riprezzo 

della quartana, c’ha già l’unghie smorte,

e trema tutto pur guardando il rezzo,

tal divenn’io alle parole porte;

ma vergogna mi fe’ le sue minacce,

che innanzi a buon segno fa servo forte».

Nel canto XX troviamo il termine parlasìa, vale a dire paralisi,  termine dell’italiano antico che indica una malattia che deforma il corpo e rende sconclusionato il movimento: è la punizione infernale riservata agli indovini. Gli indovini, infatti, avanzano lentamente, piangendo, ed ecco che Dante si accorge che hanno il viso voltato al contrario, verso il dorso, costretti dalla legge di contrappasso a guardare indietro, per aver cercato di predire gli eventi del futuro.

Nel Canto XXIV   facciamo conoscenza con l’oppilazion , cioè l’occlusione repentina dei canali anatomici, che causa l’epilessia: improvvisa incoscienza, convulsioni, smarrimento, amnesia. Siamo nella bolgia dei ladri, la settima, nella quale si muove una moltitudine di serpenti: i peccatori corrono nudi e spaventati con le mani serrate dietro la schiena. Una serpe si avventa su un dannato trafiggendolo al collo. E il peccatore arde incenerito. Il suo comportamento è analogo, dice Dante, a quello dell’epilettico che cade a terra, del tutto incosciente; al risveglio dalla crisi è tutto stordito. Simile a questo è il comportamento del peccatore:

«E qual è che cade, e non sa como,

per forza di demon ch’a terra il tira,

o d’altra oppilazion che lega l’uomo,

quando si leva, che ’n torno si mira

tutto smarrito della grande angoscia

ch’illi ha sofferta, e guardando sospira;

Tal era il peccator levato poscia».

Nel Canto XXIX , bolgia decima,  siamo fra i seminatori di discordia : condannati a essere mutilati, sventrati, sviscerati… insomma letteralmente fatti a pezzi, parcellizzati. 

«Tra le gambe perdevano le minugia  

la corata pareva e ‘l  tristo sacco  

che merda fa di quel che si trangugia.  

Mentre che tutto in lui vedere m’attacco,  

Guardommi, e con le man riaperse il petto,  

dicendo: “Or vedi com’io mi dilacco!»

I falsari di metalli vi sono condannati dalla legge di contrappasso a essere sfigurati dalla scabbia e dalla lebbra, così come in vita sfigurarono in vari modi la verità. Due dannati, seduti uno contro le spalle dell’altro, si graffiano furiosamente con le unghie, per liberarsi dal prurito, inutilmente.

«Io vidi due sedere a sé poggiati,

com’a scaldar si poggia tegghia a tegghia,

dal capo a piè di schianze macolati;

e non vidi già mai menare stregghia

a ragazzo aspettato dal segnorso,

né a colui che mal volentieri vegghia,

come ciascun menava spesso il morso

dell’unghie sopra a sé per la gran rabbia

del pizzico che non ha più soccorso…».

Sempre nel Canto XXIX menziona la peste, nello specifico la peste di Egina, quando dice: 

«Non credo cha veder maggior tristizia  

fosse in Egina il popol tutto infermo,  

quando fu l’aere sì pieno di malizia, 

che li animali, infine al piccolo vermo,  

cascaron tutti…». 

Si riferisce al momento in cui la dea Giunone scagliò la peste contro la ninfa Egina, amata da Giove.

Il Canto XXX è, per così dire, un concentrato di malattie. Siamo ancora nella bolgia decima, fra i falsari della persona, i falsari della moneta, i falsari della parola. Fra coloro che finsero di essere un’altra persona incontriamo i rabbiosi, condannati a correre, addentando gli altri dannati.

«Ma né di Tebe furie né troiane

si vider mai in alcun tanto  crude,

non punger bestie, non che membra umane,

quant’io vidi due ombre smorte e nude,

che mordendo correva di quel modo

che ‘l porco quando del porcil si schiude».

I falsari di moneta sono affetti da idropisia,  malattia causata da un accumulo di liquidi che fa gonfiare il corpo. Tocca a mastro Adamo che si lamenta della sete incessante che lo tormenta: l’idropisia gli deforma la pancia facendogliela gonfiare a dismisura.

«La grave idropesì, che si dispaia

le membra con l’amor che mal converte, 

che ‘l viso non risponde alla vetraia,

faceva lui tener le labbra aperte

come l’etico fa, che per la sete

l’un verso il mento e l’altro in su rinverte».

I falsari della parola giacciono stretti uno all’altro, afflitti da un gran febbrone che procura loro il delirio: giusto contrappasso per chi ha falsificato con le parole, mescolando alle vere quelle false.

«E io a lui: “Chi son li due tapini

che fumman come man bagnate ‘l verno,

giacendo stretti a’tuoi destri confini?»

Poi si snoda un dialogo fra l’idropico, maestro Adamo e il falsario di parola Sinone, che turlupinò i Troiani con false spiegazioni sul cavallo.

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AUDIO RACCONTO “VIAGGIO DI UN TARLO IN UN’OTTAVA” (ottava parte)

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VIAGGIO DI UN TARLO IN UN’OTTAVA (ottava parte del racconto di Letizia Gariglio)

(pubblicato su Parole in rete nel febbraio 2025)

La signora considerava il pianoforte, impacchettato fino al giorno dopo, al sicuro. Non gli diede più nessuna attenzione.Carlo, non sapeva come neppure lui, non era morto. Era distrutto, sfiancato, disperato, schiacciato al fondo del baratro. Questa volta disperò di risalire mai più. Tuttavia era vivo. 

«Nessuno può aiutarmi», si disse, «devo rassegnarmi a morire?» 

Allora rivolse il pensiero a Dio, e pregò: 

«Nessuno può aiutarmi», si disse, «devo rassegnarmi a morire?» 

Allora rivolse il pensiero a Dio, e pregò: 

«Madre divina», implorò, «Madre di tutte le creature e di tutti i tarli, aiutami. Se esiste ancora una strada per me, indicamela. Madre, aiutami. E risparmiami la tortura del microonde».

Un’infinita dolcezza raggiunse la sua anima e comprese che nella vita o nella morte la misericordiosa Madre sarebbe stata accanto a lui. Con un nuovo senso di accettazione nel cuore si dispose a affrontare il suo destino, placato e privo di paura. Se ne stava quieto al fondo del baratro, quando cominciò a sentire dei piccoli picchiettii non molto distanti da lui.

Anche Carlo picchiettò.

Ancora picchiettio dall’altra parte. 

E Carlo rispose. 

«C’è qualcuno», si disse Carlo, «qualcuno in qualche anfratto vicino, nel mio stesso pianoforte».

«Chi sei? Rispondimi». E ancora: «Io sono Carlo il tarlo. E tu?»

E dopo un po’: «Sono Carlotta; sono una tarlotta».

Una nuova energia investì Carlo il tarlo, che si gettò a picchiettare, a agitarsi, a aggrapparsi lungo le lisce pareti del baratro. Una nuova speranza muoveva i suoi gesti.

«Ti prego, vienimi in aiuto», diceva Carlotta la tarlotta. «Ho appena sfarfallato, non voglio morire così giovane».

Carlo non aveva mai pensato di diventare un free-climber, non ci si era mai sentito particolarmente portato, ma ora percepiva di godere, all’improvviso, di una forma atletica eccezionale. Pur di raggiungere Carlotta la tarlotta avrebbe scalato a zampe nude anche la Mole Antonelliana. Nella sua immaginazione Carlotta aveva preso ogni spazio della sua mente: era bellissima. Un nuovo sentimento lo stava invadendo:

«Carlotta, se ci salveremo voglio passare tutta la vita con te», le diceva.

E lei:«Ti amerò per sempre».

Una nuova speranza li animava, una nuova forza muoveva i passi di entrambi: era la forza dell’amore.

Fu proprio quella forza che permise a entrambi di unirsi sulla terra del DO.

Anche la prima piattaforma da cui era partito Carlo era il tasto di un DO. Ma il livello che ora aveva raggiunto, grazie alla spinta del sentimento, era il DO di un’ottava superiore: l’altezza delle vibrazioni era doppia di quella della nota di partenza. Carlo il tarlo si chiese se era questa la meta che doveva raggiungere.

«È questo lo scopo della vita di un tarlo?», si chiese. Non sapeva rispondere.

Aveva affrontato un percorso che gli era sembrato interminabile per arrivare fino lì; era salvo, era innamorato; ora, se fosse ancora partito per grandi viaggi d’esplorazione, l’avrebbe fatto insieme alla sua compagna Carlotta. Qualcosa era certamente cambiato nella sua vita: sentiva che la direzione era quella giusta.

Il giorno seguente il pianoforte fu definitivamente spacchettato, liberato dalla pellicola che lo ricopriva. Un accordatore era giunto per sistemare alla perfezione il pianoforte.

«Signora», disse l’accordatore, «vorrei proporle di accordare il pianoforte con un LA verdiano». La padrona di casa in realtà sapeva ben poco di musica e di pianoforti. Tuttavia accettò.

Quando l’accordatura fu compiuta l’uomo, che era anche un bravo pianista, si sedette al pianoforte, e suonò. Una meravigliosa melodia si propagò per la casa.

Carlo e Carlotta, a mano a mano che sentivano i suoni propagarsi, percepivano che le note vibravano con quelle del loro cuore: come si stava bene in quella casa! Era meraviglioso ciò che poteva uscire da quel pianoforte: stabilirono che avrebbero fatto ai suoi legni il minor numero di danni possibile.

«Deporremo le nostre uova in altri legni della casa», concordarono fra loro «e lasceremo che questo pianoforte viva a lungo: quale altro legno sa emettere simili armonie?»

Forse grazie al pianoforte, o più probabilmente grazie all’amore, Carlo e Carlotta si sentivano vibrare in sintonia con l’intero universo:

«C’è posto per tutti, per noi tarli, per la musica, e persino per quel ragazzino pestifero che gira in questa casa. Chissà che un giorno non possa essere raggiunto anche lui da una briciola di saggezza dei tarli!»

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VECCHIE DOMANDE SUL “NUOVO” NUCLEARE

(articolo pubblicato su Parole in rete nel gennaio 2025)

La nostra generazione ha vissuto nell’età adulta una tremenda tragedia nel corso del Novecento, quando a Chernobyl accadde un tremendo incidente, avvenuto il 26 aprile 1986. Ne fummo profondamente segnati. L’onda emotiva che ne seguì bastò a produrre una vasta consapevolezza circa la pericolosità degli impianti nucleari e la produzione di energie di tipo nucleare. In Italia la conseguenza fu immediatamente registrabile con il risultato dei referendum abrogativi del 1987: si votò allora per cinque referendum, tre dei quali riguardavano il nucleare. In realtà nessuno dei tre quesiti chiedeva l’abolizione o la chiusura delle centrali nucleari, tuttavia in seguito alla vittoria dei «sì» la conseguenza fu, nel nostro paese, la dismissione progressiva delle centrali. I risultati si asseverarono poi, in seguito al referendum del 2011, che prevedeva l’abrogazione delle norme che consentivano la produzione nel territorio nazionale di energia elettrica nucleare. 

Per molti anni presso l’opinione pubblica il discorso sul nucleare è rimasto assopito, senza che molti si rendessero conto di avere a che fare con un enorme serpente arrotolato in apparente condizione di riposo. La dismissione delle centrali ha riguardato peraltro solo l’Italia, mentre i paesi limitrofi hanno finora continuato a produrre, a una manciata di chilometri dalle nostre case, l’energia nucleare. Fatto sta che ora in Italia il dibattito sull’argomento si è riacceso. 

Nel frattempo il modo di produrre energia nucleare è molto cambiato. Ora si assicurano soluzioni efficaci per lo smaltimento delle scorie, che sono divenute riciclabili, a parere dei sostenitori del nucleare. 

Si ha oggi una certa consapevolezza che le energie rinnovabili, quella solare e quella eolica, non sono in grado di coprire il fabbisogno: la produzione è intermittente, in dipendenza da sole e vento ed è indispensabile l’immagazzinamento dell’energia prodotta. Inoltre, ad esempio, il fotovoltaico genera altri problemi-di smaltimento. Ma lo spauracchio che rimane fondamentale è il rischio di proliferazione nucleare. Oggi tuttavia sono presenti in Italia gruppi di fisici e ingegneri convinti che non possa avvenire una transizione energetica senza una stretta collaborazione del nucleare con le energie rinnovabili. Ci spiegano che il nucleare non è, malgrado tutte le nostre percezioni, pericoloso, ci blandiscono narrandoci che le centrali nucleari non esplodono, non possono esplodere: nemmeno il reattore 4 di Chernobyl è esploso, è avvenuta invece un’emanazione di vapore saturo che ha scoperchiato il nocciolo e ha causato una contaminazione radioattiva (non una reazione a catena incontrollabile di fissione). Gli scienziati non possono però non ammettere che una dispersione di radiazioni sia in ogni caso un evento molto pericoloso. Oggi i reattori nucleari in sperimentazione sono di quarta generazione, le centrali sono più piccole e i reattori saranno in grado di ottimizzare i rifiuti del nocciolo del reattore, diminuendone sia la quantità che i livelli di tossicità radiologica.

Nei paesi europei, l’atteggiamento nei confronti del nucleare è duplice e vede i paesi divisi fondamentalmente in due grandi blocchi: quelli a favore e quelli contrari. Tra quelli contrari vi è stata fino a ora, ovviamente, l’Italia, dove le quattro centrali nucleari che erano precedentemente presenti sono state chiuse nel 1987 e da allora non sono state aperte nuove sedi; vi è inoltre la Spagna, dove nel ‘23 è stato previsto lo spegnimento delle cinque centrali operative  – spegnimento che dovrà avvenire entro il 2035;  una situazione simile si verifica anche in Germania, dove nel ‘23 sono stati chiusi gli ultimi tre reattori dopo sessant’anni di attività: la Germania, infatti,  ha deciso di rinunciare all’energia nucleare. Gli Stati Uniti sono il paese che produce fino ad oggi più energia elettrica di origine nucleare, seguono in ordine la Cina, la Francia, la Russia, la Corea del Nord e il Canada. Il Regno Unito possiede 125 reattori nucleari operativi e quindi, in questo senso, precede gli Stati Uniti che ne ha 99; la Francia è il paese al mondo che produce maggiore energia attraverso il nucleare per un totale del 55% di energia. Vi sono programmi in Cina, in Russia, India, Stati Uniti e Paesi di nuova industrializzazione come l’Egitto, la Turchia e gli Emirati Arabi, per la costruzione di nuove centrali nucleari.

Subito dopo il discorso del ministro Pichetto dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, a favore del nucleare, sono intervenute le associazioni ambientaliste, tra cui il WWF Italia, a spiegare come loro ritengano che il nucleare renderebbe ancora più cara l’energia elettrica: bisognerebbe infatti aggiungere i costi di smantellamento delle vecchie centrali nucleari, i costi di bonifica dei siti nucleari contaminati, i costi di gestione dei rifiuti radioattivi generati dalle barre del combustibile nucleare esaurito; inoltre, l’energia elettrica generata con i reattori modulari più piccoli, proposti per l’Italia e che ancora non sono stati costruiti in nessun paese occidentale, costerà di più di quella prodotta dai reattori più grandi; WWF definisce insensato un possibile ritorno al nucleare in Italia, soprattutto perché non terrebbe conto dei pronunciamenti referendari.Anche Green Peace interviene nella discussione e dichiara: «L’energia nucleare ha costi insostenibili, è pericolosa e genera enormi quantità di scorie radioattive che non possiamo smaltire. Solo le fonti rinnovabili possono fermare il cambiamento climatico, fornire energia pulita e porre fine all’incubo nucleare». Rammentano l’incidente di Fukushima seguito a quello di Chernobyl, quando enormi quantità di radiazioni furono rilasciate, centinaia di migliaia di persone furono costrette all’evacuazione, vennero contaminati fiumi e foreste, divennero inabitabili aree estesissime e vi furono danni economici incalcolabili. Dicono: «Incidenti del genere hanno chiarito in modo evidente che questa tecnologia non può essere controllata in caso di catastrofe». Adducono anche ragioni economiche, dichiarando: «A dissuaderci dal ritorno al nucleare dovrebbe bastare il fatto che si è rivelato un fallimento economico sia in Francia sia negli Stati Uniti. I costi dell’impianto francese di Flamanville sono levitati a 19,1 miliardi di euro, invece dei 3,3 miliardi stimati, mentre due dei quattro reattori in costruzione negli USA sono stati cancellati e gli altri due proseguono a costi esorbitanti, da circa 9 miliardi di dollari si è già passati una stima di circa 32 miliardi. Non è andata meglio ai due reattori di Hinkley Point in Gran Bretagna che dovevano costare 18 miliardi miliardi di sterline e oggi sono stimati a 46 miliardi».

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RACCONTO “VIAGGIO DI UN TARLO IN UN’OTTAVA” (settima parte)

(pubblicato su Parole in rete nel dicembre 2024)

Stremato si abbandonò prono su FA. Tutte le membra gli dolevano. Tese le orecchie ai rumori della casa, per ascoltare cosa stesse avvenendo intorno a lui. Tutto taceva. La notte era calata su di lui, sugli altri abitanti della casa, e anche sul pianoforte che lo ospitava. Non si accorse neppure di essere scivolato in un lungo sonno ristoratore. Se ne rese conto solo al mattino, quando la casa si rimise in movimento. L’attenzione di Carlo si era risvegliata con i profumi di caffellatte, con le sveglie che nelle camere da letto avevano suonato, con la luce del sole che aveva raggiunto il pianoforte con il coperchio sollevato. Aveva molto timore. Si tranquillizzò solo quando pensò che tutti gli abitanti della casa fossero usciti. Era una bella giornata luminosa, la superficie delle piattaforme del pianoforte si stava riscaldando al tepore del sole. La stessa piattaforma su cui lui aveva trascorso la notte sembrava brillare alla luce; Carlo notò che era lucida e liscia: molto diversa dal torroncino. 

Mentre si aggirava con cautela sentì che qualcuno infilava la chiave nella toppa. Si irrigidì a causa di una paura mortale e contemporaneamente fece un acrobatico salto all’indietro. Era stata un’azione così rapida e così audace che aveva in un colpo solo saltato la collina nera e raggiunto il tasto del SOL.

«Chi sarà entrato?», si chiese, terrorizzato che potesse trattarsi del restauratore assassino.

Era il giovane maialino di casa che, non abbastanza soddisfatto del panino con nutella che sua madre gli aveva preparato, era tornato indietro per procurarsi anche una scatola di biscotti da portarsi a scuola. Andò direttamente verso la dispensa in cucina. Trovò i biscotti e se li mise sotto braccio. Si avviò verso la porta. Poi cambiò idea ancora una volta. Si diresse nuovamente verso la cucina dove acchiappò un sacchetto di patatine. Decise di strafogarsi subito con le patatine, non visto da sua madre. Per lui però era già troppo difficile tenere i biscotti con una mano e aprire il sacchetto delle patatine con l’altra, così decise di appoggiare da qualche parte la scatola di biscotti. Il pianoforte gli sembrò il luogo ideale. La tastiera era esposta senza coperchio, mollò sopra i tasti i biscotti e si diede da fare a strappare con i denti il sacchetto di patatine: non aveva tempo per fare un lavoro più accurato. Poi piegò la testa all’indietro, spalancò la bocca e lasciò cadere in quel suo pozzo senza fine una considerevole massa di patatine. Per quanto abituato a ospitare in quella sua bocca spalancata dosi spropositate di cibo, questa volta il ragazzino aveva esagerato. Tossì convulsamente, sputacchiò da tutte le parti briciole di patatine, tossì ancora, poi finalmente andò a bersi un bicchiere d’acqua.

Sparate in tutte le direzioni, le patatine si distribuirono equamente fra pavimento, tappeto e, naturalmente, tastiera del pianoforte, dove si erano depositate sotto forma di polvere fra un tasto e l’altro, quasi chiudendo le articolazione dei tasti. Carlo si chiese se altri pianoforti al mondo fossero abituati a simili trattamenti. A lui però non era andata troppo male. Le briciole di patatine avevano praticamente formato un’unica superficie, che comprendeva tasti neri e tasti bianchi. 

SOL si era unito al suo nero diesis, al successivo LA, al LA diesis, raggiungendo anche il SI.

I successi da esploratore avevano ringalluzzito Carlo il Tarlo, che ora era pronto a tirarsela. Ma, siccome proprio sciocco non era, veniva spesso assalito dal dubbio che il cacciatore di tarli tornasse a tormentarlo. Faceva bene a stare all’erta, perché in uno dei giorni seguenti fu costretto a riconoscere la sua voce. Si era presentato alla porta di casa con borse, bauli e bauletti: un’attrezzeria che qualunque artigiano gli avrebbe invidiato.

«Ho portato tutto il necessario con me, signora», sentì che scandiva a alta voce. «Siamo pronti a eliminare i tarli per sempre. Ecco, qui ho l’essenza di permetrina».

Carlo capì subito che quella sostanza era il potente veleno con cui volevano eliminarlo dal pianoforte e forse dalla terra. Non aveva tempo per cercare un nascondiglio adeguato. Scivolò verso una delle voragini che tanto temeva, si aggrappò con le zampe anteriori al piano del tasto e pregò di non essere visto. L’uomo avanzò verso il pianoforte, lo scoperchiò e iniziò con un compressore a soffiare tanta aria nei buchi che il tornado provocato pochi giorni prima dal naso del ragazzino al confronto sembrava un po’ di brezza. Carlo fu tragicamente spinto dai venti del compressore verso il basso, verso il fondo.

Poi l’uomo cominciò a infilare una siringa puzzolente nei cunicoli dove lui fino a qualche tempo prima aveva vissuto. Agiva meticolosamente, cercando di fare in modo che nessun buco gli sfuggisse. Allora, come non bastasse, con cera e spatola chiuse tutti i cunicoli. Infine impacchettò tutto il pianoforte in una pellicola di plastica trasparente:

«Se qualche tarlo è rimasto vivo, privandolo dell’aria domani non lo sarà più», sentì che diceva. Aggiunse: «Se lei avesse qualche dubbio sui risultati del trattamento, sappia che abbiamo una macchina portatile per cuocere i tarli al microonde».

Fu solo allora, all’idea di essere cotto al microonde, che Carlo si sentì morire. Non riusciva più a respirare. Per la paura? Per la reale mancanza d’ossigeno? Pensò che la sua vita sulla terra del pianoforte era finita per sempre, il suo tempo era finito per sempre. Non era sicuro di aver fatto tutto ciò che in questa vita avrebbe potuto fare. La vita sfuggiva e a lui sembrava di esservi solo affacciato, non gli pareva di aver completato la sua esperienza. Era davvero tutto finito?

L’uomo aveva completato il suo lavoro da killer. Aveva rimesso in ordine i suoi attrezzi e se ne stava andando. La signora aveva pagato l’uomo per il suo drastico intervento, ora si attardava a confabulare ancora un po’ con lui sulla soglia, mentre lo accompagnava; non visto il giovane Homer di casa si avvicinò quatto quatto al pianoforte. Non voleva farsi vedere da sua madre, che come sempre l’avrebbe sgridato.

«A proposito, signora», stava aggiungendo l’uomo «non lasci banchettare suo figlio sul pianoforte: c’era di tutto in quei tasti, dalle patatine alla cola. Lo credo che poi arrivino i tarli».

Le ultime parole non erano piaciute per niente al ragazzino, che pensava: «Di cosa si impiccia, quello?» E fu preso da un moto di rabbia. Così strappò il foglio di plastica trasparente, infilando un dito dentro, e lasciò allo scoperto un angolo della tastiera.

L’aria raggiunse il povero coleottero nel momento in cui aveva quasi perso conoscenza.

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AUDIO RACCONTO “VIAGGIO DI UN TARLO IN UN’OTTAVA” (settima parte)

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TUTTO È NATO DA UN LABORATORIO

(articolo pubblicato su Parole in rete nel dicembre 2024)

Sono 520 le pagine del rapporto uscito nel mese di dicembre del Select Subcommittee on the Coronavirus Pandemic, che ha lavorato negli Stati Uniti per comprendere origini, cause, andamento e esiti della pandemia che ha colpito il mondo negli anni trascorsi. S’intitola After Action Review of the Covid-19 Pandemic: The lessons Learned and a Path Forward: è reperibile in Rete.

La Commissione ha tratto alcune conclusioni piuttosto sconvolgenti, non già perché non fossero state formulate in forma ipotetica, ma perché ora tutti quelli che venivano definiti sospetti di natura complottistica sono stati confermati sul piano della realtà. 

Vediamo i punti principali del documento.

È stato confermato che il virus COVID-19 possiede delle caratteristiche biologiche non reperibili in natura. I dati esaminati dimostrano che tutti i casi di COVID sono derivati da una singola  – una sola – introduzione negli esseri umani e ciò risulta essere in contrasto con tutte le precedenti pandemie in cui si erano verificati una serie di eventi di spillover. Wuhan ospitava il più importante laboratorio cinese di ricerca sulla SARS e i livelli di biosicurezza erano inadeguati. I ricercatori del Wuhan Institute of Virologi (WIV) si sono ammalati di un virus del tutto simile al COVID-19 nell’autunno del 2019, vale a dire alcuni mesi prima che il COVID venisse scoperto al mercato ittico. Nessuna prova esiste circa un’origine naturale della pandemia. 

Nel documento si fa ripetutamente riferimento all’operato del dottor Fauci, il quale lungamente ha promosso la narrazione sua preferita secondo cui il COVID aveva avuto origine in natura. 

Anche l’OMS viene preso di mira perché il suo operato è stato un fallimento assoluto, avendo anteposto alcuni interessi politici ai suoi doveri internazionali. 

Quanto alla raccomandazione che era stata operata di distanziamento sociale (sei piedi di distanza) che aveva fatto sì che si determinasse la chiusura delle scuole e delle attività commerciali in tutto il paese, essa è stata giudicata «arbitraria e non basata su evidenze scientifiche».

Sull’argomento dei  lockdown prolungati, essi «hanno causato danni incommensurabili all’economia americana ma anche alla salute mentale e fisica degli americani con un effetto particolarmente negativo sui cittadini più giovani. Invece di dare priorità alla protezione delle popolazioni più vulnerabili, le politiche del governo federale e statale hanno costretto milioni di americani a rinunciare a elementi cruciali di una vita sana e solida finanziariamente». 

Il documento interviene anche su quello che fu l’uso obbligatorio delle mascherine e si dice che in realtà non vi era nessuna prova che le mascherine proteggessero efficacemente gli americani dal COVID.

La comunicazione attorno al COVID-19 è stata giudicata fallace poiché i funzionari pubblici hanno diffuso disinformazione attraverso messaggi contrastanti, alcune reazioni impulsive e una diffusa mancanza di trasparenza. Si dice esplicitamente che la teoria della fuga dal laboratorio era stata ingiustamente demonizzata dal governo federale. 

Veniamo ora ai vaccini; nel documento si incoraggia un rapido sviluppo di un efficace vaccino contro il COVID che possa contribuire a salvare tante vite,  d’altra parte, tuttavia, si sottolinea come il vaccino che è stato utilizzato non abbia affatto fermato la diffusione e la trasmissione del virus. Si sottolinea inoltre che esso è stato imposto dal governo. Si aggiunge che gli obblighi vaccinali non erano supportati dall’evidenza scientifica e hanno certamente causato più danni che benefici; obbligando la popolazione a sottoporsi al vaccino sono state calpestate le libertà individuali ed è stata ignorata la libertà medica di ogni individuo di scegliere per sé, senza che vi fossero prove sufficienti a supportare le decisioni politiche prese.

A causa della chiusura delle scuole gli allievi hanno sperimentato una grave perdita storica di apprendimento, un aumento dei casi di disagio psicologico, un calo del benessere psicofisico in generale, mentre la scienza in realtà non ha mai giustificato le chiusure prolungate delle scuole.

Tra le conseguenze più gravi vi sono naturalmente quelle economiche: la pandemia ha avuto un impatto devastante sull’economia globale, migliaia di aziende sono state costrette a chiudere, alcuni settori hanno subito maggiormente di altri dei danni piuttosto gravi, milioni di persone a causa della gestione errata della pandemia hanno perso il lavoro.

Una delle principali conclusioni del rapporto riguarda la gestione delle risorse sanitarie a le gravi inefficienze nel sistema sanitario e soprattutto nella gestione dei fondi. Viene puntualizzato che le risorse sono state gestite male, non sono state monitorate a dovere, sono state distribuite in modo inefficiente, in modo tale da contribuire a creare delle frodi, sono stati realizzati degli sprechi ingenti e in tal modo è stata deteriorata la fiducia del pubblico nelle istituzioni sanitarie.

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TU VUÒ FA L’AMERICANO

(articolo pubblicato su Parole in rete nel dicembre 2024)

Lo slogan dell’erede della famiglia Kennedy, scelto da Trump per far parte del governo, è ora «Make America healthy again», «Riportare l’America di nuovo in salute».

Ma come lo farà? Mangiando hamburger e bevendo Coca-Cola, e dunque implicitamente invitando gli altri a fare allo stesso modo? Sì, è vero che dopo essere stato immortalato in una storica foto scattata su un jet con Trump e Musk ha subito precisato che sarebbe stato l’ultimo pasto con junk food, prima di dar corpo al nuovo piano per la salute: del resto chi di noi riesce a sottrarsi al cibo spazzatura dal momento che nessuno di noi è in grado di sfuggire al globalismo alimentare?

Nel comunicato con il quale il 14 novembre Trump ha conferito l’incarico a Robert Kennedy come Capo Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani ha dichiarato di desiderare garantire per tutti la protezione da sostanze nocive, prodotti farmaceutici nocivi, pesticidi, additivi alimentari che hanno portato gli americani a essere malati o potenziali malati, spesso obesi. Come arrivarci sarà un problema di Kennedy, che in quella foto dà la sensazione di chi sia molto preoccupato e si renda conto di non aver cominciato troppo bene: forse si domanda come raggiungere il proprio obiettivo, in dissonanza con la presentazione della tavola imbandita sull’aereo con hamburger, patatine e coca-cola.

Del resto, che cosa potrebbe rappresentare gli USA nel mondo più di hamburger e patatine? Ma gli emblemi non diventano tali senza prima essersi radicati profondamente nella cultura di un popolo, occupandone capillarmente testa cuore e intestino. 

Trump ha dichiarato di Kennedy che egli «contribuirà a riportare l’America in salute; è un uomo eccezionale e si impegna veramente». Da parte sua Kennedy ha detto che gli Americani «sono stati schiacciati dal complesso alimentare industriale e dalle aziende farmaceutiche che hanno ingannato e dato informazioni errate sulla salute pubblica». Ha anche affermato che il Dipartimento della Salute (HHS) svolgerà un ruolo importante nel ripristinare una giusta linea di pensiero e di azione nella ricerca scientifica «per porre fine al dilagare di malattie croniche e per rendere l’America di nuovo grande e sana». 

Sono parole che ci piacciono, che piacciono a quella parte di tutti noi che ancora si ostina a credere in un mondo migliore. E non solo per l’America. 

Dice Kennedy: “Quando mio zio era presidente il 6% dei nostri figli aveva una malattia cronica, oggi sono il 60%; il 3% era obeso, oggi il 70%». La situazione è poco dissimile da altre, comprese la nostra: non occorre essere complottisti per avere ormai un’idea chiara dei danni procurati dai nostri vaccini, delle disinformazione ricevute, delle imposizioni basate su falsità, imposte nel periodo COVID, delle terrorizzazioni subite. In fondo, non dispiacerebbe nemmeno a noi ricevere parole di rassicurazione circa un futuro di politiche sanitarie rivolte al bene dei cittadini. Non ci rimane che augurarci che il lavoro di Kennedy possa seguire il flusso delle intenzioni dichiarate. 

Intanto, sul piano personale, per tutti noi è difficile disancorarci dalle nostre pessime abitudini di uomini frettolosi, piuttosto viziati … e molto condizionati. Molti di noi ricercano nel cibo alto contenuto di zuccheri, elementi che forniscono un alto livello di energia a breve termine e un nutrimento piuttosto basso: adorato junk food! Spesso junk Food e fast-food trovano reciproca alleanza: quando una preparazione veloce (e un consumo veloce) si alleano alla bassa qualità il disastro si potenzia, soprattutto se si aggiunge nel junk food la presenza, oltre a quella dei grassi, di coloranti e di edulcoranti di vario genere, di conservanti chimici, di esaltatori del gusto, di calorie,  mentre nel contempo si depotenzia il cibo di fibre, di vitamine, di proteine di buona qualità, vegetali e minerali. E il junk food, si sa, crea dipendenza, oltre a gravi forme di malnutrizione. Anche noi italiani non ne possiamo fare a meno, e annoveriamo nel gruppo degli elementi sbagliati certe pizzacce industriali di bassa lega. 

Tuttavia va detto che rimane l’America lo stomaco pulsante del cibo spazzatura, perché lì è stato inventato e poi prodotto industrialmente in serie. Poi si è esteso in tutto il mondo sotto forma di merendine, crackers, bibite gasate, snack, pop-corn, semi dolcificati, caramelle, dolciumi … 

Il cibo spazzatura ci domina, ci possiede, semplicemente perché soddisfa il palato, e ci spinge così a ripetere l’esperienza del senso di appagamento e di gratificazione, che ci rende euforici e ci fa rilasciare la dopamina conseguente all’esperienza piacevole, ma tra l’altro è in grado di alterare il nostro senso di pienezza, spingendoci verso la ciotola come fossimo un Labrador. 

Se davvero l’America iniziasse una strada di miglioramento sul cibo gli effetti si potrebbero percepire presto in tutto il mondo!

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AUDIO RACCONTO “VIAGGIO DI UN TARLO IN UN’OTTAVA” (sesta parte)

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RACCONTO “VIAGGIO DI UN TARLO IN UN’OTTAVA” (sesta parte)

(articolo pubblicato su Parole in rete nel dicembre 2024)

Carlo era contento che il suo potenziale assassino se ne fosse andato, ma restava in grande agitazione. Cercò di calmarsi.

«Farò così», si disse, «farò finta di essere ancora una larva, quando vivevo nelle profondità delle gallerie. In fin dei conti in una fase della mia vita io ho conosciuto questa condizione: sono esistito allo scuro, al buio, nelle profondità del legno. Ora penserò così: io sono in grado di affrontare questa situazione. Ce la farò». Con la forza della disperazione si aggrappò con tutte le sue zampe sui bordi lisci della voragine e provò a affrontare la risalita. Secondo i suoi calcoli, se si teneva verso monte, a un certo punto avrebbe dovuto trovare le sponde della piattaforma nera: anche fra DO e RE, e poi fra RE e MI aveva trovato una piattaforma nera.

Ma quella piattaforma, questa volta, ci sarebbe stata? Si sarebbe profilato un pezzo di terra provvidenziale che l’avrebbe accolto come un naufrago? Giungere fino alla terra successiva, date le condizioni in cui si trovava, sarebbe stato davvero arduo. Era stanco, stanchissimo, spaventato, deluso dal comportamento degli uomini. E soprattutto, si sentiva tanto solo. Iniziava a dubitare delle sue forze, Peggio: dubitava di aver davvero voglia di vivere. Dubitava di voler partecipare a quel mondo che l’aveva messo in queste dure condizioni. Pensò a sua madre, in cerca di conforto. Ma ora neanche quel pensiero riuscì a aiutarlo. Allora, Carlo il tarlo pianse.

Piangeva così disperatamente che non gli importò un bel nulla quando sentì il ragazzino avvicinarsi a quello che quei due chiamavano pianoforte. Percepì che il ragazzino cercava la sua presenza fra gli anfratti. Non si chiese se era per curiosità o perché volesse dargli la caccia. Mani Impiastricciate, tanto per cambiare, teneva in mano un cono gelato, con torroncino e cioccolato. Lo leccava rumorosamente, ma lo inclinava pericolosamente verso le piattaforme, finché una bella noce di gelato cadde, infilandosi fra una piattaforma e l’altra. Si infilò anche nella fessura dove si trovava Carlo. Lì, per sua fortuna si incuneò la parte di squisito torroncino, piena di granellini macinati non troppo finemente. Carlo fu tentato di dargli un’assaggiatina: che bella consistenza, pensò, questa materia granulosa, questi corpuscoli legnosi così saporiti. Ma non li lasciò tentare a continuare nei suoi assaggi. Gli era sopravvenuta l’idea che quei minuscoli corpuscoli che si erano incastrati nelle fessure fra le piattaforme avrebbero potuto aiutarlo nella sua risalita. Forse avrebbe potuto usarli come gradini.

Raccolse le sue ultime forze e, aggrappandosi ai minuscoli granelli di torroncino, intraprese la scalata, deciso a riuscirci. Una voce interna lo guidava: «Forza, Carlo, fai così; fa’, Carlo, fa’; Forza, Carlo, fa… fa…». Quando finalmente giunse, baciò la terra che l’aveva accolto. 

La chiamò FA.

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ELEGIA PER UN’APE

(articolo pubblicato su Parole in rete nel mese di dicembre 2024)

È ormai una quindicina d’anni circa che apicoltori e scienziati segnalano la progressiva diminuzione del numero delle api e delle colonie: troppi pesticidi hanno inquinato i territori, una serie di attacchi di altre specie e una lunga fila di patogeni hanno creato grandi problemi; sappiamo dell’importanza delle api negli ecosistemi naturali perché esse sono implicate nell’impollinazione delle piante spontanee. La riproduzione di alcune specie sia alimentari sia non alimentari dipende esclusivamente da questi insetti. Se le api, tutte le api scomparissero, avremmo un effetto drammatico sull’ambiente, così come oggi è conosciuto, e si arriverebbe addirittura, forse, alla progressiva scomparsa delle piante.

Ma qui, ora, per quanto le api ci siano molto care, non ci occuperemo di questi insetti nel loro complesso, ma desideriamo lamentarci un po’, esercitando l’arte del piagnisteo, per la scomparsa di un’ape in particolare.

È proprio vero che gli insetti ce li vogliono solo fare mangiare: quando ne gira uno che ci piace, è utile, costituisce un pezzo importante della nostra storia, ecco che ce lo portano via. Così l’Ape su tre ruote se ne va a farsi costruire in India, dopo 76 anni di presenza sul suolo italico. Una piccola perdita, forse un’inezia nel panorama generale dei disastri planetari. Certo, eppure ecco un ulteriore segnale di un mondo che finisce. 

Che cos’è un’ape rispetto alle auto a guida completamente automatizzata? Eppure…

Progettata dall’ingegnere aeronautico Corradino d’Ascanio come motofurgone derivato da uno scooter  (lo stesso ingegnere aveva inventato anche la Vespa) ora verrà fabbricata solamente in India per il mercato locale e per quello africano. 

Nacque nel ‘48 nella nostra Italia stremata dalla guerra, povera di mezzi, divenendo presto un’icona, l’ideale rappresentante di una cultura e di un’operosità di un Paese che voleva rinascere, non solo in campagna. 

Oggi, rimasti orfani a causa delle normative europee stringenti, non ci rimane che dedicarci, con tono misto e sognante, a un po’ di sfogo sentimentale per il mondo che stiamo perdendo.

Elegia per un’ape, per un Ape

Oh, veicolo caro ai campi, alle piazze e ai cuori,
mitico ronzio che tra le colline vibrava,
là, dove il sole d’Italia splendeva sui borghi,
oggi ti sposti lontano, tra genti e terre straniere.

Non più le mani operose di Pontedera ti forgiano,
ma altri cieli t’attendono, indomite strade.
Resti memoria d’un’era, d’un sogno italiano,
piccola Ape, nei cuori per sempre sarai.

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L’EMERGENZA CLIMATICA È FINITA!

(articolo pubblicato su Parole in rete nel dicembre 2024)

Nel 2019, l’ingegnere danese Guus Berkhout ha dato vita insieme con il giornalista scientifico Marcel Crok a un’organizzazione denominata Clintel, una fondazione cui partecipano scienziati di livello mondiale, che esprime profondo dissenso verso la natura antropica del riscaldamento globale. Recentemente, in novembre, il Climate Intelligence Group (Clintel) ha tenuto una conferenza internazionale sul clima presso la sede del Parlamento ceco. Al termine dell’evento (14 novembre) hanno dichiarato ufficialmente conclusa l’emergenza climatica. 

Può sembrare una dichiarazione shock ma gli eminenti scienziati, in numero di 1961, ritengono che sia esagerata l’importanza che il pensiero unico climatico ha espresso attorno alla questione della CO2 e della sua influenza sulla temperatura globale. 

La dichiarazione in proposito è forte, dicono: «Il gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici, che esclude partecipanti e titoli pubblicati in disaccordo sulla sua narrazione, trae conclusioni alcune delle quali sono disoneste e dovrebbe essere immediatamente smantellato». 

Anche la conclusione è stata piuttosto scioccante; l’incontro infatti è terminato con un invito altrettanto forte rivolto alla comunità scientifica a cessare la persecuzione nei confronti degli scienziati in disaccordo con la narrazione ufficiale sui cambiamenti climatici e a incoraggiare al contrario la «lunga e nobile tradizione di ricerca, indagine, pubblicazione e discussione scientifica libere aperte, senza censura». 

Ma andiamo per ordine. Numerosi sono stati gli argomenti discussi durante gli incontri: le osservazioni metereologiche e climatologiche, i processi fisici che influenzano il clima; il rapporto fra il Sole, i pianeti e il clima, gli sviluppi climatici futuri.

Le conclusioni ribadiscono che il clima della Terra è variato da quando esiste il pianeta, con fasi naturali fredde che si alternano a quelle calde. Non ci dobbiamo sorprendere se oggi stiamo vivendo un periodo di riscaldamento, dal momento che l’ultima Piccola Era Glaciale è terminata solo nel 1850.

«La politica climatica», dichiarano, «si basa su modelli inadeguati. Essi hanno molte carenze e non sono minimamente plausibili come strumenti di politica globale. Ingrandiscono l’effetto del gas serra come la CO2, mentre ignorano il fatto che arricchire l’atmosfera con CO2 è benefico». Infatti sappiamo bene che la CO2 è la base di tutta la vita sulla terra nonché il cibo delle piante: nozioni elementari che tuttavia le politiche ufficiali vogliono ostinatamente ignorare. Clintel ribadisce: «La CO2 non è inquinante. È essenziale per tutta la vita sulla terra. La fotosintesi è una benedizione. Più CO2 è benefica per la natura perché rende verde la terra. La CO2 ha promosso la crescita della biomassa vegetale globale. È buona per l’agricoltura, aumenta le rese delle colture il tutto il mondo»

Importantissima è anche la puntualizzazione che non ci sono prove attorno all’affermazione che il riscaldamento globale stia intensificando uragani, inondazioni, siccità, e altri simili disastri naturali. Gli scienziati di Clintel si oppongono pienamente alla politica dannosa e «irrealistica»,  secondo la loro stessa definizione, di zero emissioni nette di CO2 proposta per il 2050.

La dichiarazione mondiale sul clima è stata firmata dal premio Nobel Dott John F. Clauser. Hanno partecipato all’evento molti paesi dall’Africa, dall’Asia, dall’America del Nord, dall’Oceania e dell’Australia,  della Nuova Zelanda, dal Sudamerica. Erano presenti dall’Europa, (dall’Est): Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Romania, Serbia, Slovenia, Ucraina. Dal Nord: Danimarca, Estonia Finlandia, Norvegia, Svezia. Dal Sud: Cipro, Grecia, Italia, Malta, Portogallo, Spagna, Turchia. Dall’Ovest: Austria, Belgio, Francia, Germania, Islanda, Irlanda, Svizzera, Paesi Bassi, Regno Unito.

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NUOVI CANTIERI DI BAMBINI

(articolo pubblicato su Parole in rete nel novembre 2024)

La Legge italiana n. 40/2004 che riguardava le norme in materia di procreazione medicalmente assistita proibiva e puniva, con reclusione da tre mesi a due anni, e con una multa da 600.000 a un milione di euro, sia il commercio di gameti e embrioni, sia la surrogazione di maternità. Ora, nel 2024, il nostro Senato ha approvato in maniera definitiva il disegno di legge che definisce la maternità surrogata “reato universale”. Personalmente la legge riscuote tutta la mia approvazione, perché ritengo la pratica dell’utero in affitto una barbarie. 

Da ora gli Italiani non avranno più modo, seguendo i principi espressi dalla legge, di ricorrere alla pratica dell’utero in affitto rivolgendosi all’estero a madri surrogate, perché la proibizione è divenuta “universale”.

Che cosa si intende per utero in affitto credo sia chiaro a tutti:  coppie che ambiscono a divenire genitori perché in condizioni di sterilità (coppie formate da elementi dello stesso sesso, dunque biologicamente impossibilitate e generare,  o di sesso complementare, ma sterili) talvolta acquistano ovuli, o spermatozoi, o entrambi, praticano la fecondazione in vitro, cui fanno seguire la l’impianto in un utero femminile (vero) appartenente a una donna (reale), che presta il proprio corpo alla pratica. Usare il verbo prestare è un’eufemia, perché nella quasi totalità dei casi la madre surrogante, portatrice in utero della gravidanza, si presta perché ha prima firmato un contratto che stabilisce il suo prezzo per il servizio, il prezzo complessivo delle spese (per gravidanza, parto), il prezzo del nascituro, che viene pertanto venduto. Solitamente se, durante la gravidanza, il feto risulta in qualche nodo fallato, non conforme alle condizioni di normalità espresse dalle aspettative dei committenti (vale a dire i compratori del futuro nascituro), clienti della transazione commerciale, esso viene eliminato senza ulteriori ripensamenti.

Se la nascita è regolare, la madre surrogata deve abbandonare la creatura che ha portato in seno e deve consegnarlo al momento della nascita stessa agli utenti che l’hanno prezzolata e che nel contempo pagano per la merce ottenuta, cioè il bambino.

La mercificazione eugenetica di gameti maschili e femminili qui, con l’atto della consegna dell’essere umano (in questo caso equiparato a cosa, a oggetto di mercificazione, si conclude). Di tutta la parte legata alla salute del neonato e della madre, fisica e psicologica, di tutta la parte legata alle emozioni, ai sentimenti, alla stretta relazione tra la donna che ha portato una gravidanza e dell’oggetto… scusate, della creatura da lei prodotta… non frega niente a nessuno: la transazione finisce qui.

La donna, che è diventata gestante per necessità di denaro, ha terminato la sua funzione commerciale. Il cucciolo, a differenza di qualsiasi cucciolo animale, viene letteralmente strappato dalle braccia della madre: quando invece si tratta di cani e gatti o di altri cuccioli domestici, si ha la pazienza di attendere che siano svezzati.

La pratica abominevole, è spesso etichettata dalla neolingua sotto la dizione di “maternità surrogata” o “gestazione per altri” in modo da rendere più neutrale a accettabile la pratica di fabbricazione del bambino, per il fatto che le espressioni edulcorate non richiamano immediatamente alla mente l’aspetto degli interessi economici e commerciali che comporta, né rivelano esplicitamente l’aspetto di schiavizzazione e di sfruttamento del corpo della donna nel nostro millennio. Queste donne, infatti, non sono affatto animate da impulsi mistici sacrificali, sono invece spinte dalla povertà e dalla necessità di beni materiali.

Malgrado il lavoro di comunicazione che si è fatto attorno a questa pratica aberrante, per cercare di normalizzarla, non perde la sua ripugnanza: non è una accettabile scelta individuale e personale di donne che esercitano la loro libertà di arbitrio; è al contrario una forma di abnorme oppressione.

La pratica dell’utero in affitto adombra lo spettro di altre pratiche eugenetiche, tali da offrirci altri brividi di disgusto, come la scelta à la carte di ovuli ed embrioni, accuratamente selezionati. Si vogliono solo ovuli e spermatozoi di donne e uomini belli, altrimenti, come siamo del resto abituati dalle vendite on line, il pacco/bambino può essere respinto come un reso: un oggetto reso, una cosa respinta: la vita stessa è ridotta a semplice res.

Ma non preoccupiamoci più di tanto per l’utero in affitto: la scienza odierna sta già ponendo rimedio, vuole superare i limiti etici posti dall’utero in affitto, sperimentando profusamente e pare con successo il germogliare della vita prima concepita in provetta, o poi sviluppata in uteri interamente artificiali. Gli esperimenti avvengono nel mondo, ma forse vale la pena di ricordare che in Europa esiste una Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea (Gazzetta Ufficiale della Comunità Europea 18/12/2000) che sancisce nel III articolo il «divieto delle pratiche eugenetiche», il «divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro», il «divieto di clonazione riproduttiva degli esseri umani».

Il pensiero non può che andare ad Aldous Huxley e al suo romanzo Il mondo nuovo che fin dal I capitolo ci immette nei segreti del “Centro di incubazione e di condizionamento di Londra Centrale”, dove veniamo accompagnati in visita, attraverso la Sala di Fecondazione, poi fra gli Incubatori di Ovuli; possiamo leggere sui flaconi tutti i dati, la discendenza, la data di fecondazione; infine arriviamo alla Sala di Predestinazione Sociale. Ogni particolare viene descritto nel racconto: il funzionamento della circolazione sanguigna materna, ovviamente artificiale e via via quello di tutti i meccanismi cooperanti per arrivare al prodotto finito, il bambino. È fuori discussione che nella condizione artificiale descritta ogni atto naturale è inesistente: non si verifica atto sessuale, né gravidanza né parto naturali: grandi seccature per l’umanità! Siamo invece di fronte a una serie di procedure asettiche, innaturali, non-umane: la perfezione del processo di disumanizzazione e di reificazione dell’umanità che alcuni, nella realtà, sembrano desiderare.

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RACCONTO “VIAGGIO DI UN TARLO IN UN’OTTAVA” (quinta parte)

(articolo pubblicato su Parole in rete nel novembre 2024)

Il cuore cominciò a battergli in petto forsennatamente, perché sentiva che la solita famiglia si stava di nuovo avvicinando a lui. Le volte precedenti erano per lui state una vera disgrazia: gli avevano rovesciato la cola addosso, rendendolo colloso e impiastricciato, avevano minacciato di cavarlo dalla sua galleria con un uncino, avevano provocato una vibrazione sonora così potente e fastidiosa da sradicarlo dal suo mondo, avevano provocato un funesto uragano che l’aveva trascinato in un luogo sconosciuto.

«Che cosa accadrà ora?»

La madre dello zuccheroso parlava con qualcuno, un uomo, avvicinandosi a lui. Ecco di nuovo il cielo scoperto, e poi:

«Ho scoperto che all’interno del pianoforte ci sono dei tarli. Mi sono accorta che sui martelletti si vedono delle gallerie con dei piccoli fori; so che quando si vedono i fori il danno è già avvenuto, l’insetto è già uscito fuori. Se non sto attenta in breve tempo avrò tutto il pianoforte infestato dai tarli!»

«Ha ragione a preoccuparsi, signora. E ha fatto bene a chiamare la nostra ditta di disinfestazione: siamo i migliori sul campo. Nessun tarlo sfugge alla morte quando arriviamo noi».

Al sentire queste parole Carlo fu preso dal terrore. 

«Non ce l’avranno con me? O santo cielo, come è possibile che mi considerino un nemico: io sono nato qui, questa è casa mia, il mio paese, la mia patria; che cosa ho mai fatto io di male?», si disse fra sé, colto da una immensa paura. Era indeciso se nascondersi come meglio poteva o farsi avanti, palesarsi ai due umani che stavano parlando di lui, per mostrare loro che lui era innocuo, non era un loro nemico. Siccome Carlo era un tipo coraggioso optò per la seconda scelta. E impavidamente si fece avanti. Non per attaccare, naturalmente: solo per evidenziare la propria totale, definitiva innocenza. Stava addirittura per mettere le “mani in alto” quando ebbe un presentimento. Questa intuizione gli salvò la vita. Anziché alzare le èlitre le portò verso il basso, racchiudendole più che poteva attorno all’addome. Mentre l’uomo stava calando le sue pesanti manacce callose su di lui, come una mannaia, per mettere fine alla sua vita, lui si strinse tutto. Senza pensarci Carlo si buttò alla sua destra e quella profonda apertura, quella caverna da cui aveva tanto temuto di essere inghiottito, lo accolse mentre precipitava.

Quanto fosse profonda la spelonca, quanto lungo il suo salto verso il basso, non avrebbe mai potuto calcolarlo, perché mentre precipitava si sentì venire meno.

«Non puoi abbandonarti alla morte», borbottò una voce dentro di lui. Carlo si lasciò scivolare, ma cercò di non perdere coscienza. Le voci delle persone ora erano più attutite, ma poteva ancora percepirle dal fondo del precipizio:

«Ha visto? Ha visto? Ne avevo quasi acchiappato uno; eh, ma se ce n’è uno significa che sono a decine: bisogna eliminarli senza pietà, altrimenti sa che fine farà il suo pianoforte?», diceva l’uomo.

La donna confermava: «Non intendo badare a spese: mi salvi il pianoforte».

«Io non morirò, io non morirò», si ripeteva intanto Carlo, come una litania. Lo faceva per darsi coraggio, ma anche perché la sua mente non fosse sopraffatta da pensieri negativi, Sentiva che se si fosse abbandonato al pensiero della morte, ciò sarebbe davvero potuto accadere. Lui invece avrebbe pensato di essere invulnerabile.

«Ce la farò, verrò fuori di qui», si disse, «io vivrò. Io troverò il modo di risalire da questo baratro».

«Dovrò controllare i vari pezzi del pianoforte, a uno a uno», disse l’uomo che ce l’aveva con Carlo. Tutti i fori saranno messi allo scoperto, saranno trattati, disinfestati, curati, richiusi, e lei avrà di nuovo il suo pianoforte come nuovo», affermò l’uomo.

La donna, con un sospiro di sollievo, si stava allontanando verso la porta, per congedare il restauratore di mobili antichi.

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RICORDARE FA MALE?

(articolo pubblicato su Parole in rete nel novembre 2024)

Appena qualche giorno fa è caduto l’anniversario di uno fra gli episodi più tristi e più gravi della storia della città di Torino. Al trasferimento della capitale del Regno Sabaudo da Torino a Firenze è legato un episodio davvero ignobile, che va sotto il nome di “Strage di Torino”, avvenuto nel 1864: le date sono 20, 21, 22 settembre. Lo si rammenta davvero troppo poco.

Presidente del Consiglio era in quel momento l’ancora odiatissimo (dai torinesi) Mario Minghetti, che firmò le disposizioni del trasferimento della capitale a Firenze; lo stesso Re Vittorio Emanuele II ne fu informato successivamente ed ebbe una reazione disgustata. In una lettera inviata da Visconti Venosta a Costantino Nigra si legge, a proposito della reazione del re, che l’apprese «non solo con ripugnanza, ma con dolore».

Quando si diffuse la notizia della decisione del trasferimento, il giorno 20, la gente scese in piazza (cinque o seimila persone) per manifestare il profondo dissenso. La folla si riversò nuovamente in strada il giorno 21, poi, il giorno successivo, 22 settembre,. In quei giorni avvenne una delle più ignobli azioni dell’Arma dei Carabinieri: fu ordinato agli Allievi Carabinieri di caricare la folla e di sparare.

Il numero dei morti dichiararti ufficialmente fu nettamente inferiore a quello reale. Seguirono due inchieste amministrative, un’istruttoria giudiziaria, un’inchiesta militare, e si formò una commissione d’inchiesta voluta dalla Camera. Con quale risultato, possiamo ben immaginare…  A dire tutta la verità solo l’inchiesta militare produsse qualche risultato e si concluse con la condanna di fronte al Tribunale Militare dei carabinieri presenti in piazza Castello il 21 settembre, e con l’avvio al Tribunale Ordinario di quelli presenti in piazza San Carlo il 22 settembre. Poi, silenzio. Così si legge nella corrispondenza De Sanctis: «È una pagina di storia che bisogna affrettarsi a obliare». Già, obliare: chi ricorda oggi la strage di Torino? Solo una lapide in piazza S. Carlo commemora le vittime. Da tanti, tanti anni, nessuna commemorazione.

È un triste episodio con cui si concluse per Torino (e forse non solo) il processo dell’unificazione della Penisola e di costruzione del Regno d’Italia, parte importante della storia di Torino. Il Risorgimento è stato oggetto di una narrazione ufficiale contro la quale si sono schierate, negli ultimi 60/70 anni, idee alternative, oppositive e fortemente critiche. Al di là di alcune interpretazioni sensazionalistiche e di una rilettura piuttosto provocatoria, fondata su valori neoborbonici, che rifiutano la condivisione dei valori del processo di unificazione della nostra Nazione (e naturalmente del Risorgimento), di cui la città di Torino fu centro propulsore e attore primario, dobbiamo riconoscere che la visione storica proposta da oltre centocinquanta anni pecca, oltreché in profusione eccessiva di dati retorici, di mancanza di analisi delle complicate dinamiche del processo della nostra unificazione. Spesso il revisionismo di stampo borbonico si è fondato su racconti privi di fondamento storico, di aneddoti spesso inventati, riferiti da personaggi poco alfabetizzati, spesso uomini della strada con opinioni personali molto ostinate ma poco veritiere: insomma pseudo-verità del tipo “me l’ha detto mio cuggino”.  Per contro abbiamo ormai certezza che a Torino Cavour coltivasse ottime relazioni con l’élite finanziaria francese e con quella britannica, desideroso di allineare ad essi, modernizzandolo, il Regno Sabaudo. Forte degli accordi segreti di Plombières (che prevedevano l’aiuto francese in caso di attacco del Regno Sabaudo da parte dell’Austria) arrivò a provocare l’Austria portando truppe consistenti al confine (II Guerra d’Indipendenza). Coltivò rapporti con Londra, che aveva l’obiettivo di controllare e dominare il Mediterraneo, oltre a quello di opporsi al suo maggior competitore nel Mediterraneo, rappresentato dal Regno delle Due Sicilie – tra l’altro preda ambita per la presenza di miniere di zolfo utile per la polvere da sparo.

Ebbe così inizio una congiura internazionale, un vero atto di pirateria per spazzare dalla scena il Regno delle Due Sicilie. Fu istituito un fondo per supportare finanziariamente la spedizione dei Mille, che la storia ufficiale ha poi sempre rappresentato come storia epica: in realtà nulla vi fu di improvvisato né di spontaneo e, sebbene molti ideali patriottici furono autentici, essi vennero strumentalizzati ed eterodiretti. La spedizione di Garibaldi si avvalse di un ingente finanziamento, di una accuratissima organizzazione militare, che prevedeva una vasta rete di complicità massoniche, vaste corruzioni di uomini/chiave dei Borboni, nonché il reclutamento, per combattere a fianco di Garibaldi, di mercenari da tutto il mondo.

In seguito alla realizzazione dell’unificazione, come sappiamo, Torino divenne Capitale. Lo fu per poco.

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RACCONTO “VIAGGIO DI UN TARLO IN UN’OTTAVA” (quarta parte)

(pubblicato su Parole in rete nell’ottobre 2024)

Quando si rese conto di essere giunto sulle sponde della terra vicina, era senza parole. Tuttavia:

«Non sono morto», disse fra sé e sé. «Come sono stato fortunato. Forse una mano amica mi ha guidato. E eccomi qui, in questa nuova terra, dove sono arrivato come fossi un re: la chiamerò proprio così. La chiamerò RE», decise, «Mi metterò subito al lavoro. Voglio scoprire tutte le differenze che dividono RE da DO».

Questa volta fu davvero meticoloso nell’esplorazione: prima l’esplorò tutta in verticale, poi tutta in orizzontale. Finché giunse alla conclusione che non si poteva davvero trovare nessuna differenza dalla terra che aveva abitato in precedenza. Persino la collina che si profilava alle spalle di RE era identica, alla vista, a quella che stava alle spalle di DO. Solo un dubbio sopravvenne in lui: risuonavano allo stesso modo? Anche le mura di RE avrebbero potuto crollare al suono di quel trombone del ragazzino zuccheroso? Dopo l’esperienza che aveva vissuto non era troppo tranquillo: si sentiva in balia degli eventi: aveva compreso che non avrebbe potuto controllare, se non in parte, gli accadimenti del destino. E se avesse fatto le scelte sbagliate? Se non avesse potuto affatto fare delle scelte, ma qualche legge superiore avesse condotto la sua vita.­

Oh, santo cielo, che cosa era questo strepito?

Il ragazzino era stato acciuffato da sua madre per le orecchie e sbattuto davanti al continente che con ogni evidenza doveva contenere le sue terre. Il ragazzino si ribellava con strepiti e lamenti agli ordini di sua madre, la madre da parte sua urlava; il ragazzino urlando piagnucolava; a un certo punto mollò dal naso una specie di uragano i cui venti soffiavano ai trecento chilometri all’ora. Quarantamila goccioline microscopiche si liberarono nell’aria e caddero pesantemente verso il basso, come fossero attratte da una forza che le richiamava verso il centro della sua terra. A Carlo parvero piovere tutte su di lui e ciò confermò la sua idea che lui dovesse proprio trovarsi al centro del mondo. La forza dell’uragano non aveva ancora terminato la sua azione che una nuova, forse più tremenda ondata di goccioline, spinte da terribili venti, tornarono a inondare Carlo il tarlo. Colpì testa, zampe … e ali.

Fu così che, nel bel mezzo di un disastro ecologico, Carlo scoprì che aveva pure un paio di ali. Si trovò catapultato dalla forza dell’uragano sulla nera piattaforma vicina; trattenne le ali presso il corpo, cercando di farle aderire come meglio poteva ai suoi fianchi, compì una serie di capovolte in direzioni diverse, senza poter rendersi conto di ciò che stava accadendo. Nel frattempo l’uragano Katrina si calmò, al ragazzino venne consegnato un fazzoletto con l’ordine di usarlo, le voci si acquietarono; quando tutto sembrò a posto, le forze della natura sembrarono sedate, almeno momentaneamente, lui prese un profondo respiro e capì di essersi assestato su una nuova piattaforma bianca.

«Mìììì», articolò il ragazzino-uragano, sempre nei paraggi, «Mììì». Il mugugno non dispiacque a Carlo il Tarlo; prontamente la nuova terra fu chiamata MI.

Quanto alle ali: che cosa se ne sarebbe fatto ora?

Dovette presto rendersi conto che quelle ali non erano proprio ali: non servivano per volare. A questa conclusione tuttavia non poté arrivare se non dopo svariati tentativi di usarle a quello scopo. Fu duro rassegnarsi, ma alla fine dovette convenire con se stesso che quelle protuberanze non potevano servire per spiccare il volo. Avrebbe tanto voluto possedere l’ariosità di un uccello, spaziare nei cieli, passare di piattaforma in piattaforma superando, sostenuto dall’aria, le voragini che lo insidiavano. Ma non era così.

«Queste ali sono dure e pesanti come pietre», dovette ammettere con se stesso, «non servirebbero a alzare in volo nemmeno una di quelle goccioline piene di batteri che il porcellino mi ha scaricato addosso. Non posso illudermi che possano costituire per me un aiuto per fuggire in fretta, né per esplorare dall’alto. Peccato!» Era molto seccato. Ma nello stesso tempo voleva trovare una ragione per quelle finte ali:

«Vedremo se riuscirò a farmene qualcosa. Non è possibile che la natura me le abbia messe qui solo perché mi procurino fastidi, ci deve pur essere una ragione».

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AUDIO RACCONTO “VIAGGIO DI UN TARLO IN UN’OTTAVA” (quarta parte)

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«VENGHINO, SIGNORI VENGHINO…»

(articolo pubblicato su Parole in rete nell’ottobre 2024)

Il nostro governo ha approvato definitivamente, su proposta del Ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, il decreto per la privatizzazione delle Poste, allo scopo di incassare alcuni miliardi; la svendita non è totale ma prevede il mantenimento di una partecipazione dello Stato superiore al 50%. La rinuncia alla piena gestione statale dei servizi pubblici è un processo avviato in Italia agli inizi degli anni ’90.

In Italia il miracolo economico era stato trainato anche dalle grandi imprese pubbliche, tanto che nel 1991 il nostro Paese aveva raggiunto la posizione di IV potenza mondiale. Ma negli ultimi 3

trent’anni sono sempre più stati favoriti gli interessi privati, che hanno avuto libero gioco nello stabilire costi (per gli utenti) e propri ricavi e guadagni. Ciò ha riguardato tutti i fondamentali servizi della comunità e i beni essenziali, a partire dall’acqua potabile, per passare all’istruzione e alla cultura, alla sanità, le fognature, l’energia, il riscaldamento, i telefoni, le strade, le autostrade, le ferrovie. Persino la Banca Centrale è stata demolita, e posta sotto il controllo della BCE, che è un ente privato. Tutti questi servizi fondamentali si trovano ora in mani private.

Molti ricorderanno che la Corona del Regno Unito ormeggiò lo Yacht Britannia il 2 giugno 1972 al porto di Civitavecchia, pronto per imbarcare personaggi eccellenti che sull’imbarcazione avrebbero poi effettuato una crociera attorno all’Isola del Giglio. Se tecnicamente non possiamo dire che lo Straniero abbia in quella occasione messo piede sul nostro territorio, possiamo però essere certi che l’abbia fatto nei nostri affari: fu infatti durante quella crociera che si decise lo smontaggio, pezzo dopo pezzo, del patrimonio dello Stato italiano.

All’ancora del Britannia… (pardon, volevo scrivere “Sul Britannia all’ancora…”) stavano i più importanti nomi del modo finanziario, economico e bancario britannici. Ospiti italiani: rappresentanti di Eni, Agip, IRI, alti funzionari di banche, Assicurazioni… e naturalmente Mario Draghi del Ministero del Tesoro.

Che cosa voleva Londra?

Assumere il controllo della vita economica italiana. Ma occorre precisare che “Londra” sta per banchieri londinesi e loro associati newyorkesi (Salomon Brothers, Goldman Sachs, Merril Lynch, e loro ampia gamma di sostenitori.

Certo l’Italia non fu la prima vittima, anzi, il collaudo della svendita del patrimonio di stato avvenne proprio sull’isola britannica: dal ’79, grazie alla Lady di Ferro, misero le mani sull’economia inglese, nella piena espressione della filosofia super-liberista. Unico obiettivo delle lobbies: tagliare fuori gli Stati e i loro poteri, perché i privati potessero (e possano) esercitare nel migliore dei modi i loro interessi. Risultato dopo il governo Thatcher: l’economia britannica è diventata fra le economie europee importanti la più arretrata.

Dunque lo scopo anche per l’Italia era: trasformare il sistema economico italiano in un sistema in cui la finanza avrebbe felicemente prevaricato sia l’industria sia la politica, sia lo stato.

Dopo la crociera iniziò l’attacco alla lira e partì l’operazione Mani Pulite. Il regista attento delle privatizzazioni rimase a Draghi, che consentì l’intrecciarsi di affari di gruppi, famiglie oligarchiche e di banche internazionali oltreché di fondi speculativi.

Dunque dal 1992 è iniziata la dismissione delle proprietà di enti pubblici, di aziende statali, spacciata per privatizzazione: in realtà una svendita. Con decreto n. 333 del 1992 sono state trasformate in società per azioni IRI, ni, INA ed Enel. La privatizzazione ha coinvolto l’Ente Ferrovie dello Stato, l’Azienda dei Monopòli di Stato, Agip, Snam. Nel ’93 si è proceduto alla dismissione delle partecipazioni detenute dal Tesoro in Banca Commerciale. Italiana, Credito Italiano, Enel, IMI, STE, INA. Nel 2002 è toccato all’ANAS, poi al Centro Sperimentale di Cinematografia. Nel 1998: Biennale di Venezia. 1999: una serie lunghissima di enti per gli studi storici, letterari, archeologici, artistici, architettonici, erboristici e cinofili.

Grazie alla privatizzazione (= svendita) oggi l’Italia si trova in condizione nettamente peggiore di quella di una trentina di anni fa. Secondo la Corte dei Conti fra il 1993 e il 2010 sono state realizzate 114 privatizzazioni. Eppure, nonostante gli incassi delle svendite, il debito pubblico allora ammontante a millecinquecento miliardi di euro, oggi è quasi raddoppiato: è evidente che il falso obiettivo della riduzione del debito è stata una grande chimera. 

Però il patrimonio è stato smantellato.

«Venghino, signori, venghino, che allo stesso prezzo non ve ne do uno, e nemmeno due: guardate cosa faccio, ne metto uno in omaggio e ve ne do tre…»

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RACCONTO “VIAGGIO DI UN TARLO IN UN’OTTAVA” (terza parte)

(pubblicato su Parole in rete nel settembre 2024)

Esplorava DO ormai da parecchio quando improvvisamente si rese conto che il mondo in cui viveva era un mondo molto regolare: aveva angoli ben squadrati. Poté essere certo anche del colore uniforme che lo ricopriva tutto: il bianco. Poi si accorse, non senza un tuffo di preoccupazione, che al termine della piattaforma si profilava l’insidia di un baratro: una voragine stretta e lunga, una specie di lungo taglio il cui fondo non si poteva nemmeno intravedere. Una profonda angoscia l’assalì. Tuttavia:

«Ho appena iniziato il mio viaggio, non devo farmi sorprendere dal senso di angoscia. Sono certo che tutti i grandi esploratori l’hanno provata, scalando le montagne, salpando sui mari, affrontando la durezza dei ghiacci. E io, dunque, vorrò farmi bloccare da un taglio profondo nella mia roccia? No, dovrò trovare il modo di superarlo», si disse, cercando di darsi coraggio.

Già prima che nascesse sua madre gli aveva raccontato miti e storie, che lui ora non ricordava nei dettagli, ma attraverso quelle storie sua madre gli aveva trasmesso l’idea che i tarli fossero al mondo per “seguir virtude e conoscenza”: dovevano saper divenire abili, coraggiosi, talvolta persino eroici. Quando avevano una meta dovevano saperla inseguire con tenacia, quando anche le avversità si opponevano, dovevano avere persino un certo gusto per l’avventura, quasi fino alla temerarietà. Dai racconti di sua madre Carlo, il tarlo, si era formato l’idea che i tarli fossero davvero importanti per il mondo. 

«Forse», pensò ora, «noi tarli siamo al centro del mondo. 

In ogni caso lui adesso si trovava sull’orlo di un abisso: un taglio profondo lo separava dalle terre che si intravedevano intorno a lui, e sebbene non si profilasse a distanza nessuna montagna e il paesaggio si delineasse piuttosto monotono, come una pianura sterminata, Carlo il tarlo non voleva rinunciare a conoscere quel pezzo di universo che si profilava accanto al suo. Decise per una ulteriore dettagliata esplorazione attorno a sé prima di scegliere con quali mezzi avrebbe affrontato il mostro dell’abisso.

Fu così che si accorse, quasi all’improvviso, di una specie di promontorio, alle sue spalle, di terra rilevata sulla piattaforma, scura come la pece. Si sforzò di portare lo sguardo all’orizzonte. La nera collina era più stretta e forse più corta della sua terra, la bianca piattaforma, ma sembrava incunearsi fra di essa e la terra bianca adiacente, da cui lo divideva la voragine. Non solo: la stessa voragine si prolungava fino a dividerlo dalla collina stessa. La profondità degli abissi, dunque, gli impediva di spostarsi liberamente per conoscere il resto del mondo. Mentre rifletteva sul da farsi, sentì gli ospiti umani intorno a lui mentre parlottavano tutti insieme a voce alta, poi all’improvviso il cielo, che prima appariva color mogano, si aprì. Sentì la madre di Mani Impiastricciate che diceva:

«Su, avanti, devi fare i tuoi esercizi al pianoforte. Te l’ho già aperto. Vieni.».

Il ragazzino piagnucolava e per convincerlo sua madre gli infilò in bocca un biscotto. Alla fine sentì dall’odore che il mangiatore di dolci si stava avvicinando a lui, forse stava sedendo su uno sgabello; protese in direzione di Carlo le mani zuccherose e appiccicaticce e le lasciò pesantemente cadere nelle sue vicinanze.

Un boato fatto da molteplici suoni lo assordò propagandosi nell’aria e terrorizzandolo. Non seppe mai che cosa di preciso era accaduto. 

Forse fu per un improvviso movimento causato dallo spavento, forse fu la potenza del suono: a lui sembrò che le mura di un’intera città fossero crollate. Carlo il tarlo era rotolato sulla collina nera vicino a lui. Non bastava: da lì era scivolato sulla piattaforma bianca immediatamente prospiciente, ma non era caduto nell’abisso!

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AUDIO RACCONTO “VIAGGIO DI UN TARLO IN UN’OTTAVA” (terza parte)

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CHIMICHE TRAME DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

(pubblicato su Parole in rete nel mese di settembre 2024)

Nel ciel, fra bianca scia che si disegna,
v’è chi sospetta oscure macchinazioni,
un velo d’ombre su cui mente regna.

Queste non son di vapore semplici strisce,
ma chimiche trame, d’aerei orchestrate,
che sull’umana sorte pesano e calano fisse.

Alto nel cielo, fra le nuvole sparso,
bario, alluminio, e stronzio si distillano,
mentre al suolo si fa il raccolto avverso.

Laboratori dotti la prova han scritta,
di metalli pesanti l’aria è pregna,
che su terra e acque inesorabil s’affitta.

Piloti pentiti han rotto il loro silenzio,
e nei cuori de’ più accorti il dubbio insinua,
che vi sia dietro un disegno, non pazienza.

Non solo il clima, dicon, si vuol alterare,
ma sulle genti sorge un potere oscuro,
per domar la volontà, il corpo infettare.

Il mondo vede il cielo coperto e spento,
mentre chi comanda celato ride,
di un futuro dove il clima è mal spento.

Questa è la verità, gridan con fervore,
nel silenzio delle autorità ingannatrici,
la speranza del risveglio è il solo ardore.

In ogni scia che solca il firmamento,
v’è chi scorge il segno d’un complotto nero,
e l’umanità si trova in lento sgomento.

O tu che osservi, non farti mai ingannare,
ché dietro a quelle bianche scie eteree,
si cela un male che può il mondo spezzare.

VI è piaciuta questa rielaborazione in terzine, in perfetto stile dantesco, del mio articolo precedente “Non ci sono più le mezze stagioni”? È un vero peccato che l’autrice non sia io stessa, ma Chatgpt!

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NON CI SONO PIÙ LE MEZZE STAGIONI

(pubblicato su Parole in rete nell’agosto 2024)

Leopardi nei Pensieri lamentava che «l’ordine antico delle stagioni par che vada pervertendosi. Qui in Italia è voce e querela comune che i mezzi tempi non son più». Il catastrofismo climatico è ben lieto di appoggiare questa visione: gli si addicono le visioni estreme… purché la colpa sia sempre dell’uomo. Dell’uomo comune, s’intende.

Dell’unica teoria valida, che osserva e dichiara come il clima in realtà sia sempre cambiato, con fasi naturali di freddo e di caldo, se ne frega. L’ultima glaciazione è terminata nel 1850 e ora, come è ovvio, ci troviamo in una fase di riscaldamento. Il clima, infatti, è sempre variato; le congetture catastrofiste, invece, amano prevedere l’aumento esponenziale del riscaldamento globale – è la moda contemporanea, oppure amano, in alternativa, prevedere l’instaurarsi imminente di un’era glaciale, ma questa è una teoria per ora messa in disparte. Non bisogna pensare di dover andare troppo indietro nel tempo per rammentare quando questa ipotesi del freddo fosse di moda: alla fine degli anni ’70 del secolo scorso (1973, 1977) la famosa rivista Time dedicava le copertine al  «global cooling» e al «big freeze». Poi il vento ha girato. Doveva essere un vento caldo! Oggi infatti si parla di emergenza climatica solo nel senso del grande caldo, attribuendone la causa all’opera nefasta dell’uomo e alle emissioni antropiche di Co2. Per gli scienziati seri è evidente che il riscaldamento della Terra è in relazione con cause ben più macroscopiche, come il movimento e le relazioni dei pianeti fra di loro e con la Terra, l’inclinazione dell’asse terrestre e il relativo moto di precessione degli equinozi, e con la naturale variazione atmosferica. Tuttavia la narrazione ufficiale, dedita al pensiero unico (dalle cui istituzioni è stipendiato) insiste sul catastrofismo delle alte temperature, e sulla base del grido di battaglia “la scienza lo vuole”, che spesso accompagna “lo vuole l’Europa”, propone la narrazione dell’innalzamento dei mari, lo scioglimento delle calotte polari, ecc. ecc., tutto come frutto della dabbenaggine dell’umano che inquina.

Inquinamento: questa è a mio avviso la parola chiave. Ma tutta la politica odierna è improntata a confondere e a far confondere nel giudizio delle persone le due cose: inquinamento e presenza di Co2. Gli addetti al giornalist-ismo hanno in tal modo occasione di divenire anche giornalist-ori, tronfi e spudorati approfittatori nel gestire il loro piccolo potere dittatoriale, allineato al pensiero unico, dove nelle salottiere discussioni dei mainstream alla serietà scientifica non è data alcuno spazio. In questi luoghi dove si professano soltanto false verità, costruite ad hoc per la comunicazione di massa, si ignorano completamente le relazioni fra clima e geoingegneria. La narrazione in corso si guarda bene dall’informare che esiste una relazione importante fra le condizioni metereologiche, le cariche elettriche presenti sulla terra e la ionosfera (che sta fra i 90 e i 200 km. dalla superficie terrestre): ciascun fenomeno meteorologico ha origine e si sviluppa da dinamiche elettriche. E queste sì che sono modificabili dall’uomo!

Userò parole molto semplici per spiegare, innanzi tutto a me stessa, come funzioni nell’atmosfera l’incontro fra elettroni (con cariche elettriche negative) e ioni (con cariche elettriche positive). Le cariche elettriche dell’atmosfera sono soggette a variazioni che normalmente dipendono da fattori naturali, dai raggi cosmici, dal vento, dalla radioattività del suolo terrestre. Anche fra le nuvole e la Terra vi è uno scambio elettrico: la parte alta della nuvola è caricata positivamente, quella bassa negativamente; il fulmine si presenta quando la differenza di carica fra nube e suolo produce una scarica elettrica che tende ad annullare la differenza di carica. Se la scarica avviene fra suolo terrestre e parte alta della nube (positiva) si crea un flusso di elettroni provenienti da terra verso la nube. Se la scarica avviene fra terra e parte bassa della nube (negativa) il flusso va da nube a terra. Ciò che oggi avviene ad opera della geoingegneria è l’azione sulla elettricità dell’atmosfera.

Già dai primi del ‘900 gli scienziati hanno compiuto sperimentazioni per agire elettricamente su cielo e nuvole; naturalmente le sperimentazioni attirarono l’interesse di governi e apparati bellici. Già nel ’48 si iniziò a parlare negli USA di cloud seeding come arma di guerra: si era interessati al controllo del clima per mezzo delle radiazioni solari, del reindirizzamento di masse d’aria allo scopo di avviare, eventualmente, una nuova era glaciale. Oggi avviene abitualmente l’azione sull’elettricità dell’atmosfera. Esistono centinaia di brevetti depositati di geoingegneria per la modificazione del clima: prevedono l’uso dei prodotti chimici. Si scaricano nell’atmosfera grandi quantità di polveri sottili ricche di particelle metalliche: sono operazioni iniziate negli anni ’90. Ciò che tutti noi vediamo nel cielo sono le scie chimiche, rilasciate sia da aerei militari che da aerei civili, nonché da aerei cargo che volano a bassa quota e non compaiono sulle rotte di volo. Ma se a occhio nudo chiunque può osservare le scie chimiche (non confondibili con le scie di condensa), non può altrettanto facilmente osservarne il contenuto. Gli aerei infatti rilasciano sostanze tossiche e metalli pesanti: stronzio, alluminio, bario, ferro, manganese, boro, cobalto, sodio, calcio, che agiscono direttamente sull’uomo, ma anche su flora e fauna, e di conseguenza sulla catena alimentare. Sono ormai moltissime le dichiarazioni di laboratori privati, analisti che hanno analizzato il contenuto delle scie chimiche, compreso un comune italiano e i laboratori pubblici della Bosnia Erzegovina; a questi si aggiungono le dichiarazioni di piloti “pentiti” degli aerei incriminati.

Queste scie si espandono per centinaia di chilometri e influiscono sul riscaldamento globale. L’insabbiamento di queste pratiche di geoingegneria è durato decenni e solo recentemente si è sentita pronunciare l’espressione cloud seeding, messa al bando per decenni dalla comunicazione ufficiale.  La realtà è che l’ambiente è oggi usato a fini egemonici, è diventato l’obiettivo determinante delle manovre di chi comanda il mondo: i grandi gruppi di potere che gestiscono il bacino globale degli interessi economici guardano alla gestione globale delle risorse ambientali, contendendosi il controllo. Le capacità di gestire il clima coincide con la capacità di distruggere fisicamente, socialmente, economicamente le aree considerate “scomode”, compresa la popolazione. Non a caso le esplosioni nucleari non sono mai finite, sulla superficie terrestre come nei mari, negli oceani, nel sottosuolo e nello spazio, allo scopo di sperimentare la guerra sismica, con la produzione di terremoti, maremoti, tzunami… Certo l’umano non è nuovo a distruggere l’avversario con mezzi ambientali. Cito qualche esempio.

I Romani cosparsero di sale i campi attorno a Cartagine, perché nulla potesse più crescervi; i pellirosse furono domati e annientati con l’eliminazione delle mandrie di bisonti, loro principale ricchezza nonché fonte di alimentazione. Pitagora, durante l’assedio di Siracusa, diresse con superfici riflettenti i raggi solari contro i legni delle navi romane, che andarono a fuoco; il primo episodio d’ingegneria militare del ‘900 avvenne quando gli americani manipolarono il clima in Vietnam e inondarono di acque torrenziali, quando i monsoni erano già terminati, il sentiero di Ho Chi Minh lungo il quale si muovevano i Vietcong.

Se vi fosse qualcuno ancora dubbioso circa le connessioni fra la creazione di falsi problemi climatici e le pratiche di geoingegneria, fra loro collegati, mi permetto ancora di far riflettere sulla dismissione, che dovrà avvenire entro il 2035, dei vecchi motori a scoppio… ed ecco la soluzione per il pianeta: l’auto elettrica! Chi se frega che le batterie contengano litio nichel cobalto manganese, tanto ci sono i Paesi poveri a produrli a basso costo. Chi se ne frega se per produrre nichel (principalmente in Indonesia) occorre disboscare milioni di ettari di foreste. In Europa siamo green e lo saremo sempre di più. Chi se frega se i processi di lavorazione delle batterie siano bestialmente inquinanti, l’importante è che l’ipocrisia dell’élite sia green. 

Così noi, se continueremo a soddisfare le spinte dei padroni del mondo, saremo pecore green, anche se conteremo sempre meno come schiavi, come servi, come produttori di beni materiali, perché saremo via via sostituiti dall’AI e la stessa Intelligenza Artificiale sarà strumento fondamentale per organizzare una società di pecoroni gestita dalla hi-tech, controllata da telecamere e microfoni, oltre che per mezzo dei nostri beneamati cellulari, spiati da un sistema di sorveglianza impeccabile dal punto di vista tecnologico.

Del resto, la paura è indotta nelle nostre menti con raffinati sistemi di manipolazione e con la reiterazione continua di notizie false, come quella dell’apocalisse climatica che ci attende. Alla paura si aggiunge il senso di colpa, perché ci viene fatto credere che i colpevoli di tanto disastro siamo noi umani: in questo modo l’élite sta addestrando il gregge a un prossimo ravvicinato attacco alla proprietà privata e a un piano di decrescita che prevede importanti restrizioni personali. Le città dei 15 minuti (di cui ho parlato in articoli precedenti) fanno parte di questo più ampio progetto, come le restrizioni alimentari, la rinuncia alle carni in favore di quelle coltivate in bioreattori, insieme all’imposizione di mangiare insetti (sempre più subdola per quanto riguarda le farine).

Insieme all’imposizione di costosissime auto green, alle città green (leggi: ghetti), all’alimentazione green, anche le case dovranno essere green, suddivise in classi e penalizzate, se prive di requisiti fondamentali alla riduzione di Co2: infine ci proporranno la rinuncia alla proprietà privata e l’home-sharing. Per chi sia ancora perplesso consiglio di leggere le “8 Predizioni per il 2030” sul sito WEF ufficile dove al primo punto si dice che la proprietà privata dovrà smettere di esistere. Con allarmi progressivi di ordine planetario, pandemie create ad hoc, somministrazioni di sieri mRNA dannosi per la salute, riduzione di terre coltivabili, espropriazione di terre, emergenze alimentari, ci porteranno a una progressiva riduzione del tenore di vita, e alla disoccupazione di massa, al sequestro di beni privati. Intanto le grandi società finanziarie, appartenenti ai gruppi di potere, si arricchiranno con la produzione di auto elettriche, pannelli solari, pale eoliche, chiusura di allevamenti bovini, coltivazione di carne artificiale… e con i nostri beni.

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LE SUPERCAVIE DEL TERZO MILLENNIO

(recensione pubblicata su Parole in rete nel mese di agosto)

Se nel libro precedente, Reietti, Rossella Monaco ci presentava un’umanità in serio pericolo di mutazione, ora, in Super Cavie, il processo ha già avuto luogo. La super-bio-tecnologia ha già realizzato pienamente la deriva transumanista del genere umano. Gli ibridi umanoidi ottenuti con impianti hi-tech passano da esaltati stati di soddisfazione per la loro nuova condizione di uomini-macchina a sentimenti di rimpianto per lo stato di uomini naturali di antica memoria. Gli esagerati, da una parte e dall’altra, non mancano mai, e vi è chi oscilla fra l’attaccamento al passato della condizione umana, e l’esaltazione del feroce appetito di maggior tecnologia, più impianti, ancora più cheaps… Si riconfermano in questo libro altre scelte di stile già adottate dall’autrice nei suoi libri precedenti: il gusto per una accentuata sessualizzazione di personaggi e accadimenti, che può non essere gradita a una parte di lettori, il gradevole mescolamento di toni alti e bassi, di sacro e profano, di riferimenti altamente culturali insieme a stereotipie e modalità linguistiche dialettali: un mix che consente al lettore di riconoscere in modo certo le sue produzioni letterarie.

Il volume di Rossella scorre a grande velocità, se ne fa una fruizione al galoppo, sia perché il lettore è spinto da un torrenziale flusso di eventi, paradossi, trovate geniali, colpi di scena, sia perché il flusso ritmico narrativo scelto dall’autrice è molto veloce.

Si è tentati di affezionarsi ai personaggi anti-eroici che scorrono fra le pagine, ma non vi è il tempo necessario per una affiliazione affettiva, quando ecco che altri personaggi, altrettanto sfigati, prendono in corsa il posto dei precedenti, in una tragica farsa fluviale. È fluido il ritmo di narrazione come lo è il caotico flusso degli eventi, dei ruoli sociali, dell’incessante e irrazionale avvicendarsi di fatti di questa era di fine kaliuga, caratterizzato da una condizione di polverizzazione atomica priva di consistenza, in cui l’unico parametro valido sembra rimanere la dispersione nella molteplicità e nel processo di dissoluzione.

I nostri grandi timori di uomini di terzo millennio, spaventati dalle narrazioni apocalittiche del mainstream, stretti nella morsa di imposizioni sanitarie e sociali non desiderate, preoccupati del futuro uso delle intelligenze artificiali, delle nanotecnologie, dell’andamento della nostra società, fondamentalmente priva di moralità, tutti si ritrovano in questo volume, catapultati nella piena realizzazione di ogni più pessimistico timore.  La tragedia si colora di toni via via sempre più paradossali, in cui al caos perpetuo si mescola un’efficiente quanto inutile e perversa organizzazione di cose e di uomini.

Al mondo mediatico, onnipresente nei racconti, non può che fare gola la «prima scimmia con cervello umano» o «il primo uomo con corpo di scimmia», protagonista indiscusso insieme a un gruppo di super cavie, super eroi del transumanesimo, perfetti per suscitare l’interesse del mainstream e delle forme spazzatura ad esso care. C’è solo una condizione, anche lì, per poter essere ammessi fra le celebrità: sottostare pienamente alle convenzioni imposte dai gestori dell’informazione e delle regole della società.

Nella nostra vita reale odierna qualcuno ha già accettato di farsi impiantare microcheaps con i quali eseguire una serie di operazioni noiose della vita quotidiana e della burocrazia: non sono che piccoli anticipi su quello che probabilmente sarà il futuro della specie umana; nella vita delle Super Cavie, preconizzata da Rossella Monaco, la tessera bancomat è sostituita da una semplice strizzatina d’occhio, ma, ahimè, sarà di prossima realizzazione il cheap Final Destiny, che prevede il suicidio collettivo.

Non ci sarebbe alcun problema se non intervenisse l’assuefazione ai microcheaps, uguale a quella che si prova per le droghe. Allora le Super Cavie diventano insaziabili. Malgrado la profusione di impianti, proprio come noi, anche loro non sono indenni da una serie infinita di malattie, spontanee o procurate. Per esempio soffrono di «paraplegia del pensiero», che li fa ripetere all’infinito sempre gli stessi atrofizzati pseudo-ragionamenti; oppure soffrono di «personalità labirintica», e il soggetto agisce come un minotauro divoratore del pensiero unico, oppure è penalizzato da «ignavismo dantesco», con cui si sentono perseguitati da vespe e mosconi come nel III Canto dell’Inferno.

Nel mondo delle Super Cavie tuttavia un semplice raffreddore sarebbe impossibile: protetto da un certo numero di mascherine, infilate una sull’altre, i protagonisti sono certamente al riparo da ogni virus, ma stramazzano al suolo per mancanza d’aria. Come avvengono le cure nel loro mondo? Con i quantun dot, collegati direttamente con le basi mediche del Centro Umanitario per il tuo Bene (CUB). Le diagnosi si sprecano e ciascuno, con il proprio documento sanitario elettronico personale, sgomita con gli altri per prendere punti sulla scala sanitaria: pesti bubboniche, malarie perniciose, epilessie e cardiopatie gravi, si disputano un punteggio ragguardevole con forme incurabili di diabete e vanno a formare un bel pacchetto di punti insieme a un certo numero di altre malattie mortali.

L’organizzazione degli umani in gruppi perfettamente sincronizzati nei movimenti e nel pensiero unico è un gioco da ragazzi: l’élite che comanda i software è padrona del mondo e di tutta la popolazione del pianeta. Malgrado ciò nell’insieme la società delle Super Cavie è una società felice. Scrive Rossella Monaco: «Si potrebbe immaginare una società di schiavi orribilmente depressa, nulla di più lontano dalla realtà: gli esseri umani non sono mai stati così felici. Nei secoli di ubbidienza ai vari dittatori e padroni avevano la possibilità di ribellarsi, di erigere barricate, di essere originali, ed è stato proprio questo a renderli inquieti, infelici. Il libero arbitrio è estenuante».

Anche il gioco della guerra fa parte dei giochi voluti dall’élite, anzi è il gioco preferito. Quando la guerra si instaura con gli alieni, poi, può davvero rendere felici. Può produrre la sindrome di Stoccolma e far innamorare del nemico: in special modo del Capitano degli alieni Oronzyo Quoque. Gli alieni circondano la Terra da alcuni mesi e Oronzyo, apparendo in video ai terrestri, ha conquistato un posto nel loro cuore, una sorta di amore/odio, e li ha convinti persino a sacrificare i propri figli in una specie di ecatombe. Ora sta proponendo il sacrificio globale. Noi lettori ci rimaniamo malissimo quando scopriamo che il Capitano in realtà era un funzionario della Nasa che si fingeva alieno.

Finché gli alieni arrivano davvero presso i terrestri. E ci rimangono malissimo. Gli alieni, s’intende, ci rimangono malissimo, perché la Terra è ridotta a una pattumiera.

Quando, nel 2048, in Antropollene, incontriamo l’umanità sopravvissuta, l’umanità è divisa in tre generi fondamentali, suino bovino e volatile, cui si aggiungono alcune sottotipologie, come i Centauri, i Minotauri, gli Antropolli (da cui deriva il nome dell’era). I Minotauri si ritengono superiori ai figli di Circe, i Centauri affermano di possedere sangue blu, agli ovini non resta che belare, ma la vera élite intellettuale è rappresentata dagli Antropolli. 

Non nego di ritenere che il racconto probabilmente più vicino alla realtà odierna sia LGBT+, in cui la pedofilia è ammessa, condizione che oggi, nella nostra realtà è in corso di realizzazione (con ottimi risultati ottenuti dai gruppi internazionali perseguenti la liberalizzazione della pedofilia). Scrive Monaco: «Legge 654, comma…: “Se un adulto fa delle avances a un minore non è un pedofilo, ma un ‘bambinone’, una persona non sviluppata completamente, rimasta cioè nell’età puberale” pur essendo il corpo invecchiato». Uno, insomma, che non bisogna far soffrire con delle critiche inadeguate. Nello stesso racconto, oltre al trastullamento sessuale con i minori, è desiderabile ogni forma di fluidità sessuale: è possibile sperimentare ogni stato, ogni gender, da quello gay a quello asessuato, da quello transessuale a quello queer, da quello lesbico a quello pansessuale… ed è possibile persino sperimentare l’antica condizione eterosessuale.

Esiste anche il genere canuomo o uomo-cane: dà grandi soddisfazioni alla sua padrona, anzi è l’uomo che lei ha sempre desiderato. E questa, finalmente, è in un certo modo una storia a lieto fine, perché quando i ladri assaltano la casa per rubare, sebbene il canuomo non sia in grado di difendersi, entra in scena il cane del vicino, un pericolosissimo gigantesco corso, che divora i ladri e salva il canuomo: nasce così un’amicizia per sempre.

In un mondo distopico in cui tutto è fluido l’apice è rappresentato dalla Fluid Family (è anche il titolo del racconto), in cui maternità e paternità sono surrogate: il coito un episodio del tutto inutile, tutto si fa in provetta. I bambini si ordinano à la carte: sesso, colore pelle occhi, altezza, ecc. ecc. Sentimenti, emozioni… tutto inutile. Tuttavia, anche in questo panorama di efficienza e razionalità può accadere l’imprevisto. Così un figlio scartato (a causa di un paio di occhi verdi) finisce nel programma di smaltimento, secondo la regola, in un centro di scarti umani. Ma nel racconto di Rossella accade che il figlio fallato, rifiutato da chi l’aveva ordinato (come una pizza), divenuto grande, scrive una lettera d’amore alla madre che l’aveva portato in grembo (la parcheggiatrice, nome in codice). L’impossibile avviene; la famigliola biologica si riunisce; è un vero peccato che nel salotto televisivo il loro incontro venga distrutto dalla cattiveria del pubblico. 

Nel mondo distopico delle Super Cavie persino gli Angeli, venuti sulla Terra per offrire un’ultima possibilità di salvezza, vengono sbeffeggiati e presi per matti. In ospedalizzazione forzata, l’Angelo venuto in aiuto degli umani, si trova immerso in un ambiente ospedaliero dove medici e infermieri fanno bottino di braccia, gambe… e ali! Il povero angelo si immerge in un mondo di allucinazioni, finendo col sognare di consegnare pizze in motorino per i gironi infernali della Divina Commedia. In seguito diventerà il personaggio di un blog.

Inutile dire che alla fine gli umani si estingueranno, ma non come conseguenza di tutte le loro scempiaggini, come si potrebbe pensare, ma a causa della caduta di un meteorite sulla Terra. Sul nostro pianeta sopravviverà una sola forma di vita: gli scarabei stercorari, che come è noto si nutrono di merda.

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RACCONTO “VIAGGIO DI UN TARLO IN UN’OTTAVA” (seconda parte)

(pubblicato su Parole in rete nell’agosto 2024)

Era nato, finalmente.

Doveva però dire che anche prima lui si percepiva ben vivo, ora tuttavia sentiva di aver preso una nuova forma. Messa fuori la testa dal suo ambiente abituale sentì una sferzata d’aria. Fu tentato di ripararsi nuovamente nel suo vecchio buco, dove era stato così bene e così a lungo. Accidenti, ma era proprio necessario nascere? Uno non può scegliere di starsene dove vuole? Mah.

Ora comunque era nato. A lui lo stato di larva andava a genio, si sentiva a proprio agio in quel lungo tubo dove aveva potuto darsi un gran daffare. Rosicchia di qua, rosicchia di là, aveva la sensazione di aver percorso una lunga lunga strada. A un certo punto però si era sentito tanto strano. Capiva di non essere più una larva, ma di non essere nemmeno qualcos’altro. Stava cambiando forma: non assomigliava più tanto a un verme, molto di più a un insetto con un vestito molto aderente. Fu proprio mentre si trovava in quella condizione che sentì dire, proprio nella sua direzione: 

«Venite a vedere, ragazzi, qui c’è una bella pupa!»

Una pupa? Ma come si permettevano di chiamarlo pupa, non vedevano che lui era maschio? Non sapeva come prendere la cosa, quando si era accorto dell’arrivo della madre del ciccione dalle mani zuccherose, che sembrava intenzionata a estrarlo dalla sua galleria, che a lui piacesse o non gli piacesse. Se l’era cavata solo perché lei aveva dovuto rispondere al telefono. Aveva lasciato cadere pesantemente il coperchio del pianoforte e era corsa a prendere la sua telefonata, che si era protratta per un bel po’,così lui l’aveva scampata da quel lungo ago uncinato che lei si era procurata per tirarlo fuori. Malgrado gli mancasse ogni esperienza in merito, l’istinto di sopravvivenza l’aveva avvertito del serio pericolo che stava correndo. Era stato lì che si era accorciato e accartocciato quasi come una pallina, per farsi piccolo piccolo. Ridotto alle dimensioni di una piccola mollica di pane, quanto poteva resistere? Allora si era detto: 

«Così non posso continuare, ormai mi hanno scoperto. Se anche io non sono una pupa, se anche si accorgeranno che sono un ragazzo, ho però l’impressione che non mi molleranno tanto facilmente. In questi panni non resisto più, mi stanno stretti. E poi, se cominciano a prendermi per una femmina, ci deve essere qualcosa che non funziona. Che cosa devo dunque fare?», si domandò.

Era in momenti come questi che avrebbe voluto ancora avere sua madre accanto a sé, ma da tempo di lei non c’era più alcuna traccia. «Segui la natura, c’è un tempo per ogni cosa» era stato l’ultimo ammonimento.

Era tormentato, eppure, nonostante tutto, non temeva il corso della natura: un conto era farsi infilzare da un uncino e schiattare adescato dalla madre del ciccione, un conto era affrontare una nuova tappa del suo viaggio. Si diceva che tirare fuori la testa dal buco non doveva necessariamente significare la morte. Perciò smise di fare resistenza, si lasciò andare con uno slancio… e sentì una folata di aria sul capo.

«Mamma, mamma…», mormorò fra sé. Un pulviscolo di luce l’avvolse, come in un sogno, mentre la sua splendida mamma, in veste di coleottero dorato, si strinse vicino a lui, mormorandogli:

«Stai quieto, piccolo mio, io sono vicino a te. Non sai che ciò che per la pupa è la fine del mondo, tutto il mondo chiamerà tarlo

Gli erano sembrate delle parole un po’ oscure, ma in quel momento non aveva potuto farsi tante domande. E poi, era così felice che il sogno della mamma l’avesse aiutato in un momento così difficile. Aveva teso i suoi muscoli, distribuiti in tutta la sua lunghezza di oltre un centimetro e, mostrando una forma atletica che la tuta aderente precedente non lasciava intravedere, si era adoperato in una serie di contorcimenti, allungamenti, espansioni: si era trovato fuori dalla tuta, improvvisamente dotato di zampe, di testa e occhi. Non aveva più nulla dell’hot dog che era stato.

Preso dall’entusiasmo compì una serie di giravolte e di capriole su se stesso, dando prova di una forma fisica invidiabile, finché si trovò all’improvviso nel bel mezzo di una fila di piattaforme, uguali una all’altra, che si allungavano in una serie che a lui parve infinita. Quante piattaforme si susseguissero, una dopo l’altra, non poteva dirlo: erano troppe per contarle. Ce n’erano sette, poi altre sette, poi ancora sette… Oh, ma per quante volte? Almeno per sette volte, e forse non era ancora finita lì. Dovette rinunciare al conteggio. La testa gli girava per tutto quel contare. Cercò di tranquillizzarsi. Doveva rendersi conto che adesso, dopotutto, quella era la sua casa. Fu assalito da una preoccupazione:

«Queste piattaforme sono tutte uguali! Se io mi sposterò da qui, per esplorare il mondo, come farò a riconoscere la piattaforma su cui mi trovo adesso? Riuscirò a tornare indietro? Riuscirò a riconoscere la mia casa?»

Come gli fosse venuta l’idea di poter esplorare il mondo non lo sapeva neanche lui, ma adesso che l’aveva formulata nella sua mente pensò che era davvero un’idea geniale. Lo prese un desiderio molto forte di conoscere, di percorrere su e giù tutto il mondo: almeno tutto il suo mondo. Cominciò a guardarsi intorno sulla sua piattaforma: era forse una boa? Qualcosa gli suggeriva che mancasse qualche dettaglio per farne una boa: una specie di mare. Dovette così escludere l’idea di esplorazioni per mare.

«Credo che per ora dovrò fermarmi sulla terra», disse tra sé. «Questa sarà la mia patria», si disse, «la chiamerò DO»

Cominciò a voltarsi verso sinistra, e fece due passetti, poi tornò verso destra, dove si mosse strisciando per pochi millimetri; fare la retromarcia risultava più macchinoso; procedere in avanti era un’azione molto più sciolta: si sarebbe detto naturale. Attento a applicare i precetti che sua mamma gli aveva lasciato decise di preferire la deambulazione in quella direzione, senza escludere le altre, soprattutto in caso di necessità. Per il resto, avrebbe assecondato la natura.

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AUDIO RACCONTO “VIAGGIO DI UN TARLO IN UN’OTTAVA” (parte seconda)

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LA LEGGE DEL SETTE O LEGGE DELL’OTTAVA

(articolo pubblicato su Parole in rete nel mese di luglio 2024)

Quando da ragazzina andavo a scuola ero rimasta molto incuriosita nello scoprire che nel mondo della chimica regnava, per così dire, la Legge dell’Ottava. Infatti il chimico russo Dimitrij Ivanovic Mendeleev, che non era solo un chimico ma un appassionato di musica, sulla base dell’intuizione di uno studioso che l’aveva preceduto, John Newlands, aveva pensato che anche nel mondo degli elementi chimici dovessero valere principi di ordine e armonia simili a quelli della musica. Mendeleev in buona sostanza assunse l’idea precedentemente espressa da Newlands, che prima di lui aveva proposto una metodologia per classificare gli elementi: essa aveva preso il nome di Legge delle Ottave. Che diceva questa legge? Affermava che quando gli elementi vengono posti secondo massa atomica crescente, ogni gruppo di sette elementi presenta analogia di proprietà chimiche e fisiche: inoltre l’ottavo elemento ad una attenta osservazione si propone come una specie di ripetizione del primo, analogamente a quanto si verifica per l’ottava nota della scala musicale. In seguito alle intuizioni di Newlands, Mendeleev decise di disporre gli elementi in funzione del loro peso atomico crescente, e prese a raggrupparli, ad intervalli fissi e ricorrenti, su basi dell’ottava, avendo l’ottavo elemento rispetto al primo proprietà chimiche e fisiche comuni. Nell’organizzare il suo Sistema Periodico, egli procedette con un metodo empirico basato sulla ricerca delle consonanze. Fu spinto da valori che riteneva fossero presenti in ogni aspetto della vita e dell’universo e così organizzò su base settenaria la classificazione degli elementi. In questo modo constatò la veridicità dell’intuizione, perché incolonnando i valori degli elementi chimici secondo i loro pesi atomici, gli elementi che iniziavano un gruppo di sette, ossia quelli rappresentati dai numeri d’ordine 1, 8, 15, 22 eccetera, presentavano proprietà simili tra loro.

La legge del sette, o dell’ottava, valevole in campo musicale, era passata in tal modo al campo della chimica. Non a caso era un’idea musicale: Mendeleev (e tutto l’ambiente chimico russo) aveva una profonda connessione con l’ambiente musicale. Borodin era un chimico organico. A casa di Mendeleev era solito riunirsi il cosiddetto gruppo dei cinque: cinque musicisti che divennnero grandi compositori, Borodin, Rimsky-Korsakov, Mussorgski, Balakirev, Cui, gli stessi compositori che stavano dando vita ad una tradizione musicale russa moderna indipendente dalla tradizione occidentale classica.

Gurdjieff, filosofo, mistico, maestro spirituale, nel Novecento ci ha rinnovato la memoria della Legge dell’Ottava, sotto profilo spirituale. Secondo Gurdjieff (ma anche secondo molti fisici moderni) tutto l’universo è costituito da vibrazioni: luce, materia, calore, suoni, non sono altro che diverse forme di vibrazione. Le vibrazioni pervadono tutto l’universo e si propagano in tutte le forme, da quella più pesante, più rozza a quelle più sottili; esse variano la loro condizione di stato, poiché seguono fasi di crescita e decrescita.

Nelle parole di Piotr Demianovich Ouspensky, comprese in Frammenti di un insegnamento sconosciuto, (Editrice Astrolabio, 1976), in cui l’autore  riporta gli insegnamenti orali ricevuti, come discepolo diretto del  Maestro George Ivanovic Gurdjieff, la Legge del Sette, o Legge dell’Ottava, è la seconda Legge fondamentale dell’Universo (la prima è la Legge del Tre).

Per comprendere questa legge occorre considerare l’universo consistente di vibrazioni. Tuttavia, «secondo le concezioni abituali dell’Occidente, le vibrazioni sono continue», cioè abitualmente considerate come procedenti in modo ininterrotto, in ascesa o in discesa. Al contrario, secondo l’Antica Conoscenza, le vibrazioni sottostanno a un principio di discontinuità, vale a dire si sviluppano in modo non uniforme, con periodi di accelerazione e di rallentamento. Ad un certo punto, infatti, le vibrazioni smettono di rispondere all’impulso originale e rallentano, tanto che questo rallentamento può indurre un cambio di natura e di direzione: nello specifico «le vibrazioni ascendenti cessano in breve tempo di ascendere e quelle discendenti cessano di discendere». In ogni caso se consideriamo l’intervallo in cui il numero di vibrazioni raddoppia (se è ascendente), o si dimezza (se è discendente), possiamo constatare che si presentano due punti di rallentamento delle forze vibratorie. 

Questo fenomeno era ben conosciuto dalla scienza antica che divideva in otto gradini l’intervallo in cui veniva raggiunto il raddoppio o il dimezzamento: quell’intervallo era (ed è) l’ottava. Ben sapevano, gli antichi, che gli otto gradini erano diversi.

La Legge dell’Ottava, applicata in musica, dà luogo alla scala “DO//RE//MI/FA//SOL//LA//SI/DO”, dove il secondo DO rappresenta il punto di raddoppio. Se consideriamo la scala al contrario, in fase discendente il secondo DO dimezza le vibrazioni.

Dice Ouspenski: «La luce, il calore, le vibrazioni chimiche, magnetiche ed altre sono sottomesse alle stesse leggi delle vibrazioni sonore».Pensiamo a quella che viene chiamata ottava in musica. L’ottava è l’intervallo di otto note consecutive. In due punti dell’ottava l’energia che si propaga diminuisce di intensità, vale a dire che vi è un indebolimento dell’energia. Accade fra Mi e FA, poi nuovamente fra SI e DO: fra queste note infatti vi è un solo semitono ( fra le altre note vivono due semitoni). Quei due punti  (MI/FA e SI/DO) sono punti di crisi. Ebbene, quei punti di crisi si presentano sempre in un processo di trasformazione o creazione o di attività umana. 

La legge dell’ottava spiega perché in natura nulla proceda in linea retta. Nel punto di crisi l’onda rallenta la sua frequenza, e lì si ha una deviazione dalla direzione originaria, tanto che il disegno della linea delle ottave, susseguenti una all’altra, finiscono con il procedere a un certo punto in direzione opposta a quella originaria, piegandosi a cerchio. Ecco  spiegata la ragione per cui, nella vita di ciascuno di noi, nulla va in linea retta. Iniziamo un lavoro con buona lena, sana partecipazione, profusa energia, positiva volontà, atteggiamento applicativo, ma dopo un po’ sentiamo che stiamo per stancarci, iniziamo ad annoiarci, perdiamo fiducia, interviene l’indifferenza, poi forse pure la noia… Insomma abbiamo una perdita di energia vibrazionale che tutto rallenta: stiamo rischiando l’abbandono del progetto, a causa del nostro sentimento divenuto stracco. Talvolta arriviamo a non poterne più.

Questa legge cosmica condiziona le nostre azioni e ci procura alcune crisi, creandoci difficoltà e talvolta rendendoci inefficienti o incapaci di fare ciò che ci eravamo proposti di fare. Solo con grandi sforzi passiamo da MI a FA e da SI a DO.

Anche le età dell’uomo e il suo cammino sulla terra sembrano essere scanditi attraverso una serie di note, personali e collettive. Con la nascita inizia l’infanzia, cui segue la fanciullezza, ma è l’adolescenza il punto di crisi (e chi non l’ha vissuta scagli la prima pietra), e se la vita scorre con relativa tranquiliità attraverso la giovinezza l’età adulta e poi la maturità, la crisi più forte subentra per tutti nella fase della vecchiaia, che ci prepara al salto verso nuova ottava.

Gurdijeff nel suo insegnamento apre uno spiraglio per il superamento della perdita di energia. Introduce il concetto di choc addizionale. Che cos’è? 

Supponiamo di trovarci metaforicamente nell’impasse tra MI e Fa (o SI e DO) in qualche circostanza della vita, cioè in una perdita di energia in qualunque campo (lavoro, amore, arte…): per proseguire nella direzione vibratoria originale avremo bisogno di una bella spintarella (diciamo uno spintone), di un quid di energia in più, uno choc supplementare. Sarà molto difficile, se ci mettiamo in semplice attesa, che questo aiuto arrivi dall’esterno, dal caso, dal destino: saremo noi a dover fare. E qui Ouspensky scrive: «…il controllo delle cose esteriori comincia con il controllo delle cose dentro di noi, con il controllo di noi stessi. Un uomo che non può controllare se stesso, ossia il corso delle cose dentro di sé, non può controllare niente … è fuori questione sperare che gli choc addizionali arrivino da soli, dall’esterno e al momento necessario». Ed ecco le parole più importanti: «…l’uomo può imparare a creare gli choc addizionali».Inutile dire che il processo non può che essere frutto di un atto di volontà. Qui ci fermiamo, lasciando a Gurdijeff e ai maestri l’insegnamento del metodo dello sviluppo della coscienza dell’uomo.

Le mie personali riflessioni sulla Legge dell’ottava mi ha portata a scrivere il racconto Viaggio di un tarlo in un’ottava: è un divertissment allegorico, è una favola. Come avviene sempre nelle favole il protagonista è un animale: un tarlo, la cui sete di conoscenza rappresenta quella di ciascuno di noi, ciascun uomo. Dante scriveva: “fatti non foste per viver come bruti, ma per seguire virtude e conoscenza”; nell’epigrafe che precede il racconto ho giocato a parafrasare le parole di Dante nell’espressione “fatti non foste per viver come bruchi ma per seguire virtude e conoscenza”.

Il racconto è la storia di un tarlo: il tarlo siamo noi. Come noi il tarlo è obnubilato dal proprio egocentrismo, che gli fa credere di essere il centro dell’universo. Malato di tarlocentismo dovrà nel corso della sua esistenza comprendere che non è proprio così, il mondo non gira proprio attorno a lui, e dovrà imparare a compiere molti passi per realizzare un percorso che abbia, rispetto al suo punto di partenza, un valore evolutivo.

Collocato sulla tastiera di un pianoforte, in questo caso perfetta e diretta metafora di un ipotetico percorso di vita con punti di energia piena (fatta da due semitoni) e cadute in difficoltà e prove, (date da più fallimentari semitoni), Carlo sperimenterà la Legge dell’Ottava nella sua vita di tarlo; dovrà imparare a incrementare enormemente i suoi sforzi per superare le negatività che lo attraggono dapprima verso il baratro (che nella sua esperienza fisica si profila a monte della sua regione), e poi per sfuggire in ogni modo alle forze contrastanti dei suoi oppositori. Nel suo caso infine sarà l’amore quella forza aggiuntiva speciale che lo metterà in condizioni di superare il ripiegamento delle sue forze vitali.

Nel migliore dei casi accade anche a noi umani.

Inizia qui una serie di audio contenenti le sezioni del racconto “Viaggio di un tarlo in un’ottava”, lette dall’autrice, in otto tappe, ciascuna insieme alla parte scritta del racconto.

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AUDIO ARTICOLO “PRESENTE SFOCATO” di Letizia Gariglio

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PRESENTE SFOCATO di Letizia Gariglio

(Articolo pubblicato sul mensile “Parole in rete” , giugno 2024)

Nel periodo appena trascorso Torino era bellissima; aggiungeva al suo fascino abituale una patina di brillantezza che la pioggia intensa e prolungata le regalava, lucidando l’ambiente di salotto aristocratico con una patina di cera luminosa. I turisti giravano soddisfatti, godendo anche dei nostri famosi lunghi portici, poi si fermavano e fotografavano. Poi fotografavano. 

Poi fotografano. Poi fotografano. Di solito con il cellulare, o con apparecchi più sofisticati. Al pari dei cacciatori devono impossessarsi della preda, farla propria, a costo di ucciderne la vitalità e l’unicità: devono  catturare per sé. A volte mi chiedo se davvero vedano ciò che hanno di fronte, o se lo vedano solo per fotografarlo, per possederlo. Mi chiedo quanto conti, per alcuni turisti, essere lì nel presente, in quella situazione, di fronte a una specifica opera d’arte, o quanto conti, invece, essere stati lì. L’essere stati lì è confermato dal loro certo possesso, provato dall’esito della foto.

Spesso quelle foto finiranno sui social, e daranno modo a chi le ha scattate di apparire, anzi esse contribuiranno in modo importante alla sua apparenza.Indipendentemente dal valore oggettivo che l’immagine potrà avere, essa contribuirà ad attribuire valore, importanza, forse persino perfezione all’esistenza di quella persona, che senza foto e senza social probabilmente rimarrebbe al di sotto dell’aurea mediocritas, e al contrario, grazie alle immagini, sarà degna di essere celebrata.

A pensarci bene questa storia delle foto, suggeritami dall’osservazione dei turisti, in realtà si applica a molte circostanze, non solo all’ammirazione di  opere  d’arte o di architettura, tanto grandiose per la loro unicità da suggerire una certa tolleranza per l’atteggiamento delle persone, ma si verifica, per esempio, anche di fronte a tanti meno nobili paesaggi: primi fra tutti i piatti di vivande. Non solo quelle consumate in ristoranti prestigiosi, ma persino più modesti hamburger serviti dalla solita catena di fast food. Cosa ci sarà di così magico e importante in queste vivande deteriori da renderle degne di essere storicizzate e immortalate non lo so, ma che ciò accada  – lo vediamo tutti – sono certa. Mi chiedo perché noi umani siamo così poco ambiziosi da voler costruire il nostro particolare album di immagini con riproduzioni così scadenti, ma tant’è.

Ho detto album: che figura desueta! Ma chi mai ha un album oggi? Eppure, molti di noi forsennatamente fotografano. Basta sfogliare i social per constatare quante immagini di cibo passino davanti ai nostri occhi. Il cibo è sicuramente la materia che più è fatta per essere consumata, anzi il suo stesso scopo è quello di essere consumato, divorato, incorporato dalle bocche e poi assimilato dai nostri apparati: sarà dunque la sua più  materiale  vocazione a rafforzare il nostro bisogno di fissarlo in una prospettiva storica? Mi insospettisce questa lusinga che il cibo ci offre, facendosi credere immortale solo perché fissato in una foto. E mi insospettiscono tutti coloro che contribuiscono a diffondere questa moda, che ancora una volta va a sottolineare l’importanza di qualcosa che è sommamente caduco, specialmente materico, quasi ad affermare che solo ciò che appartiene al piano più basso, più tamasico della realtà vale la pena di essere notato,  osservato, scambiato in un’immagine, fatto oggetto di attenzione.

Certo il cibo è quanto di più adatto alla fotografia, per i suoi colori e le  facili sensazioni che subito scatena (per esempio acquolina in bocca), ma non sarebbe meglio accontentarsi di annusarlo, masticarlo, assaporarlo, gustarlo, viverlo attraverso i sensi nel momento presente in cui ci si trova, invece di sottoporlo a un comportamento ritualistico? Sì, capisco che il cibo, anche in fotografia, sia in grado di creare una sorta di socialità allargata,  che  inviti a una  condivisione virtuale, ma…

Mi piacerebbe ergermi al di sopra di tali fotografi, ma temo che la mia eventuale tracotanza sarebbe un po’ ingiustificata. Infatti, se io mi domandassi: «Ma tu, furbastra, non fotografi nulla? Sei sicura di non farlo solo perché sei una schiappa di fotografa?», dovrei mettere la coda fra le gambe e tacere. La verità è che sono attratta da altri generi di vedute: i paesaggi di natura.  E allora, mi domando, io che me la tiro tanto non sono diversa dai turisti incontrati in piazza Castello o dai maniacali fotografi del cibo.

 E perché fotografo (sebbene molto poco)? Forse spero che domani, rivedendo l’immagine, oltre a cullarmi, esattamente come tutti gli altri, nel piacere dell’essere stata, potrò gongolarmi un poco nella sensazione di forza che l’immagine mi darà, potrò provare un sottile piacere percependo che lì, in qualche modo, la natura ce l’ha fatta, è rimasta intatta, ha vinto sull’artificio, ha resistito, ha vinto la sfida con l’opera dell’uomo.  

E in quel momento proverò un brivido di piacere nel constatare il carattere originale di quella veduta.

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QUANDO I “PAMPÌNI” ERANO BUGIARDI. RECENSIONE ANACRONISTICA di Letizia Gariglio (articolo pubblicato su “Parole in rete”, giugno 2024)

Leggerete qui la  recensione di un libro uscito per le edizioni Guaraldi… nel 1972. S’intitola I pampini bugiardi e ne sono autori Marisa Bonazzi e Umberto Eco; contiene un’indagine sui libri «al di sopra di ogni sospetto»: i testi delle scuole elementari. 

Allora si chiamava “scuola elementare” quella che oggi di definisce “scuola primaria”, ma le bestialità contenute nei libri di testo indagati dai due autori sono indegne di esistere nel mondo della scuola. Il titolo del volume gioca con i termini pampìni/ bambini ma anche con pàmpini, parola che diletta il lettore di alcune pagine fra poesiole e raccontini presi in esame, insieme ad alcune casette piccine picciò, antichi princisbecchi, curcume posate su madie di pani profumati, e così via…in un rigoglio di immagini e sensazioni degne di Arcadia, dedita ai piaceri di vita pastorale, fra canti e doni della natura.

Perché parlarne oggi? Il mondo è totalmente cambiato dagli anni ’70, è drasticamente cambiata la scuola e i relativi libri. Eppure a me pare che, allo stesso modo di ieri, i libri di testo continuino a proporre e a presentare una realtà inesistente. Anche se non è più la nostra Italietta l’ambiente di riferimento, e i libri si travestono di (falso) internazionalismo, di ipocrita accettazione di un nuovo tipo di famiglia (la famiglia allargata), anche se  l’amor di patria e dei principi religiosi sono drasticamente arretrati, ultimi della fila, mentre si fanno avanti (false) problematiche climatiche, e altri problemi, tutti rigorosamente – mi raccomando! – di origine antropica. 

Cambiano molto, oggi, le scelte di alcuni parametri: l’importanza del colore, delle illustrazioni, delle immagini, delle fotografie; cambiano i riferimenti sociali e ambientali, si sono aggiunti alcuni dati tecnici e scientifici, ma rimane sostanzialmente lo stesso modo di presentare piccole porzioni di realtà, delle quasi-realtà.

Oggi non si insiste più tanto sulle mamme che lavano e stirano, ma rimane la sensazione che molti riferimenti suonino falsi, spesso persino grotteschi. Oggi, come ieri, i libri di testo dicono molte bugie, contribuiscono a delineare una realtà edulcorata, fatta di luoghi comuni.

I  testi contenuti nel libro dei “pampini bugiardi”presentano contenuti e forme stilistiche che oggi appaiono dell’altro mondo, e a pensarci bene è davvero un altro mondo, ma vi assicuro che apparivano così già allora: un quadretto di stile arcadico in cui il tempo si era cristallizzato, un concentrato, già allora, di arretratezze e piccole bestialità stereotipate. A rileggerle, certe fandonie, non si può fare a meno di aspirare il profumo di messi rigogliose, di campi profumati di fiori, non si può fare a meno di udire lo scampanio delle campane delle chiese del paese, lo sventolio dei bianchi panni stesi, il canto degli stornelli… Insomma in quei libri abbondavano dati di dannunzianesimo tra l’agreste e il pre-industriale; in quelli odierni abbonda la preoccupazione per la semplificazione, la facilitazione, l’inclusività, si patisce per una chiara riduzione lessicale, per una sovrabbondanza di elementi visivi, al fine di facilitare la comprensione. Vi sono inseriti schemi e mappe (che invece dovrebbero essere tracciati dagli allievi stessi), tabelle riassuntive, schede di collegamento fra paragrafi e capitoli, sintesi, sintesi delle sintesi, sintesi delle sintesi delle… devo continuare?

Oggi si curano (non so con quale risultato) i materiali multimediali, i riassunti  vocali; grande attenzione va alle consegne degli esercizi, sempre più semplici, più povere, più frammentate e paratattiche. I libri scolastici si affannano ad attivare forme di insegnamento che attivino strategie per stimolare le competenze, il probelm-solving, l’apprendimento cooperativo. Almeno, così dicono, così dichiarano le loro intenzioni.

Purtroppo, però,  rimangono ancora molte mamme che stendono panni e lavano  piatti, mentre i papà continuano a leggere il giornale.

Ma torniamo alla nostra “recensione”.

Pampini bugiardi metteva in evidenza, quali protagonisti principali di quelle pagine, i poveri. «Il più delle volte il povero», scriveva Eco, «appare solo perché sia affermata ad alta voce la sua condizione privilegiata, la sua serena felicità, la sua vicinanza a Dio, l’immenso piacere che egli trae dalla sua presunta sventura». E infatti i poveri appaiono come i veri fortunati: 

«La gente ricca» si scriveva in un libro di testo «ha tanto da mangiare e può vivere in ozio, e questo provoca spesso delle malattie che la gente povera, per grazia di Dio, non conosce. Ci sono dei mali che si annidano soltanto nei piatti, nei bicchieri, nelle poltrone di seta e nei morbidi letti». 

Tutti avvertiti!

Il denaro è un grande peso che solo i poveri riescono ad evitare (fortunati loro!), mentre costituisce un inevitabile impegno per i ricchi, sottomessi a grandissimi rischi. Ieri come oggi i ricchi si palesavano per ciò che veramente erano: benefattori dell’umanità. Eccoli:

«… Rockefeller fu prima sagrestano, poi modesto impiegato, infine “re del petrolio”. Credeva fermamente in Dio e amava il suo prossimo. Un giorno il Signore parlò al suo cuore: “Cosa me ne faccio di tanti dollari?” Pensa e ripensa… spese somme favolose per istituzioni sociali: biblioteche, ospedali, istituti, opere pubbliche».

Che bravo, vero? Allora non andavano ancora tanto di moda i vaccini, altrimenti…

Qualche volta persino fra i poveri si annidavano i perversi: non solo non donavano grosse somme, ma erano veramente avari; sentite questa:

«C’era una volta un contadino piuttosto taccagno. Quando venne il giorno di ammazzare il maialino, per farne salumi e prosciutti per l’inverno, il contadino cominciò a lamentarsi che di tutta quella grazia di Dio avrebbe dovuto darne la metà al padrone».

Inutile dire che la storia citata finiva malissimo, con la punizione dello spilorcio.

I lavoratori del ’72, malgrado il boom economico che aveva già raggiunto il suo apice, su quei libri erano ancora tutti  zappatori, seminatori, aratori, talvolta fabbri o minatori, tutt’al più legnaioli; assenti gli operai e gli impiegati.

«Stride la pialla, picchia il martello / Canta la sega, fischia il succhiello. / E finalmente canta il lavoro / che a tutti i bimbi porta un tesoro».

Pullulano gli eroi, colpiti a morte, mutilati, colpiti al petto sgorgante sangue, falciati dalla mitraglia. L’esaltazione va soprattutto all’eroe fanciullo; ecco un testo esplicativo:

«All’assalto era come loro.

“Posso raccogliere un fucile?”, chiese un tenente.

“Prendilo!”

Il ragazzo sgambettò contento fra i cespugli.

Al secondo contrattacco scomparve. Lo ritrovarono, disteso nel suo sangue, con il petto squarciato ».

Fine del racconto.

E la scuola… ah, la scuola… una piccola chiesa…:

«La scuola è proprio come una chiesetta / che i suoi fedeli aspetta: / aspetta i suoi fedeli ogni mattina / questa allegra chiesina». Perché, state a sentire: «Lo studio, bimbi, in certa qual maniera, / è anch’esso una preghiera».

Negli anni ’70 le differenze etniche suscitavano simpatia e comprensione  e delle razze si metteva in risalto la differenza… ma  con sottile razzismo. Così leggiamo: 

«L’Arabo ha due grandi affetti: il cammello e la palma. Non conosce patria e ha una rudimentale coscienza nazionale…»

Quanto ai cinesi: 

«I cinesi mangiano carne soltanto nei giorni di festa. Il loro cibo preferito è il riso: riso al mattino, riso a mezzogiorno, riso alla sera…»

Mentre i Lapponi: 

«Ghiottoni dallo stomaco di struzzo i pacifici Lapponi bevo l’olio di merluzzo».

Meno male  che nelle pagine dei libri campeggiava l’esaltazione della famiglia italiana, formata come nucleo ideale, ma, non c’è da dubitarne, sempre contrassegnata da una decorosa povertà, e dalla schiavitù delle donne.

L’educazione civica è golosa occasione per mescolare una  melensa brodaglia di buone intenzioni caritatevoli e per rendere biologici i ruoli delle autorità, riportandoli in un piccolo quadretto familiare,  comparando il ruolo pubblico a quello privato. Così il sindaco fa la parte del buon papà, e la patria fa la parte della mamma: 

« “Sono proprio io – il Sindaco; andiamo, figliuoli”. E mentre salgono per un ampio scalone di marmo, il Sindaco aggiunge: “ Il Sindaco è come il babbo di tutti i cittadini».

E ancora: 

«La Patria è come la mamma / che ti portò sui ginocchi: / la specchi nel fondo degli occhi:  /la celi nel cuore: una fiamma, / un fuoco vivo d’amore».

Malgrado le sviolinate evidentemente l’amor patrio non basta a frenare il fenomeno dell’emigrazione:

«Nessun alto Paese del mondo ha dato agli altri una mole così formidabile di lavoro come il nostro. Vi sono Paesi oltre Atlantico in cui tutto quello che richiese la fatica, è nato dalla fatica italiana. Ovunque occorrevano muscoli, arrivavano gli italiani, tenaci,  ingegnosi, pazienti, tolleranti», Aggiungerei: modesti.

Nel ’72 nei libri di testo delle elementari c’era ancora la prova delle sfruttamento dei bambini nel lavoro.

«L’alba imbianca appena  la nebbia umida e fredda, e già il campanello squilla. È l’amico lattaio che mi porta il latte. Corro ad aprirgli. Egli mi saluta e mi sorride allegro. Ha undici anni…»

Ancora:

«Turi, di sedici anni, e Saro di tredici, erano amici, quasi come fratelli. Lavoravano insieme nella parte più profonda della solfara;  faticavano duramente, per dieci ore al giorno».

Si potrebbe continuare ancora.

Il meglio dei libri di testo lo dà lo studio della storia, dove la preoccupazione principale si rivela essere  «non urtare la sensibilità di nessuno, risultato che si raggiunge dando un colpo al cerchio e l’altro alla botte». Imbalsamate sono le interpretazioni della storia più recente, soprattutto del fascismo e della Resistenza, talvolta comicamente  libere certe interpretazioni della storia più antica. Per esempio: com’era la vita nel Trecento, ci si chiede. E così si risponde:

«In gran conto era l’arte della cucina e sulle mense non mancavano legumi e ortaggi. Per il pane vi erano pubblici fornai».

Cosa facevano le donne?

«La donna passava il suo tempo nello stendere la biancheria al sole, tra il pane nella madia, spolverare, filare».

Erano illuminate le città?

«Per l’illuminazione i cittadini provvedevano, accendendo, dinanzi alle immagini della Madonna, piccole lampade a olio».

Al confronto il ‘500 è tutto uno sfavillio di lusso e agiatezza, un sorgere di palazzi sontuosi, edifici ammirevoli, strade, piazze, fontane. Per una (rara) volta la povertà è gabbata dalle «ville eleganti, circondate da splendidi parchi, ricchi di fontane e statue». 

È evidente che nessuna riflessione è riservata alle differenze fra classi popolari e classi agiate.

Il primato delle scemenze se lo gioca, insieme alla storia, l’insegnamento delle scienze, con la “spinosa” questione della riproduzione umana, Come sorvolare? Non erano evidentemente tempi in cui si potesse rivelare la presenza di certi organi riproduttivi nel corpo umano, né tantomeno la loro funzione. Si usava un espediente per così dire divino:

«Una macchina meravigliosa, il nostro corpo umano, si rimane sbalorditi di fronte al mistero della nascita e della morte, della crescita e del pensiero. Di fronte ad essa non ci resta che ammirare e lodare la potenza di Dio, il solo che poteva costruire un congegno materiale e spirituale così grande e così meraviglioso».

Nell’anno 1970 l’analisi dei libri di testo nella scuola elementare fu soggetto di uno spettacolo teatrale messo in scena dal Collettivo Teatrale di Torino (che in seguito si denominò Collettivo Nuovi Gobbi). Quello spettacolo, Il saggio dei bravi bambini della scuola elementare,  anticipava di due anni i contenuti del volume di Guaraldi.

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AUDIO “QUANDO I PAMPÌNI ERANO BUGIARDI. RECENSIONE ANACRONISTICA” di Letizia Gariglio

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LA VERA SCUOLA DELL’OZIO. RECENSIONE ANACRONISTICA di Letizia Gariglio (articolo pubblicato su “Parole in rete”, maggio 2024)

Vi è mai capitato, tornando su un testo che avevate letto in passato di vedersi produrre nella vostra mente una sorta di squarcio luminoso, un’improvvisa, intuitiva comprensione che in precedenza vi era mancata? Oppure: vi è mai capitato, nel riprendere la lettura di un testo, di trovarvi un contenuto incredibilmente attuale, così calzante alla situazione odierna, o così stimolante per la comprensione della contemporaneità, da offrirne una spiegazione pertinente, per così dire, ante litteram?

Ecco il perché delle RECENSIONI ANACRONISTICHE, su libri del passato, da cui scaturiscono riflessioni, stimoli, pensieri, idee, osservazioni.

Qui la recensione anacronistica riguarda il volume di Ivan Illich Nella vigna del testo. Per una etologia della lettura, Raffaello Cortina Editore, 1994.

«Il testo libresco è la mia casa, ed è alla comunità dei lettori libreschi che mi riferisco ogni volta che dico “noi”: ecco un’affermazione davvero forte di Ivan Illich, (1926/ 2002), filosofo austriaco naturalizzato statunitense. L’autore  è perfettamente consapevole che la casa sia antiquata come una candela in luogo di una lampadina, eppure non può fare a meno di considerare il libro come una fonte «di meraviglia e di gioia, di interrogativi e di amaro rimpianto», alle prese con le ardue minacce sopravanzate con l’ alfabetismo informatico.

Malgrado il libro oggi non rappresenti più la metafora fondamentale della nostra epoca, poiché il suo posto è stato occupato dagli schermi, Ivan Illich si inoltra nel suo testo «per offrire una guida per un punto d’osservazione nel passato che mi ha schiuso nuove vedute del presente».

È sostanzialmente un libro sulla lettura, che incoraggia il lettore a frugare fra gli scaffali delle biblioteche e a provare tipi di lettura diversi. Ed è un’avventura dentro il pensiero di Ugo di San Vittore, espresso nel Didascalicon, scritto attorno al 1128.

«Omnium expectandorum prima est sapientia» ne è l’incipit, di cui una prima, forse troppo spontanea traduzione è «di tutte le cose da ricercare la prima è la sapienza». Ricordo che non fu questa la mia traduzione immediata, operata fra me e me, quando lessi le parole per la prima volta; fu invece: «Di tutte le cose da ricercare la più importante è la sapienza». Prima mi suonava male, in luogo di quella ragione ultima con cui noi definiamo in italiano le cose più importanti. In tal senso la sapienza si presenta per ultima, come obiettivo finale di uno sforzo per penetrare la conoscenza. Noi, infatti, pensiamo allo scopo più importante da ottenere come ultimo, se immaginiamo di scavare e di farci strada verso la sapienza.

Il sottotitolo del Didascalicon è: De studio legendi. Ma che cos’era per i latini lo studio? Sul dizionario di latino di quando andavamo a scuola leggiamo: «applicazione, zelo, diligenza, cura, passione, ardore, desiderio». Inoltre: «occupazione prediletta, inclinazione, gusto». E ancora: «amorevole applicazione alla lettura». Le voci mi rimandano all’idea di una vita dedita alla quiete interiore (ed esteriore), alla concentrazione dell’attenzione al sapere.

Ugo di San Vittore ci presenta il libro come una medicina per l’occhio: ci si espone alla luce del libro, che emana di pagina in pagina, per riconoscere, per divenire consapevoli del proprio Io: «Alla luce della sapienza che fa risplendere la pagina, l’io del lettore si accenderà, e alla luce di questo fuoco il lettore riconoscerà se stesso». Aggiungerei: guardandosi con i propri occhi.

Soffermiamoci però a riflettere sul verbo leggere. Legĕre significa raccogliere, cogliere; si raccolgono noci, erbe, pomi, legni: è un’attività fisica. Leggendo si  raccoglie con gli occhi.  Per Ugo l’attività del legĕre implica la raccolta delle «lettere dell’alfabeto per legarle in sillabe», dice Illich. E non dimentichiamo che nulla potrebbe essere può concreto della pagina, espressione giunta proprio dal linguaggio inerente alla vigna, che significa l’insieme di quattro filari di viti unite con graticci in un quadrato.

Ma come può essere vissuta la lettura? Come splendido ozio.

Meravigliosa parola, il cui perfetto significato è: libertà. Il tempo dell’ozio è il tempo riservato a vacare, cioè a liberarsi, a rendere se stessi liberi. «Vacare studio», diceva Cicerone, cioè rendersi liberi per lo studio. Precisa Illich: «la libertà che si prende di propria volontà». E precisa che S. Agostino era chiamato da Dio a praticare l’ozio. Sento spesso i nostri ragazzi nel loro gergo adolescenziale adoperare la parola svaccare: svaccano quando si riposano, sono liberi da compiti, lezioni e altri doveri, si prendono tempo per sé, liberi da schemi e stereotipi. Non sanno di adoperare, in forma personalizzata, un verbo della lingua latina in un modo molto vicino al significato originario. Possiamo fare a meno di dirglielo, ma non impediamogli di prendersi il tempo per vacare e oziare, vale a dire di sentirsi liberi: non potranno che trarne giovamento.

C’è un’altra parola che si accompagna a ozio, del tutto affine nel significato: è la parola scuola . Scrive la Treccani:  «Termine derivante dal lat. schŏla (dal gr. scholé), che in origine significava (come otium per i latini) tempo libero, piacevole uso delle proprie disposizioni intellettuali, indipendentemente da ogni bisogno o scopo pratico, e più tardi il luogo dove si attende allo studio, accezione quest’ultima nella quale è tuttora in uso».

Scuola come ozio, ribadisco, come tempo libero. Tuttavia, malgrado l’amore per i classici, oggi è molto difficile affidarsi al significato originario, che il risultato di ricerche etimologiche ci promette. La realtà odierna è molto diversa.

La maggior parte degli studenti odia la scuola o la sopporta a mala pena: risulta essere un luogo di costrizione, non un luogo ameno in cui dar spazio, per propria volontà, ad una forma scelta personalmente di realizzazione del tempo libero. È per lo più fonte di stress. Non raramente è motivo di disturbi di salute, non sempre palesemente attribuibili alla causa reale. Le conoscenze (e le osannate odierne competenze!) conquistabili a scuola sono considerate soltanto come tappa necessaria di un iter indispensabile prima di avviarsi verso quella che per ogni individuo è la vita vera: la vita adulta, agognata dagli adolescenti e prefigurata in modo più o meno edulcorato dai bambini. Ben pochi fanno coincidere con la scuola il luogo prescelto per il proprio processo di crescita, di formazione e di maturazione. Capita infatti molto più spesso che questo luogo, il luogo scelto, coincida con il luogo di apprendimento delle attività sportive o, in alcuni casi, tuttavia più rari, con quello di attività artistiche.

La scuola, nel suo complesso, risponde molto male, e non solo per propria colpa, alla nobile intenzione di educare, il cui etimo, non dimentichiamo, rimanda a ex-ducĕre, vale a dire trarre fuori, come anche sollevare, innalzare, portare in alto, e ancora, portare al largo. Non si tratta solo di far lievitare in altezza fisica  i nostri ragazzi, ma di trarre da loro talenti, capacità intrinseche, qualità  dell’anima, in modo da metterli in condizione di veleggiare fra i marosi della vita, imbarcazioni abili nell’affrontare il mare.

Ma genitori e famiglie spingono verso la necessità di passare attraverso gli anni della scuola come attraverso le forche caudine e, malgrado la scarsa convinzione che davvero la scuola possa essere luogo di educazione, sperano che essa possa fungere da azienda in grado di fornire le caratteristiche minime per affrontare poi una vita lavorativa e professionale.

Così si è giunti all’assurda forma attuale della scuola, in cui il branco degli studenti, organizzato in pattuglia ordinata, almeno intenzionalmente, in file e banchi, è sottoposto alla tortura di stare fermi e seduti per un numero svariato di ore, contro ogni legge di natura e contro ogni opportunità legata all’età, allo sviluppo e alla necessità di movimento consono con l’età degli studenti.

Se Aristotele si dedicava alla scholé insieme a gruppi di studenti, coltivando il desiderio di libero apprendimento dei più giovani, mentre insieme camminavano fra i peripatoi, i colonnati dei porticati  (da cui poi il nome di scuola peripatetica), i nostri giovani, imbalsamati come salami nelle scansie dei banchi, vengono imbeccati come polli, da avviare presto verso gli allevamenti intensivi rappresentati dal mondo del lavoro.

Ivan Illich ci ha portati fino a scuola, con una certa amarezza per la scuola odierna. Non vediamo l’ora di immergerci nuovamente nella nostra pratica di lettura, «nella vigna del testo», fra le pagine dei nostri amati libri: esperienza, come ci dice Illich, che coinvolge l’intero corpo. Stendiamo dunque idealmente la mano per cogliere grappoli e gustare  chicchi d’uva, pronti per portare nelle nostre vite dolci sapori raffinati.

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CIABÒT O CHATBOT? di Letizia Gariglio (articolo pubblicato in aprile 2024 su “Parole in rete”)

Mio nonno aveva un ciabòt in fondo al cortile. Il casotto (ciabòt  è parola della lingua piemontese), era il suo regno,  dove lui imperava nel tempo libero con i suoi attrezzi, piegando legni e arcuando ferri. Lì curvava, tagliava, batteva, modellava i suoi metalli (principalmente rame e ferro), rendendoli  malleabili. Inventava e forgiava oggetti utili, ma anche opere d’arte, non so quanto comprese dagli altri membri della famiglia: io li consideravo pura arte. Lì dentro di tanto in tanto, in sua assenza, mi introducevo furtiva – l’ingresso non era autorizzato, e per brevi momenti mi intrattenevo, attratta da fucina, incudine, martelli, pinze, tenaglie. Sognavo il momento in cui finalmente sarei stata ammessa ad apprendere.

Conservo i suoi attrezzi con rispetto e amore. Il ciabòt non esiste più. Il suo tempo si è concluso, così come si conclude il tempo delle vite, della vita. Non avrò più la possibilità di penetrare né in quello spazio, né nell’arte che lì si esercitava, se non nei ricordi carichi di rimpianto.

Ora sto per operare un’altra introduzione, accedendo a qualcosa che per ironia ha un suono molto simile al ciabòt, e forse mi consentirà di introdurmi da qualche parte, non so se per assonanza o per destino.

Ho di fronte il chatbot, o la chatbot (Zingarelli declina al maschile, Treccani al femminile), insomma uno di quei software  che simulano le conversazioni umane, uno di quei dispositivi digitali che hanno lo scopo di interagire con noi (con me, proprio con me! ) come se fossero persone reali: insomma, una di quelle forme di AI, cioè di Intelligenza Artificiale, in grado di giocare con noi al gioco del dialogo. Disposto a simulare un comportamento umano, pur di appagarmi, è adesso pronto a offrimi attenzione, fondando le sue capacità sull’elaborazione del linguaggio naturale e sull’apprendimento automatico.

Il coso a cui sto per rivolgermi è in grado di generare risposte sulla base di un ampio substrato di addestramento che ha appreso da un vasto corpus di dati testuali, che è in grado di trasformare. Realizzato sulla base di 175 miliardi di parametri e di un corpus di testi provenienti da libri, articoli di giornale, pagine web, forum, documenti di vario genere, molti dei quali accademici, e svariate altre fonti di testi, il chatbot è ora pronto per dedicarsi a me.

So che devo essere attenta, so che il ciabòt… perdonate,  il chatbot, ha fregato altri prima di me, fornendo nel dialogo risposte solo apparentemente plausibili, ma che in realtà sono frutto di allucinazioni: si chiamano proprio così. 

Un esempio divertente di fregatura, e nello stesso tempo  un fatto importante di allucinazioni dell’Intelligenza Artificiale generativa riguarda una caso discusso in tribunale negli USA. Una persona aveva citato in giudizio una compagnia aerea, dopo essere stato colpito in volo da un carrello di metallo. Gli avvocati dell’accusa presentarono un fascicolo contenente casi analoghi e condannati in precedenza da diversi Tribunali. Peccato che il fascicolo, redatto con tanta precisione, fosse un’allucinazione di ChatGPT. Che cosa era accaduto? Il solerte chatbot, per compiacere le richieste dei consultanti di trovare in giurisprudenza casi analoghi, pur di non lasciare insoddisfatti gli utenti, si era inventato tutto. Conclusione: multa di 5000 dollari per lo studio legale, che non aveva avuto cura di verificare. E avvocato negligente rovinato.

Non è che un esempio. Bisogna dire che la dubbiosità verso i chatbot serpeggia, eppure la maggior parte delle persone è incuriosita, almeno vuole provare la consultazione. Le risposte possibili saranno con ogni probabilità un impasto fra verità, invenzione, stupidaggini, luoghi comuni, spunti di saggezza e… quid di genialità. In ogni caso saranno risposte poco affidabili, tutte da verificare. Così è la nostra vita con i chatbot: non troppo diversa, almeno nell’attenzione necessaria, da quella della vita reale.

E la vita nel ciabòt com’era?

Mio nonno, sacro custode per così dire di cortile delle proprietà telluriche del ferro e del rame, esercitava la magia della sua attività, un po’ stregone e un po’ creatore: chissà se capace di metaforiche trasformazioni interiori, nel processo di trasformazione dei metalli. Certamente, almeno per me, qualche oggetto di famiglia rimasto rappresenta la continuità fra generazioni, sottolinea l’importanza del passato, e dona agli oggetti il significato simbolico di un’antica promessa, ancora capace di emanare la luce del suo creatore.

Il frutto del ciabòt rimane affidabile, simbolo di connessione, e richiamo costante alla forza e alla capacità dell’uomo.

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INVENZIONI INGEgnALI di Letizia Gariglio (articolo pubblicato su “Parole in rete” in aprile 2024)

Abbiamo trascorso una Pasqua di pioggia, terminata la quale abbiamo scoperto in giardino uno strato di sabbia rossa depositata su erbe foglie e oggetti. Deposito di sabbia sahariana trascinata da venti fino al Nord d’Italia o polveri depositate da scie chimiche?

Vediamo ormai quotidianamente il cielo striato con sostanze rilasciate dagli aerei. L’inizio del fenomeno risale  a molti anni fa e per decine d’anni i media, ma anche molti scienziati, hanno negato che esistessero interventi ingegneristici sul clima, sotto forma di scie chimiche, come qualsivoglia altra  attualizzazione di forme di ingegneria climatica: qualche faccia di bronzo ben stipendiata tenta di farlo anche oggi, seppur con maggiori difficoltà e credibilità zero. 

Sta di fatto che a un certo punto della storia a noi contemporanea, sono iniziate a comparire – improvvisamente – ammissioni di manipolazioni intenzionali, attuate per modificare il clima. 

Sono così improvvisamente comparse anche nel linguaggio dei media, come in documenti accessibili, le ammissioni della presenza di tecniche di modificabilità del clima, vestite con gli abiti delle buone intenzioni del mago della pioggia, che con il suo scientifico bastone faceva la comparsa sul suolo terrestre per donare alla terra tanta buona acqua con pioggia e neve.

Al pari del ciarlatano dalla brillante parlantina del film omonimo, oggi il mago della pioggia ammette persino, di tanto in tanto, di agire per prevenire aspetti dannosi del clima, come grandine, uragani, uhhhhh, e financo dichiara , udite udite, di essere in grado di gettare, come un malocchio, la fattura di un clima dannoso contro il nemico in guerra.- intesa, ovviamente, come guerra economica oltre che militare.

Come non dubitare che il rain-maker (sentite come gli si addice l’accento americano) voglia agire a fin di bene, contro i cattivi? Dove naturalmente i cattivisono sempre gli altri…

Buono è anche il concetto di cloud-seeding, di inseminazione delle nuvole, che viene oggi presentata come dolce pratica, consistente in una casta spruzzatina  nelle nuvole di particelle, come lo ioduro d’argento, per migliorare le precipitazioni.

Con certe premesse la geoingegneria climatica può prontamente essere declinata come personaggio virtuoso, portatore sulla scena di benefici in grado di invertire  il riscaldamento globale. Ciò malgrado l’ammissione della scienza stessa  ( e persino per ammissione dell’Europa) che il rischio di immissione di particelle di gas nell’atmosfera sia sconosciuto, nei suoi effetti a lungo termine. In realtà continuano a mancare seri complessivi studi scientifici, come mancano serie regole internazionali per la gestione del fenomeno, pur escludendo le applicazioni militari. In realtà, infatti, non conosciamo le conseguenze chimiche e fisiche sugli equilibri naturali. In ogni caso, quando le cose vanno veramente male, e in atmosfera gli aerosol troppo spinti causano danni irreparabili, si può sempre dare la colpa alla Cina, capro espiatorio designato a priori.

Intanto sono allo studio nuove tecnologie per incrementare l’albedo della superficie terrestre e marina , vale a dire  la sua capacità di riflettere verso lo spazio la luce solare. Si sta studiando la possibilità di immettere particelle e polveri per impedire alle radiazioni solari di arrivare fino alla superficie terrestre.  È in sperimentazione lo sbiancamento delle nuvole, in modo che riflettano poca luce verso terra e molta luce verso lo spazio. Si stanno progettando e realizzando dispositivi per condurre il calore dei raggi solari nelle profondità delle masse oceaniche. Si sta studiando, in fase più che avanzata,  il posizionamento nello spazio di specchi deflettenti la luce.

Nessuno si domanda, né domanda a noi, per ora ancora abitanti di questa terra, una qualunque forma di consenso su tutte le eventuali alterazioni che stanno progettando e viavia realizzando. Tutte le ricerche procedono nella più completa ignoranza della Dichiarazione di Stoccolma, dove si riconosce agli Stati Nazionali la sovranità delle proprie risorse naturali. Mi permetto qui di riportare i primi cinque punti dei 26 principi:

1. L’uomo ha un diritto fondamentale alla libertà, all’eguaglianza e a condizioni di vita soddisfacenti, in un ambiente che gli consenta di vivere nella dignità e nel benessere, ed è altamente responsabile della protezione e del miglioramento dell’ambiente davanti alle generazioni future. Per questo le politiche che promuovono e perpetuano l’apartheid, la segregazione razziale, la discriminazione, il colonialismo ed altre forme di oppressione e di dominanza straniera, vanno condannate ed eliminate.

2. Le risorse naturali della Terra, ivi incluse l’aria, l’acqua, la flora, la fauna e particolarmente il sistema ecologico naturale, devono essere salvaguardate a beneficio delle generazioni presenti e future, mediante una programmazione accurata o una appropriata amministrazione.

3. La capacità della Terra di produrre risorse naturali rinnovabili deve essere mantenuta e, ove ciò sia possibile, ripristinata e migliorata.

4. L’uomo ha la responsabilità specifica di salvaguardare e amministrare saggiamente la vita selvaggia e il suo habitat, messi ora in pericolo dalla combinazione di fattori avversi. La conservazione della natura, ivi compresa la vita selvaggia, deve perciò avere particolare considerazione nella pianificazione dello sviluppo economico.

5. Le risorse non rinnovabili della Terra devono essere utilizzate in modo da evitarne l’esaurimento futuro e da assicurare che i benefici del loro sfruttamento siano condivisi da tutta l’umanità.

Consiglio di proseguirne autonomamente la lettura, per l’importanza che il documento riveste.

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AUDIO ARTICOLO “INVENZIONI INGEgnaALI” DI Letizia Gariglio

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